Il principe dei divaganti al suo meglio.
Molto addentro alle fonti, alle Scritture come al “Talmud”, e come al solito
documentato, ma sorprendente, sapido. Meglio nella “Casistica dei pasti
romani”, il secondo diffuso vagabondaggio di questa breve compilazione. Che il
frammento “Presenza di spirito” completa. I romani andavano a letto presto, per
risparmiare le candele, e perché non sapevano che fare al buio – “a Roma la
stragrande maggioranza delle persone non accendeva mai una candela, se non al
primo albeggiare”, e lo stesso ad Atene, in Egitto, in Asia minore, ovunque
gli antichi adavano a letto, come braia ragazzi, dalle sette alle nove di sera”,
fino ai turchi. Ma si alzavano presto, perché avevano molto da fare, essendo
abituati alla guerra erano per lo più svegli. E mangiavano poco, si mantenevano
leggeri: una non-colazione la mattina, forse un pezzo di pane duro, un pranzo (prandium) a mezzogiorno di cui nessuno
sa nulla, che si praticava raramente, e comunque in piedi.
La colazione al mattino, si sa,
è invenzione inglese. Ma i romani eccedevano in senso contrario. Ce ne è
rimasto il “boccone”, attraverso il greco βάκκισμος, “una parola derivata (come
molte altre nei secoli successivi ad Augusto) da una parola latina, cioè buccea, boccone”. Eccetera. Fino alla
sorpresa che saltare il pasto di mezzogiorno è la più civile delle abitudini –
tanto più sorprendente per chi, come noi, fino a pochi anni fa si abbuffava
soprattutto a mezzogiorno. E questo è De Quincey, che non si riassume, bisogna leggerlo,
uno sfarfallio di curiosità. Tutte, pare, corrette, per quanto sorprendenti. Sulla
sindone, la toga, la tunica (tunica è in latino
inversione del chiton greco), il
pallio, il peplo.
De Quincey esercita scrivendo l’arte della conversazione. In cui i
suoi visitatori concordi lo trovavano sempre eccellente: gradevole, in palla,
esauriente. “Presenza di spirito” è sulla non-presenza di spirito. Degli
antichi romani e – di nuovo, come per il pranzo di mezzogiorno – degli inglesi:
un mondo di forza e di non metafisica. La “formula” romana era “Hoc age”,
concéntrati, stai attento. “Il romano non era adatto alla filosofia; e er lui era vero solo ciò che era pratico, non aveva
metafisica”. Le cose che si sanno. Ma poi viene Cesare, a esprimere “con rara
perfezione quella particolare grandezza propria dei figli di Romolo”, e le
sorprese di srotolano.
“L’abbigliamento della dama ebrea” è un excursus sugli usi femminili dell’antichità, ebrei ma anche romani,
egiziani, e di ogni dove. Così intitolato perché è la recensione critica di due studi ebraici di orientalisti tedeschi, Theodor Böttiger e Anton Theodor
Hartmann. Veniamo a sapere tutto, senza noia, sui serpenti prediletti nei
gioielli, sugli anelli, gli orecchini, i bracciali, le collane, e sul piacere
del tintinnio, gli anelli al naso, le cavigliere, i pendagli. Nonché sulle
vesti, solitamente un invito alla nudità – una sollecitazione dello spirito se
non dell’occhio: coprenti ma non aderenti, in mancanza di biancheria intima. Non
esenti da curiosità. L’anello (o più anelli) al naso è derivato dall’uso di
anelli al naso dei cammelli e dei buoi, presso le tribù carovaniere, per
attaccarci la corda con cui guidavano l’animale - un pendente molto apprezzato:
al tempo di Salomone di dieci centimetri di diametro.
Thomas De Quincey, L’abbigliamento
della dama ebrea, Ibis, remainders, pp. Pp. 105 € 4
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