Gli interpreti assecondano bene Livernmore. Soprattutto Luca Salsi, il baritono
che è un incredibile Scarpia, sempre nel tono giusto, nella dizione e nel
canto, e Francesco Meli, il tenore Cavaradossi. Meno Netrebko, che non ha più
il timbro scintillante di qualche anno fa, e si presenta gonfia, una
“primadonna” vecchio stampo a cui il fisico veniva perdonato in virtù della
voce, mentre oggi l’immagine è anch’essa preminente – e poi Tosca, come ha
spiegato Raina Kabaiwanska a margine della serata, la Tosca per eccellenza, con
oltre 400 impersonificazioni, è doppiamente primadonna, essendo una cantante di
suo, che si presenta all’amato perseguitato
Cavaradossi e al pubblico come una cantante capricciosa di successo.
La monumentalità del primo atto, che Livermore ha voluto nelle
scene, nella recitazione, nei movimenti corali, si scontra con la semplicità
del tema: mettere in salvo un amico che al tempo dell’occupazione napoleonica è
passato col nemico, con Napoleone, seppure nel nome della Repubblica e la
libertà. Con scene da giudizio finale mentre c’è solo una fuga dal carcere da
proteggere. L’opera verista si vuole semplice, solo così colpisce. Nel secondo atto
il motivo libertario viene sottolineato, che non c’è nell’originale: siamo nei
giorni di Marengo, in cui Napoleone sconfigge gli imperiali, e quindi anche i
Napoletani, e si riprenderà Roma, ma non si fa festa a Roma per questo. L’occupazione
napoletana, di cui Scarpia è funzionario, non è stata maledetta a Roma, mentre
quella napoleonica sì, essendo consistita in saccheggi e abusi, di Stato e della
truppa, com’era d’uso per le armate rivoluzionarie francesi.
I librettisti Illica
e Giacosa, e lo stesso Puccini, si limitato ad accennare alla questione – siamo
nel 1900, in clima ufficialmente ancora risorgimentale e anticlericale, ma
senza illusioni. Floria Tosca è una
cantante innamorata, non un’eroina.
Giacomo Puccini, Tosca, Teatro alla Scala
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