Bach – È “arabogotico”, A. Savinio, “Scatola sonora”:
bello, checché voglia dire.
E non è profondo – ancora Savinio: “Il contrappunto
è nella musica ciò che la dialettica è in filosofia. È la dimostrazione del
principio che «da cosa nasce cosa»” come uno che fischiettasse, sovrappensiero.
“Il contrappunto, e così la dialettica, vanno a scapito della profondità. Ed è
appunto questa mancanza di profondità di Bach, questa sua ingenua serietà,
questo suo «non costituire pericolo», che fanno il suo fascino e giustificano
l’attrazione che ch’egli esercita ormai sulla borghesia”.
Barba – Riportata in auge e anzi imposta dal messianismo
islamico, di vaie confessioni o sette, sciite, ismailite, sunnite salafite, fu
il segno distintivo della maschilità per tutto l’Ottocento, con poche eccezioni,
quasi tutte di letterati. Marx se la fece radere, insieme con la folta capigliatura
dei ritratti, ad Algeri, quando vi andò in vacanza dopo la morte della moglie,
ed era vecchio e malato, scrivendone a Engels il 28 aprile 1882 in questi
termini: “Ho messo da parte la mia barba da profeta e la parrucca in testa”.
Si
argomenta anche su questo punto in “Grand Hotel Scalfari”, in questi termini: “Nel
2001 una mostra sulle barbe italiane chiarì che quelle davvero storiche sono
tutte ottocentesche, le barbe del Risorgimento: Garibaldi, Mazzini, Vittorio
Emanuele, Cavour, Verdi, ma anche Mameli e poi Carducci. Al contrario, la storia
d’Italia del Novecento è decisamente sbarbata, nonostante la barba fiumana di
Gabriele D’Annunzio, quella fascio-aviatoria di Italo Balbo e quella fascio-idealista di Gentile. L’era
della Dc fu sbarbata e il Pci aveva un pensiero ben rasato”.
La
barba è vecchia materia di discordia. Per Marx il suo avvento segna la fine
della borghesia: “La rivolta degli uomini moderni con la barba sta minando le
basi su cui la borghesia focalizza la sua attenzione. La sua caduta e la
vittoria della barba sono ugualmente inevitabili”.
A
Bessarione costò il papato: entrò papa al conclave del 4 aprile 1455 alla morte
di Niccolò V, ma la barba indispose i cardinali. La chiesa restò così divisa,
latina e ortodossa, che Bessarione avrebbe unificato. Benché
danneggiato dalla barba greca, Bessarione fu più volte per diventare papa. Ma
sempre la Francia glielo impedì. Nel conclave di Callisto III, nel 1455,
l’elezione fu bloccata da Alain de Coëtivy, cardinale d’Avignone. Nel 1472,
narra Benedetto Orsini, vescovo di Alessio in Albania, nella “Verità essaminata”,
“permise Iddio che il detto cardinale finisse in breve tempo la sua vita, con
grandissimi dolori colici, e tutti l’altri suoi seguaci finirono con poca loro
riputazione l’un dopo l’altro”: reduce da un’ambasceria al re di Francia Luigi
XI, “s’ammalò in Torino, “con sospetto di veleno”, e a Ravenna morì. Lo stesso
giorno e degli stessi sintomi del podestà veneziano di cui era l’ospite,
Antonio Dandolo – che era sbarbato.
Una
Virgo, fortis, denominata Vilfgefortis, in Germania, tanto pregò di
farsi trovare brutta dal promesso sposo, un princiope pagano, che Dio la
accontentò facendole crescere una folta barba. Così è raccontata da Fo in
“Dario e Dio”, p. 143: la barba “fece fuggire a gambe levate il fidanzato e
infuriare come una belva suo padre. Non sapendo più che farsene di quella
vergine irsuta, pensò bene di crocifiggerla in nome di quell’intervento divino
tricologico”.
Bembo - Viaggiava molto per studiare.
Dappertutto a caccia di donne, il futuro cardinale ne era avido, i suoi amici
per questo lo soprannominarono il Motta, per assonanza con potta. La sua
studiosa Carla Rossi Bellotto arguisce che l’appellativo derivasse da una sua
proprietà in campagna, ma il doppio senso è chiaro - la rima è ancora quella in
tarde canzonette di Rossini negli anni 1850, quale “Hai la sottana”: “Hai la
sottana\stracciata e rotta,\mostri la po…,\mostri la po…,\mostri la povera tua
condizion”.
La
pratica usava per sgombrare la mente alle amate dissertazioni sulla lingua, come
annotava all’epoca un chiosatore anonimo delle lettere dei suoi amici, il Caro,
il Molza, l’Aretino, il Bronzino: “Il Motta, amando più donne a un tratto,
amava senza passione e perciò il suo giudizio non era corrotto”.
Chesterston – “Di “sottile, astuto filisteismo, che
ce lo rende così odioso” per Soldati. A proposito di “Scrittori inglesi e
americani” di Emilio Cecchi, 1935, la raccolta di saggi. Soldati non perdona a
Cecchi la “professione” di cattolicesimo: “Il cattolicesimo, fra gli intellettuali
di oggi, è l’ultimo rifugio dei più scettici e sfiduciati”.
Immigrati – Nei tanti sceneggiati Ra che si
vedono, a Torino Aosta, Matera, Prato, non c’è mai una faccia di immigrato, nemmeno
per caso – giusto un gruppo di contorno, in un episodio di “Pezzi unici”, di
africani in un programma d’integrazione. Anche se ve ne sono tanti, per esempio
a Prato. Ce n’erano invece nei Montalbano di vent’anni fa, in Sicilia, parte
del contesto.
Leggere – “Per me leggere è un piacere. Continuo
a ignorare il contenuto di libri che ho letto. E persino di quelli che ho
scritto” – U.Eco, alla Fiera del libro di Torino dieci anni, alla presentazione
con Jan-Claude Carrière del loro libro “Non sperate di liberarvi dei libri”.
Scrivere – È “scavare un pozzo con un ago” per Orhan
Pamuk, che Gianluigi Beccaria molto apprezza , traendone il titolo del suo
“Intorno al mestiere di scrivere”. Ma è uno “scavo” o non piuttosto una
passeggiata, con e senza meta, un trekking al buio?
Sessantotto - Il
“partito dei fiori e degli usignuoli” è di Heine, che voleva la giustizia
coniugata con la bellezza.
Stendhal - Beyle
divenne Stendhal a 34 anni. Per scrivere articoli di giornale. Non è mai troppo
tardi?
Verdi – Verdi “in
una foto del 1855 circa” nel programma di sala di Santa Cecilia è tutto un
altro. Chiaro, fronte ampia, occhi e capelli
chiari: un biondo, seppure padano. Cambia molto anche della lettura dell’arista,
della sua musica.
Viaggiare – “Il viaggio è un sentimento, non
soltanto un fatto”, M. Soldati,”Viaggi di letterati” (in “appendice a “Viaggio
a Lourdes”).
C’è chi viaggia
per passare il tempo, riflette Soldati, un “breve edonismo” – che rimprovera a
Aldous Huxley: “L’incanto del viaggio per me è precisamente l’opposto. È un
incanto attivo, non passivo. È il potere, che ogni viaggio ha, di turbare e
sconvolgere tuta la vita”.
Yiddish – Per Manldel’stam (“Il rumore del
tempo”, 1925, p. 33), “lingua melodiosa, interrogativa, sempre stupefatta e
delusa, con accenti marcati sui semitoni”. Stupefatta dunque, ben prima dell’Olocausto:
gli ebrei si sorprendono a essere tedeschi.
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