mercoledì 4 dicembre 2019

Presi nella rete - i monopoli internet

“Finché al capitalismo di sorveglianza e ai suoi futuribili mercati comportamentali  si consente di prosperare, il possesso dei nuovi mezzi di modifica comportamentale eclissa il possesso dei mezzi di produzione come la fonte della ricchezza e del potere del capitale nel secolo ventunesimo”. Con accenti paleo marxisti, da vecchio partito Comunista, una requisitoria biblica, ma fondata sui principi  economici, della scienza economica. Anche perché il paleomarxismo è una forma estrema di liberalismo, il cui esito finale è l’anarchia, e non per caso la voluminosa ricerca è pubblicata in Italia, un’operazione editorialmente impegnativa, dall’università liberale per eccellenza.
L’approccio di Zuboff, la maggiore esperta di psicologia sociale, emerita a Harvard, alle promesse e allo stato di internet è anzitutto etico, cioè politico. Ma l’evidenza che porta è economica. È l’analisi pronta, intuitiva ma meticolosamente illustrata e provata, di come Amazon, Google e Instagram, Facebook e Tweet (doppiati in questi dicotto mesi dal licenziamento del volume dalle centrali cinesi, n.d.r.), tutte le forme del nuovo capitale della comunicazione, massificano l’individualizzazione dei consumi. Uno sviluppo che che ha poco o nulla dell’“inevitabilismo” tecnologico, e molto invece dell’“orientamento economico” di Max Weber, di una “azione economica”. Cioè di una politica gestionale, cui la tecnologia solo offre “i mezzi appropriati”. Per un meccanismo semplice già individuato da Durkheim, che la produzione (il capitale) si adatta alle “nuove condizioni di esistenza”che lo sviluppo tecnico viene via via creando, impadronendosene.
I monopoli della comunicazione se ne appropriano con la parcellizzazione della funzione di consumo, la singolarizzazione, e col tracciamento dei comportamenti e gli orientamenti più reconditi e le pulsioni. E si affermano, all’istante, per il bisogno dell’utente-consumatore di uscire  dal consume di massa: se ne appropriano l’esigenza, e la massificano. Con ramificazioni più sottili ed estese di ogni altro mercato mai esistito.
I comportamenti, una miniera
Questo lo vede ognuno. Internet è presto diventato, da pascolo di libertà, una minuziosa e gigantesca rete di controllo. Filosoficamente, o come sociologia della comunicazione, lo sviluppo è stato pensato da Marshall McLuhan, con “La galassia Gutenberg”, 1962, sul passaggio dall’oralità alla scrittura, e dal sociale o comunitario all’individuale, e con “Gli strumenti del comunicare”, 1972, sulla creazione del “villaggio globale”. La rete è presto evoluta nella forma del “Truman Show”, 1998, del villaggio globale chiuso in una bolla totalitaria.
Sono cadute pesto le prime-pie illusioni, che il mercato dell’informazione in rete, senza frontiere, avesse intriseca “una qualche forma interna di contenuto morale”, che essere “connesso” è “qualcosa di intrinsecamente sociale, innativamente inclusivo, o naturalmente tendente alla democratizzazione della conoscenza. La connessione digitale è ora un mezzo a scopi commerciali di altri”. A fini di profitto. Profittando di “eventi storici, quando l’apparato nazionale di sicurezza allarmato dagli attacchi dell’11 settembre fu portato ad alimentare, imitare, proteggere e appropriarsi le capacità emergenti del capitalismo di sorveglianza a scopo di conoscenza totale e per  la sua promessa di certezza”.
Un meccanismo subito esteso a tutta l’economia internet – a tutta l’economia, va aggiunto, la rete è un servo invadente. Non c’è un mercato, uno scambio, spiega Zuboff con serie interminabili di casi. Noi non siamo i clienti del capitalismo di sorveglianza, siamo la sua miniera, a cielo aperto. E non è solo questione di soldi, non di prendi i soldi e scappa: è un sistema che si viene costruendo sopra la società globale.
I nuovi poteri
Si è sviluppato a velocità utrasonica un “mercato”, il “capitalismo della sorveglianza”, che si impadronisce dei dati personali di ognuno e dei suoi comportamenti e li trasforma in dati di comportamento a fini commerciali. Per ora commerciali, ma già – Russiagate, Oxford Analytica e altre interferenze – politici, se non ancora di sistema: il big data come riserva di potere politico, per molti aspetti assoluto, incontrollabile cioè e inevitabie. Siamo già al controllo dei comportamenti economici o di consumo, si punta alle emozioni e alle voci, veicoli di promozione-indottrinamento.
 “Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri” è il sottotitolo. Ambizioso programma, forse in funzione scaramantica – il futuro non sembra, come il presente, apocalittico. La stessa studiosa ha individuato, analizzato, sistematizzato tre diversi futuri nell’arco di trent’anni, o poco più, come lei stessa ricorda. Ora siamo nella fase in cui l’ingegnoso, benevolo, benefattore Google, che ci fa trovare tutto con un clic, mette a frutto plurimiliardario la conoscenza che con i clic si fa di noi. Cosa mangiamo, cosa compriamo, chi vediamo, dove abitiamo, per chi (presumibilmente) votiamo.”
“Già nel 2018 nel 1018 le presupposizioni della Società Informata erano via col vento”. Dove sono finite? “La Società Informata, come altri progetti visionari,immaginava un futuro digitale che potenzia gli individui a condurre una vita più reale e attiva”. È il contrario che è avvenuto: è “l’oscuramento del sogno digitale e la sua mutazione rapida in un vorace e del tutto nuovo progetto  commerciale che io chiamo capitalismo di sorveglianza... Dall’analisi al controllo e alla gestione”. Un affare colossale: “Alla fine del 2018 il mercato globale della «casa intelligente» era valutato a 36 miliardi di dollari, e si prevedeva che giungesse ai 151 miliardi nel 2023”.
Orwell, e Deleuze
È Orwell, “1984”, qui abbondantemente citato: i numeri dietro l’ideologia. E Deleuze, che Zuboff invece trascura, “Poscritto sulle società di controllo”, pubblicato prima in “L’autre Journal”, poi in “Pourparler”, 1990, che a seguire sulla “società dei consumi” e la “società dell’informazione” vedeva quella del controllo.
Siamo definitivamente nell’“età della sorveglianza”, o del controllo, occhiuto, invasivo, penetrante, costante? La dizione è già nel linguaggio comune americano, avendo rapidamente soppiantato quella di “età dell’Ict” o “dell’informazione”. Ed è oggi, non nel Sette-Ottocento di Foucault, la “vera società” della sorveglianza. Non della sorveglianza come atto punitivo, ma come atto comune, corrente, commerciale, “naturale”. Come la mente (l’amicizia, la parentela, gli interessi culturali, gli hobbies, il lavoro e il tempo libero, l’occupazione e lo svago, gli affetti e le passioni) è sfruttata per carpire dati. Un procedimento che a sua volta reagisce sulla mente, condizionandola, cambiandola, anche rapidamente, anche radicalmente. Un’architettura globale di sorveglianza. Non poliziesca, commerciale. Ma tale da indurre poi i comportamenti, in automatico o quasi, invece che sanzionarli. Ubiqua, altra novità, continuativa, senza soste. E invasiva, senza eccezioni o riguardi.
Liberale e libertaria contro il liberismo
La Bibbia del nuovo populismo. Del ritorno al rispetto dell’individuo e dei popoli, delle differenze. Non marxista negli esiti, non socialista: liberale e libertaria nell’impianto, di radicale condanna del liberismo – che come si sapeva quando l’economia politica era una scienza approda inevitabilmente al monopolismo, allo sfrutatmento intensivo e illimitato.
Zuboff riassume gli esiti della sua ricerca prima di cominciarne l’esposizione, all’ipotetica voce “Capitalismo di sorveglianza” di un nuovo dizionario. Con ben otto significati, altrettanti capi d’accusa in una teoria liberale del mercato, radicali. “Un nuovo ordine economico”, che fa dell’“esperienza umana la sua materia prima”. “Una logica economica parassitaria”, che la produzione di beni e servizi subordina “a una nuova architettura globale di modifica comportamentale”. Una “furfantesca mutazione del capitalismo, segnata da concentrazioni di ricchezza, conoscenza e potere senza precedenti”. Una “economia di sorveglianza”. Una “minaccia alla natura umana”. L’origine di “un nuovo strumento di potere” sulla società e la “democrazia di mercato”. Un movimento “inteso a imporre un nuovo ordine collettivo basato sulla certezza totale”. “Un esproprio di cruciali diritti umani” come “un golpe dall’alto: il rovesciamento della sovranità popolare”.   
Uno scontro di due forme opposte di populismo, alla fine: quello liberale e quello liberistico, del popolo dei digitanti. Una conclusione che però Zuboff evita – la sua conclusione, “un golpe dall’alto”, è da terzomondismo, quando usava: dei frequenti, inevitabili?, colpi di mano che lo contrassegnavano, sotto questa o quella bandiera, popolare, democratica, socialista, eccetera, ma tutti di dittature, personali.
L’esposizione, appassionata, comincia dalla coda, dal futuro: se “il futuro digitale” non sarà “patria”, per i più, “o esilio”, se non saremo “operai o sudditi”, “padroni o schiavi”. Un Armageddon prospettando, il luogo dove i cattivi re, complici della Bestia, confluiscono per la guerra contro Dio. Un Behemot hobbesiano in chiave digitale.
Con un indice dettagliato dei vari capitoli, centocinquanta dense pagine di note, e un fitto indice dei nomi e le parole chiave.

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