Giuseppe Leuzzi
A
Cicala, un migliaio di abitanti ai piedi della Sila Piccola, un’esperienza d’integrazione diffusa della demenza senile è in atto da otto mesi. Applica un metodo
nuovo, la Terapia espressiva corporea integrata, ideata da Elena Sodano, psicoterapeuta
di Catanzaro. Punta a prolungare la qualità della vita attraverso una coabitazione
autonoma e integrata insieme: invece delle pasticche un ambiente aperto, tra
gente più o meno della stessa età e mobilità, e di interlocutori-fornitori addestrati
con un “tirocinio comportamentale” a facilitare il dialogo, dal parroco al barista.
È
l’applicazione di una ideazione della londinese Alzheimer Society, organizzare comunità Dementia Friendly, avviata in Italia dalla Federazione Nazionale
Alzheimer, senza soldi pubblici. Cicala fa da pilota, associando la Community londinese al metodo Teci di Elena
Sodano. Se ne parla (poco) solo perché lo hanno scoperto in Norvegia: una
giornalista, Charlotte Nagel, ci ha fatto un reportage per le organizzazioni
norvegesi che si occupano dell’invecchiamento.
Narra
il “Repertorio dei matti della città di Roma”: “Di una si diceva ch’era nata ad
Alessandria d’Egitto, ma in realtà era nata a Roma, e in Egitto c’era andata
sua madre che l’aveva abbandonata subito dopo averla partorita, figlia di padre
ignoto. Lei era andata in Egitto a
cercarla, la madre, ma era tornata a Roma perché aveva capito che lei non la
voleva tra i piedi. Aveva provato a
rintracciare il padre, e aveva scoperto che era calabrese e che faceva di
cognome Del Duce. Allora aveva rinunciato ad incontrarlo: «Non voglio essere
ricordata come la figlia del Duce»”. Era Anna Magnani.
Del
cinema, “arte tipica del nostro tempo tendenzioso”, Alvaro nota che si esercita a “fare a meno della verità” al Sud: “In America,
quando vuole osare, (il cinema) si sfoga sulle regioni del Sud: l’esotismo nazionale.
Se non esistessero i meridionali, di tutti i paesi, di tutte le latitudini
nessuna esclusa, i cineasti non avrebbero la corda sociale da toccare col
minimo di scandalo, la «denunzia» come si dice in gergo”.
Il
Sud è però l’unico momento di verità per il cinema, sempre secondo Alvaro:
“Appena il cinema tocca qualcosa di meno indifeso e pittoresco, entra nel suo
vero regno che è la falsità e la convenzione”.
La mafia e la
hubris
La
forza in Omero non è permanente. Gli eroi soccombono spesso, anche per mano di
non eroi, anche senza inganno. Solo nelle mafie benché sia sopravvenuto un Dio
di giustizia, la forza è permanente: programmata. Anche attraverso le distruzioni
reciproche, che sono una forma di risorgenza.
La
forza in Omero è hubris. La hubris, violenza incontrollata, non è
tratta da usanza germanica, anche nella forma della faida. Ed è del tutto
inconsistente con la mafia, che è invece calcolo e dissimulazione. C’è la hubris, la violenza incontrollata,
accanto alla mafia, a Pesaro, a Duisburg. È una possessione malefica.
Nasce
caratteristica di Achille, l’“eroe” dell’“Iliade”, “l’Eccellente” in Omero. Che
è cattivissimo: infierisce sul cadavere di Ettore per giorni, fino a che Giove
in persona non deve scendere dall’Olimpo per bloccarlo. È il furor latino.
La “furia francese” dei predoni di Carlo VIII. Che accomuna anche il berserkir delle saghe teutoniche. Una forza bruta, che
in antico si faceva accendere negli uomini dagli dei, per ghiribizzo e per
mettere alla prova, e poi dagli stessi bloccata – cioè inspiegabilmente.
Gli scrittori di
contrada
Una
curiosa pagina, di avocazione e insieme di ripulsa, ha Corrado Alvaro, solido
comparatista delle cultura europee e extra,
sulle letterature locali, recensendo il film di Duvivier sulla “leggenda
di Parigi”, “Sotto i tetti di Parigi” – una prosa del 1952, ora in C.A., “Al
cinema”, 200. Di elogio in particolare per Napoli, che ha saputo passare “più
facilmente di ogni altra nostra (leggenda metropolitana, n.d.r.) dal dialetto
alla lingua letteraria e alla letteratura”. Che ha la leggenda “la più densa e
ricca di motivi, quella che ha più mistero di vita urbana”. Mentre “quella di
Roma è rimasta appesa tra Belli e D’Annunzio: in quello i preti, in questo le
donne”. Abbattendo lo steccato, tutto italiano, della letteratura alta e bassa:
“Il pregiudizio della letteratura regionale o provinciale come mondo limitato
in confronto a quello borghese e cosmopolita, alle ambizioni di una letteratura
formalmente nazionale, ha impedito più di uno sviluppo tra noi, dove i
letterati temono l’appellativo, soltanto italiano e della letteratura italiana,
di provinciale. Non si capisce perché debba esservi una gerarchia tra scrittori
metropolitani e scrittori di contrada. E c’è voluta la voga degli scrittori
americani perché questa distinzione fosse attenuata. Non si capisce perché
parlare di Milano o di Roma sia letteratura cosmopolita, e parlare di Sicilia
sia regionale”.
Ma
poi, subito dopo, trova il localismo limitato e limitante – senza secondi
pensieri in riguardo all’Aspromonte? Napoli si è presto “esaurita” – “tutto
quello che è nato come espressione d Napoli, la canzonetta, il frizzo, la
tradizione comica, il facile sentimentalismo, il realismo e la retorica”. Di
Giacomo ne ha fatto la summa, e dopo non c’è più nulla: “I dialetti si
esauriscono presto in un solo poeta”, Porta per Milano, Belli per Roma, Di
Giacomo, eccetera. E Alvaro, viene ovvio aggiungere, “Gente in Aspromonte”, per
la Calabria.
L’odio-di-sé
L’odio-di-sé
è concetto e pratica tipicamente tedeschi – e in ambito germanico, più in particolare,
dell’ebraismo prima di Hitler. Ma ora,
da qualche tempo, unicamente italiano. Non c’è altrove, viaggiando in Europa o
in America, un tasso di autodenigrazione così ricorrente, anzi non c’è affatto,
specie con gli stranieri. L’autocritica che sconfina nell’autofustigazione e
l’autodistruzione. Così comune in Italia di tutto ciò che è italiano, che si
tratti dell’automobile o del parco in montagna, perfino del pelato e del gelato.
Si
dice con sempre maggiore convinzione, e sincero disprezzo, “all’italiana”, per
dire inventivo e trucibaldo, approssimato, malfatto, furbo, traditore. Di
matrimoni, commedie, risate, calcio, trucchi, inganni, trappole promesse,
accordi, impegni, leggi, e piatti di cucina..
È
in questo odio di-sé che tutto al Sud è deleterio. Il Sud è giusto da
sopportare, la compassione è una virtù, e poi non bisogna cadere nel razzismo. Ma
non più di tanto. E ciò è vero per gli stessi meridionali.
Questo
del Sud è un vezzo culturale, ormai storicizzato col e dal Risorgimento. Introiettato,
dopo sei o sette generazioni, a realtà indelebile. In
altra cultura politica si direbbe il complesso d’inferiorità iniettato per un
fine, in una strategia di sottomissione. Come togliere i denti a una tigre.
Peggio, educare alla subordinazione, partendo dalla cancellazione di sé.
Si
dice del meridionale che manca d’iniziativa. E sarà così, poiché i meridionali
se lo dicono, se uno legge i loro giornali, ed evidentemente ci credono fermi.
Salvo in altro ambiente – il meridionale è per questo stesso fatto nomadico - competere
e anche vincere.
Le Calabrie
Usa
il plurale per la Calabria oggi propriamente detta, per la vecchia suddivisione
amministrativa, del regno borbonico e subito dopo. Ma piace ricordare il
toponimo al plurale per lo scambio che c’è stato col Salento, la primitiva
Calabria. Toponimo greco – molto comune tuttora in Grecia, anche diminutivo,
Calabretto-Calabritto - che vuole dire abbondanza. Agli occhi dei primi
navigatori greci, ma anche per la natura: l’ampiezza dei terreni coltivabili,
la feracità – una ragazza di pasticceria a Patrasso, che era stata in Italia,
richiesta di un’impressione disse, dopo averci riflettuto: “L’Italia è grande”.
Per l’abbondanza di ulivi e vigneti, che in Grecia prosperano ma in plaghe
ridotte, al confronto minuscole.
La
Calabria era ricca e il Salento povero negli anni 1950. Quando i commercianti di Gallipoli
(grossisti, mediatori), protagonisti del vecchio cabotaggio, il trasporto via
mare lungo la costa, giravano per la piana di Gioia Tauro per incettare la
materia prima, l’olio d’oliva, da rivendere ai raffinatori del Nord. Mentre il
bracciante salentino vi emigrava per d’inverno nelle “annate piene”, per “fare la stagione”
da operaio nei frantoi – per supplire il bracciante-operaio locale, già
emigrato al Nord, nella Liguria di Ponente sopra Savona-Imperia e a ridosso
delle Alpi Marittime, in Piemonte e in Provenza. Il Salento che oggi è un
capolavoro, nel recupero e la salvaguardia dell’ambiente e dei beni culturali,
nella pulizia dell’aria e dell’acqua, e anche nella produzione di reddito. Mentre
la Calabria arranca ai livelli bassi delle classifiche nazionali del benessere –
la ricchissima plaga di Gioia Tauro probabilmente alle ultime posizioni. Sono
bastati pochi anni di politica avveduta nel Salento, con D’Alema, Gennaro
Acquaviva, Buttiglione. Di risorse. Spese. Non male – non del tutto.
Nord e Sud normalizzati
Una Normale di Pisa a Napoli oltre che a
Firenze? Sì, perché no, dà lustro e porta risorse. Ma quando i fondi, 50
milioni, il napoletano Di Maio li ha dati da spendere alla Federico II, l’università
di Napoli, Pisa si è ribellata. Studenti e professori uniti nella lotta. Contro
il direttore della stessa Normale, Vincenzo Barone, centauro partenopeo-pisano
– rifiutato alla Normale ai diciott’anni si era iscritto alla Federico II.
Hanno protestato gli studenti. In piazza. Con i
cartelloni. E gli accademici. Che oggi si sono riuniti per silurare Barone, il “napoletano”.
Si può apprezzare, come manifestazione di verità.
Si era creata confusione col gialloverde di
maggio. Col leghista Salvini senatore della Calabria. E col partito
siculo-napoletano di Grillo buffoncello, che vuole rivoluzionare l’assistenzialismo.
Il
“forza Vesuvio” della Normale fa il paio con la congiura fiorentina contro
Schiavone, altro centauro tosco-partenopeo, altro reo di commistione con
Napoli. Nel suo caso con un Sum, Istituto Italiano di Scienze Umane, dentro il
quale Firenze e Napoli formavano “dottorandi europei” con i centri di
eccellenza di Parigi, Londra e Francoforte.
Il
leghista professore Miglio confessava che passando l’Appennino a Firenze si sentiva
all’estero. Ma il Nord si è allargato.
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