venerdì 6 dicembre 2019

Se l’ebraismo è irriducibile

“Noi siamo un anacronismo… Questo non significa che dobbiamo sparire… Dobbiamo anzi con quello che c’è di sano, di vigoroso, nella nostra razza rinsanguare le sfibrate aristocrazie occidentali che hanno poi più ragioni di vivere perché hanno radici profonde nella terra, nella storia europea, mentre noi siamo nomadi…”. Al centro del romanzo, il ragionamento centrale, gattopardesco, dell’uomo d’affari ebreo di successo, già liberale, risorgimentale, ricevuto a corte, che decide di consacrare l’ascesa sociale con l’impenetrabile aristocrazia nera, per via di matrimonio, salvandola dalla miseria e col sacrificio della figlia. “I «Promessi sposi» dell’ebraismo otto-novecentesco”, secondo Alberto Cavaglion. Ma non esattamente. Forse come valore simbolico, ma non di contenuto o di prospettiva: non è un romanzo storico, il ritratto di una nazione, di un modo di essere (dei suoi modi di essere), ma di una vicenda particolare, e perfino speciale, in un momento specifico.  
Castelnuovo è uno degli ultimi, si potrebbe dire, prima del diluvio. Uno che non vive il dilemma, è italiano e basta. Uno che si è fatto da sé, come i più, lui in particolare, essendo stato abbandonato dal padre commerciante subito dopo la nascita. Tra mille mestieri avventizi. Veneziano di adozione, narratore infine prolifico, autore di una trentina di romanzi, di buon successo nel secondo Ottocento, apprezzato da Croce, “dilettoso narratore” ancora per Luigi Russo, poi eclissato, ristampato con questo romanzo negli Stati Uniti da Gabriella Romani - editor di Edith Bruck, italianista nelle università americane, ispirata dagli studi di Alberto Cavaglio - e recuperato infine anche nell’originale italiano dalla stessa Romani. “I Moncalvo” è una delle ultime opere di Castelnuovo, 1908, quando già era collaboratore apprezzato delle migliori riviste e introdotto negli ambienti letterari e editoriali milanesi. Il romanzo fu tradotto in inglese, francese, tedesco e russo. Castelnuovo morirà poco dopo, nel 1915, di settantasei anni. La sua fama durerà ancora un decennio – Romani attesta che alla Bbc dei primi tempi furono letti alcuni suoi racconti, nei programmi culturali serali, quindi dopo il 1922, anno di fondazione dell’emittente brtannica.
“I Moncalvo” si apprezza in effetti come nuovo, “dilettoso”, anche se vecchio di un secolo. E più per il tema, oggi come allora ambiguo. Ma esposto in dialoghi vivaci, e in tutte le sfaccettature che poi emergeranno tragiche. Due fratelli ebrei, un uomo d’affari molto ricco e un matematico molto rigido, vivono a Roma, nell’equivoco tra l’assimilazione, col passaggio dal ghetto ai Parioli e perfino, chissà, con l’ascesa alla più chiusa nobiltà nera, e l’antisemitismo nascente in Europa, con la consequenziale ipotesi sionista. Uno storione familiare, con l’eco inevitabile del coevo “I Buddenbrook” di Thomas Mann, 1901, che Castelnuovo può aver letto o di cui può aver saputo – la traduzione del romanzo tarderà ma la fama internazionale fu vasta all’uscita. O, più probabile, del genere narrativo in voga del secondo Ottocento italiano, “L’eredità Ferramonti, “I viceré”, et al.. In una con l’altro tema del romanzo, la delusione postrisorgimentale: la Rivoluzione Italiana, che aveva inebriato l’Europa, aveva fatto in fretta a deludere - Pirandello, oltre De Roberto, vi si cimenterà.
“I Moncalvo” è diverso nel suo genere perché lo storione non ruota sul tema economico o politico, ma su quello etnico. Sotto l’apparenza della religione, pretestuosa per i più. Dibattuto in molta letteratura fuori d’Italia, specie in Germania (tra i tanti Otto Weininger, Karl Kraus, che ebbe tra i collaboratori perfino Houston Stewart Chamberlain, il teorico dell’antisemitismo, Maximilian Harden, W. Benjamin con Scholem), e in Francia (Némirovsky su tutti). In Italia probabilmente solo con questo Castelnuovo – in Bassani non c’è la irriducibilità. Per l’antisemitismo montante, di cui ancora non si avverte la radicalità, dice Romani. O non parte di esso? Non una difesa pre-emptive, ma la radicalizzazione di una differenza? Tra il rifiuto, fino all’odio-di-sé di Theodor Lessing, e la glorificazione.
Matrimoni non d’amore e tra confessioni diverse si sono sempre fatti senza drammi. Anche tra cattolici e ebrei: la chiesa imponeva il battesimo dei coniugi e l’impegno al battesimo dei figli, ma non esercitava speciali inquisizioni al riguardo. Senza contare i tipi alla Mariannina, la vergine che si immola all’ascesa sociale, la quale ragiona di suo: “Se fossi in Turchia mi farei turca”. Cinica, si direbbe, ma poi no: la sua non è una vittoria, “vincere tutte le antipatie, tutti i pregiudizi”? La differenza è insorta in ambito limitato, europeo, e europeo occidentale. Per il nazionalismo che ha caratterizzato per un secolo abbondante, fino alla Germania di Hitler, questo particolare Occidente. Di cui l’ebraismo ha mediato, per il bene e per il male, i germi. Che inevitabilmente sfociano nell’etnicismo, anche se la razza è di difficile delimitazione, e comunque contrasta con i diritti di uguaglianza.
Il tema è come Pirandello lo denuderà presto nella novella “Un goj”, 1922: un Levi che ha mutato il nome in Catellani e “s’è imparentato con una famiglia cattolica, nera tra le più nere”, finisce in un groviglio di intolleranze. Qui il “gojsmo” non è rovesciato, come nel sarcastico Pirandello, ma viene implicato come differenziazione etnica. Proposto e sofferto da buoni ebrei, cittadini eccellenti, ma non osservanti - non frequentano le Scritture, che non praticano, e non celebrano le pie pratiche.
Enrico Castelnuovo, I Moncalvo, Interlinea, pp. 241 € 15

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