mercoledì 11 dicembre 2019

La dietetica dei romani, che novità

Il pranzo inglese, alle sei di sera, è romano, antico romano. Perbacco! Ma come e perché è un’avventura che trascina il lettore per una cinquantina di pagine. Tra storia, filologia, dietetica, organizzazione della società, ritmi diurni – di svago, di (non) lavoro (“il il romano era il più pigro degli uomini”). E ansia del reale. Proprio così: “Ogni giorno ha la sua dose personale, la sua dose di ansietà” – la giornata crea dipendenza, il collasso si evita con una buona cena.     
Il principe dei divaganti al suo meglio. Molto addentro alle fonti, alle Scritture come al “Talmud”, e come al solito documentato, ma sorprendente, sapido. Meglio nella “Casistica dei pasti romani”, il secondo diffuso vagabondaggio di questa breve compilazione. Che il frammento “Presenza di spirito” completa. I romani andavano a letto presto, per risparmiare le candele, e perché non sapevano che fare al buio – “a Roma la stragrande maggioranza delle persone non accendeva mai una candela, se non al primo albeggiare”, e lo stesso ad Atene, in Egitto, in Asia minore, ovunque gli antichi adavano a letto, come braia ragazzi, dalle sette alle nove di sera”, fino ai turchi. Ma si alzavano presto, perché avevano molto da fare, essendo abituati alla guerra erano per lo più svegli. E mangiavano poco, si mantenevano leggeri: una non-colazione la mattina, forse un pezzo di pane duro, un pranzo (prandium) a mezzogiorno di cui nessuno sa nulla, che si praticava raramente, e comunque in piedi.
La colazione al mattino, si sa, è invenzione inglese. Ma i romani eccedevano in senso contrario. Ce ne è rimasto il “boccone”, attraverso il greco βάκκισμος, “una parola derivata (come molte altre nei secoli successivi ad Augusto) da una parola latina, cioè buccea, boccone”. Eccetera. Fino alla sorpresa che saltare il pasto di mezzogiorno è la più civile delle abitudini – tanto più sorprendente per chi, come noi, fino a pochi anni fa si abbuffava soprattutto a mezzogiorno. E questo è De Quincey, che non si riassume, bisogna leggerlo, uno sfarfallio di curiosità. Tutte, pare, corrette, per quanto sorprendenti. Sulla sindone, la toga, la tunica (tunica è in latino inversione del chiton greco), il pallio, il peplo.
De Quincey esercita scrivendo l’arte della conversazione. In cui i suoi visitatori concordi lo trovavano sempre eccellente: gradevole, in palla, esauriente. “Presenza di spirito” è sulla non-presenza di spirito. Degli antichi romani e – di nuovo, come per il pranzo di mezzogiorno – degli inglesi: un mondo di forza e di non metafisica. La “formula” romana era “Hoc age”, concéntrati, stai attento. “Il romano non era adatto alla filosofia; e er lui  era vero solo ciò che era pratico, non aveva metafisica”. Le cose che si sanno. Ma poi viene Cesare, a esprimere “con rara perfezione quella particolare grandezza propria dei figli di Romolo”, e le sorprese di srotolano.
“L’abbigliamento della dama ebrea” è un excursus sugli usi femminili dell’antichità, ebrei ma anche romani, egiziani, e di ogni dove. Così intitolato perché è la recensione critica di due studi ebraici di orientalisti tedeschi, Theodor Böttiger e Anton Theodor Hartmann. Veniamo a sapere tutto, senza noia, sui serpenti prediletti nei gioielli, sugli anelli, gli orecchini, i bracciali, le collane, e sul piacere del tintinnio, gli anelli al naso, le cavigliere, i pendagli. Nonché sulle vesti, solitamente un invito alla nudità – una sollecitazione dello spirito se non dell’occhio: coprenti ma non aderenti, in mancanza di biancheria intima. Non esenti da curiosità. L’anello (o più anelli) al naso è derivato dall’uso di anelli al naso dei cammelli e dei buoi, presso le tribù carovaniere, per attaccarci la corda con cui guidavano l’animale - un pendente molto apprezzato: al tempo di Salomone di dieci centimetri di diametro.
Thomas De Quincey, L’abbigliamento della dama ebrea, Ibis, remainders, pp. Pp. 105 € 4

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