sabato 9 febbraio 2019

Letture - 373

letterautore


Colonialismo – C’era, nell’Africa coloniale francese, il “caffè bianco” e il “caffè nero”. “Un chilo di caffè «bianco» valeva” in colonia “più di un chilo di caffè «nero»”. Lo spiega Mitterrand a Marguerite Duras (“Le bureau de poste de la rue Dupin et autres entretiens”). Era nero il caffè, lo stesso caffè “bianco”, venduto da un produttore nero. E i piccoli produttori africani non potevano mettersi in cooperativa: “Le cooperative africane erano proibite e i loro dirigenti mandati in prigione. Houphouët-Boigny, minacciato, è passato alla clandestinità solamente perché reclamava l’uguaglianza economica” – che era già deputato all’Assemblea Nazionale francese.  

“Che gli si manifestasse disprezzo”, riflette l’algerino ufficiale francese ad Aleppo del racconto “Addii” (“La gabbia dei falconi. Tredici racconti orientali”) di Annemarie Schwarzenbach alle prime prove, giovane “di bellezza provocante, i più begli occhi di Aleppo”, che gli altri ufficiali trattano come “l’africano”, “gli sembrava incomprensibile: questo serviva alla grandezza della Francia?”

Dante – La sua ricezione nel mondo islamico, recente, è stata laboriosa. Ed è scarsa, anche tra gli arabi cristiani: Elsheikh, l’accademico della Crusca egiziano, ne fa un censimento impietoso nel saggio di quattro anni fa nei “Quaderni di filologia romanza”, in cui analizza il Canto XXVIII della “Commedia”, in chiave storica, contestualizzandolo. Sia le sinossi che le traduzioni evitano i versi 22-64 del canto, le immagini violente e la didascalia blasfema di Maometto e Alì’. Un primo cenno di Dante in arabo Elsheikh trova solo nel 1930, “una sobria e puntuale analisi delle opere minori e un garbato riassunto delle tre cantiche”, opera al Cairo di Taha Fawzi. La prima traduzione è quasi contemporanea, in prosa, appare nel 1930-1933, ed è opera di Abbud Abu Rašid, libanese naturalizzato italiano. La traduzione Elsheikh dice “resa quasi illeggibile dalle molte chiose sovrapposte e intricate”, senza menzione né di Maometto né di Alì. La traduzione successiva, anch’essa in prosa, del solo “Inferno”, a opera del giordano cristiano Amin Abu Sha’ar, pubblicata a  a Gerusalemme nel 1938, basata sulla versione inglese di Henry Francis Cary, salta tutto intero il canto XXVIII, ma anche i due successivi.
Nel dopoguerra va meglio. Tra il 1955 e il 1969 l’egiziano Hassan Uthman porta a termine la prima traduzione, “pregevole”, un lavoro di quarant’anni, condotta sull’originale e corredata da ottime note. Sempre tagliando i versi 22-64, ma dandone anche il motivo: sono versi “inadatti alla traduzione” e frutto di “un grossolano errore”, scusabile in “quanto in quell’epoca era opinione comune sul grande Profeta”. Il giudizio è invece negativo di Elsheikh sulla traduzione successiva, 2002, opera dell’iracheno Kazim Jihad, che l’ha realizzata con il contributo dell’Unesco. Jihad si limita a sostituire i nomi di Maometto e Alì con puntini di sospensione tra parentesi, ma la sua traduzione è “assolutamente incomprensibile”. Nel 2002 esce anche una traduzione a Damasco, del siriano Hanna Abbud, che anche evita i nomi e ci mette i puntini di sospensione, ma, a giudizio di Elsheikh, esagerando: “Cerca di camuffare l’identità dei personaggi fino a rendere incomprensibile il passo dantesco”.

Non c’è molto islam nella “Divina Commedia”, fuori del canto incriminato dell’“Inferno”. C’è la scienza, con Avicenna e Averroé tra gli “”spiriti magni” del limbo – con Saladino, che ancora non è quello “feroce” delle figurine. E i nomi di Albumasar, Alfragano, Algazel, Alpetragio.

La filologa Roberta Morosini, che professa all’università americana di Wake Forest, lo fa islamofobo più che islamista, come è giusto. Anche fuori del canto XXVIII dell’ “Inferno”. La “leggenda del Toro” rileggendo come un’allegoria anti-islamica - “Dante, il Profeta e il Libro: la leggenda del Toro dalla Commedia a Filippino Lippi, tra sussurri di colomba ed echi di Bisanzio” (L’Erma di Breitschneider). Ma con una distinzione, che aveva già posto e qui riprende. Interrogandosi sul perché l’islam, che Tommaso d’Aquino presenta nella “Summa contra gentiles” come un’eresia cristiana, sia da Dante considerato invece uno scisma, poiché mette Maometto all’“Inferno” tra i seminatori di divisioni. Una differenza che non sembra grande, ma non per Dante, che sulle questioni teologiche è preciso. Oggi è tema del colloquio, anche se improduttivo, tra le fedi.

Madre-Padre – La madre non c’era nei miti, e non c’è stata nella favolistica. Non ce l’ha Biancaneve, se non matrigna, nella Biancaneve dei fratelli Grimm, come Cenerentola e altre - il femminile c’è ma in altra forma, la fata, la silfide. Fino a Pinocchio e Bambi. Anche Heidi, della serie infinita, è orfana. Ora non c’è più il padre. I due non vanno mai assieme?

Ofelia – La parte più difficile secondo Oscar Wilde (“Amleto al Lyceum”, in “Autobiografia di un dandy”), “causa di situazioni di cui non è l’elemento centrale e di cui non ha il controllo”: “Se le parole «facile» e «difficile» hanno un senso nell’ambito dell’arte, direi quasi che Ofelia è la parte più difficile. Ofelia ha meno materiale con cui ottenere un effetto. È l’occasione della tragedia, ma non ne è l’eroina né la vittima principale”.

Oxford – La città dei suoi studi e del suo riconoscimento Oscar Wilde vuole “madre della bellezza e della luce” e “la cosa più bella che vi sia in Inghilterra – in nessun altro luogo la vita e l’arte sono così perfettamente unite”. Sulle rive dell’Isis come su quelle dell’Ilisso, Oxford come ad Atene (“Enrico IV a Oxford”, in “Autobiografia di un dandy”).

Poe – Oscar Wilde lo vuole miglior poeta. Nei “versi meravigliosi di «To Helen», poesia bella quanto un cammeo greco e musicale come la cetra di Apollo”, e non solo (“Grandi scrittori narrati da piccoli uomini”, in “Autobiografia di un dandy”).

Poeta – “Un poeta è, fra tutte le creature di Dio, la meno poetica”, John Keats.

Proust – Fu ben il traduttore di John Ruskin, lo “scopritore” dei pittori “primitivi” italiani, l’ispiratore dei Pre-raffaelliti, dell’estetismo tardo-romantico.

Rennell Rodd – Poeta ammiratissimo al debutto, “Rose Leaf and Apple Leaf”, da Oscar Wilde, che ne scrisse un entusiastico “Envoi”, una prefazione. I due faranno anche un viaggio nella Loira. Poi l’amicizia si perse, con lo scandalo sessuale - e anche la poesia di Rodd. Che invece si illustrerà per essere l’ambasciatore inglese a Roma per un decennio, dal 1909 a fine guerra.

Oscar Wilde – Era un irlandese molto latino per parte di madre, Jane Francesca Agnes Elgee, una scrittrice che agli inizi si firmava Speranza, ed è quindi nota come Francesca Speranza Wilde (il nome del marito, un chirurgo dell’orecchio e dell’occhio). Lady Wilde è considerata la restauratrice del folklore irlandese, specie dei racconti di fate e spirito. Il suo bisnonno per parte materna era italiano, emigrato in Irlanda nel Settecento.
Lady Wilde era anche nipote di Charles Maturin, pastore protestante e scrittore di romanzi e drammi gotici, portato al successo da Walter Scott e da Byron, a sua volta discendente di ugonotti francesi immigrati. 


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Il vuoto in politica

Non c’è niente a sinistra, che pure governava fino a un anno fa. E non c’è niente a destra, sterilizzata da Berlusconi nel quinquennio di interdizione dai pubblici uffici. Non c’è niente, a ben guardare, neppure al centro, ammesso che il governo sia al centro. La politica non ama il vuoto, si dice, non c’è il vuoto in politica, la politica riempie i vuoti. Ma la scienza politica che esclude il vuoto in politica  probabilmente è in crisi.
Non c’è destra. Non c’è sinistra. In Italia, che ha votato per cambiare le cose e non ha ottenuto nulla, come altrove. In Gran Bretagna forse peggio che in Italia, la confusione vi è completa con la Brexit.
In Italia i politici sono oggi i 5 Stelle e Salvini, non c’è altro. Che sono però i figli politici della crisi, che ormai da dodici anni non si riesce a domare. Ripiegati su un nazionalismo e un populismo improduttivi, in rapporto alla crisi, alle cose da fare: si naviga contro e pro l’euro, contro e per gli immigrati (ce n’è bisogno), e contro questo e contro quello, ora Macron ora Merkel, in una Italia che si pensa – ma non si pensa – astratta dal concerto europeo e mondiale. C’è disoccupazione ma non si investe. C’è debito, ma non si risparmia. C’è l’immondizia per le strade e non si raccoglie.  
Il vuoto c’è anche in politica.

Il nero ricco e colto, il bianco rozzo e povero

Tony Vallelonga, detto Tony Lip per la parlantina, buttafuori di night-club, momentaneamente disoccupato, uno che i neri in casa non li vuole nemmeno come idraulici, viene preso come autista e tuttofare dal dr. Shirley, musicista nero addottorato a Leningrado, stimato esecutore di classici che però negli Usa può solo esercitarsi al jazz. Un nero intelligente, colto e ricco che dà lavoro a un bianco ignorante e rozzo: il rovesciamento dei ruoli produce una commedia dai toni sempre vivaci, per due ore e mezza di programmazione. Grazie anche a due attori, Viggo Mortensen nei panni del buttafuori italoamericano, un piccolo maneggione dell’economia grigia, e Mahersala Alì nei panni del pianista Don Shirley, che non sembrano recitare. Soprattutto il primo, più noto come l’Aragorn del “Signore degli anelli”, qui è tutto il suo personaggio, pancia, pugni e furbizia.
Un film fuori dai generi. Trascinante più che esilarante. Per il ritmo oltre che per il rovesciamento.
Il fondo resta drammatico: il racconto è di un viaggio al Sud degli Stati Uniti nel 1962, di razzismo violento. Dove il nero si indica come “schiavo”. Il Green Book del titolo è la guida dell’epoca per i neri al Sud, dei locali e i motel dove erano ammessi – una brochure modesta. Ma tutto si risolve coi pugni – anche i latini non sono accetti al Sud: l’inerme dr. Shirley viene sempre salvato. Finché non decide di non piegarsi più alla schizofrenia del Sud, che si onora di ascoltarlo al piano, nei teatri e alle feste private, ma non lo vuole vicino di tavola, e interrompe il suo tour.
Il lieto fine è che il film è di una storia vera: il viaggio ci fu, i due sono rimasti amici per la vita. Tony “Lip” è il padre del cosceneggiatore e coproduttore di Farrelly, Nick Vallelonga. Che sa perfino salvare dal folklore le scene familiari, attorno al nonno, il padre di Tony, che solo parla un suo dialetto italianizzante, e gli inevitabili pranzi.
Peter Farrelly, The Green Book

venerdì 8 febbraio 2019

La prima crisi cinese

Il primo effetto si è avuto in Germania – e a ondate successive in Italia, la cui economia è legata a quella tedesca - con la recessione “tecnica”, per due trimestri consecutivi: effetto della minore crescita cinese, minore del previsto. Ma in agguato c’è la prima crisi economica della Cina. Un’esperienza nuova, dacché la Cina è diventata protagonista dei mercati mondiali, trent’anni fa, che potrebbe avere conseguenze nefaste per tutti. Ma a partire dal regime comunista cinese.
Le valutazioni internazionali sono che il rallentamento è più forte di quanto le statistiche registrino, addomesticate dalla forza della politica. Ma nella stessa Pechino se ne parla come di crisi in vista. L’accettazione del compromesso con le richieste di Trump viene dalla preoccupazione di Pechino di evitarla. Prodromi i crolli delle Borse di Shangai e Shenzen. L’azzeramento degli investimenti industriali, che crescevano del 20 per cento l’anno. Il calo delle vendite di auto, del 4-5 per cento, e delle importazioni dalla Germania, del 15 per cento.
Il governo cinese moltiplica i piani d’investimento publico per infrastrutture, specie nell’alta velocità ferroviaria. La Banca centrale ha immesso liquidità a gennaio per 150 miliardi di dollari. La stampa di Pechino – cioè il partito Comunista – chiede l’abbandono dei parametri di bilancio pubblico autoimposti, del 3 per cento nel rapporto annuo deficit\pil, e di un cambio col dollaro  fisso a 7 renminbi.  

Dante sapeva poco e male di Maometto

Un arabo che non si arrischia, naturalmente, ad azzardare legami della Divina Commedia con la storia e la cultura islamiche, non col “Libro della Scala di Maometto”. Da uomo colto, ma anche da islamico pratico, insofferente, si capisce tra le righe, dell’islamismo improvvisato da Maria Corti in giù – sulle tracce dell’islamista Asìn Palacios, uno che non sapeva l’arabo.
A scusa di Dante, dell’anti-islamismo di cui gli si fa colpa, specificamente suo cioè e non del contesto e dell’epoca, Elsheikh, studioso egiziano allievo a suo tempo del filologo Contini, ricorda e documenta l’ovvio: l’immagine nemica di Maometto nella pubblicistica medievale – ma anche successiva, sembra evidente – tanto ignorante quanto ostile: il Profeta era mago, epilettico, capomafia, falso profeta, diavolo che invidia i successi altrui, monaco intrigante - uno che briga per il patriarcato di Gerusalemme. Nei rifacimenti toscani del “Trésor” di Brunetto Latini è invece un cardinale, della famiglia Colonna, e uno che prova a farsi papa ma il conclave non lo elegge. Più superficialità che ostilità.
I riferimenti scritti, pochi, sono non di studio ma di detti e contraddetti orali. Più cattivi in quanto Maometto sarebbe un rinnegato. “un cristiano o un mago ingannatore ammaestrato da un cristiano (con l’aiuto di qualche ebreo)”. Mentre “l’islam è” considerato “propaggine eretica del cristianesimo.
Nello specifico del canto XXVIII dell’“Inferno”, Elsheikh segnala due accostamenti rivelatori, tra i “creditori colpevoli”: di Maometto col maestro di Dante ripudiato Brunetto Latini, corrivo panarabista, in Spagna e a Firenze, e col poeta provenzale Bertran de Born, che il “De vulgari Eloquentia” aveva segnalato come “il maggiore cantore delle armi”. Maometto è in compagnia dei due ripudi culturali maggiori di Dante. Che qui sarebbe dunque particolarmente cattivo per la “sindrome del debitore” – da qui anche il “contrappasso”, che solo in questo canto ricorre. 
Sembrerebbe a questo punto che Elsheikh attribuisca a Dante una conoscenza approfondita dell’islam se poi lo ripudia, al modo come fa con Brunetto e Bertràn. Ma lo studioso egiziano sa la sua filologia e non si azzarda.
La “carica fonica irta e segmentata” e “la brutale aggressività delle immagini”, con un eloquio di comicità cattiva, “al limite della volgarità”, senza eguali in tutta la “Divina Commedia”, sarebbe solo segno di disinformazione, più che di studioso e scrittore informato dei viaggi di Maometto. A proposito dei quali Elsheikh spiega che sono numerosi. E che semmai, dovendo trovare dei precedenti arabi all’Inferno di Dante, propende per la prima delle tante versioni del mi’raj, l’ascesa di Maometto, quella attribuita al suo discepolo Anas ibn Malik, morto nel 712: un testo a lungo tramandato nel mondo arabo islamico per via orale, rielaborato in opere latine antimusulmane. Un racconto scarno, che però ha l’immagine centrale dell’esecrazione di Dante: è l’Arcangelo Gabriele che, prima dell’ascensione, squarcia il torace e il ventre di Maometto, per riempirlo, purificato, di fede e sapienza. Con un taglio “dalla cavità della gola fino al basso ventre”, che Dante sembra riprendere pari pari, “rotto dal mento infin dove si trulla”, all’ano. Anche il passo che riguarda Alì, “fesso nel volto dal mento al ciuffetto”, che invece è un fatto storico, può essere giunto a Dante dal volgarizzamento dello storico curdo che ne diede conto, Alì ibn al-Athir, a cavaliere del 1200. Parlare di fonti è eccessivo, ammonisce Elsheikh, perché il “mosaico” delle “conoscenze arabo- islamiche di Dante” è pieno di buchi. Molte cose si sapevano, ma superficiali: c’era un gossip anche all’epoca delle cose serie, quali Maometto e l’islam.  
Se Dante, però, va aggiunto, che solitamente è bene informato, specie in fatto di fede, sull’islam si limita a mettere in versi i pregiudizi, tanta conoscenza non ne aveva.
Mahmud Salem Elsheikh, Lettura (faziosa) dell’episodio di Muammad: Inferno, XXVII, “Quaderni di filologia romanza”, maggio-giugno 2015, n. 23, pp. 263-299, Patron €14

Oscar Wilde contro i tacchi alti

Contro i tacchi alti che “una laureata” ha rivendicato sulla “Pall Mall Gazette”, che hanno “l’inevitabile effetto di proiettare il corpo in avanti, di accorciare il passo e di produrre quindi quella mancanza di grazia che si accompagna sempre alla mancanza di libertà”. Un Wilde minore – “wildeggia”, benché agli inizi – di testi trascurati nelle raccolte canoniche, articoli e conferenze, degli anni 1880, dal 1877 al 1889. Della nascita del personaggio Wilde – “Punch” già lo caricaturava come principe degli esteti, Gilbert e Sullivan ne avevano fatto personaggio da operetta, era conferenziere accreditato in America. Di un estetismo-decadentismo di programma, alla Walter Pater, qui con i suoi “Ritratti immaginari” (“trasmettere idee attraverso le immagini”), non temperato.
Venticinque elzeviri brevi. Con gli inevitabili snobismi. Elizabeth Barrett Browning è la prima poetessa al mondo, dopo Saffo. L’abbigliamento maschile ideale è quello del Seicento, “infinitamente superiore a qualsiasi abbigliamento successivo, e non credo superato da alcun tipo di abbigliamento precedente”. Whistler, il pittore, è deriso a più riprese non si capisce per quale motivo. Ma già con la grazia che poi sarà del semiologo – di Eco, del Barthes delle “Mitologie”. Sui modelli dei pittori. Sugli oggetti vestimentari che Whistler propone a modelli. Col culto di Keats, della bellezza che è verità, al cimitero romano degli Inglesi – un raro reportage su Roma all’Ostiense, con la Piramide Cestia e tutto. La verità subito notata dell’America, le città “inesprimibilmente noiose”, e la politica a Washington come “la vita politica di una sacrestia di provincia”, salvando giusto “il Far West con i grizzly e i cowboy selvaggi”. Con suggerimenti che gli stilisti trovano ancora utili, sull’abbigliamento femminile e su quello maschile.
Con applicazione anche, benché all’apparenza poco wildiana. Le pulci alla traduzione di Balzac, riscontrata sull’originale. Yeats subito scoperto. O Turgenev, Dostoevskij e Tolstòj perfetti, in comparazione, in poche righe, in una recensione, breve a “Umiliati e offesi”: “Spietato come artista” (“non spiega mai i suoi personaggi”, che “ci sorprendono sempre” e “sempre ci sfuggono”), “Dostoevskij uomo è ricco di umana pietà per tutti, per quanti fanno il male e per quanti ne sono vittime”.
Una celebrazione dell “importanza essenziale dell’elemento voluttuoso nell’arte”. Estenuato: “Il punto in cui noi della nuova scuola ci siamo allontanati dagli insegnamenti di Ruskin” – pur “maestro della conoscenza di ogni esistenza nobile e della saggezza di ogni cosa spirituale” – “in modo definitivo, e diverso e decisivo”.
Oscar Wilde, Autobiografia di un dandy, Casini, remainders, pp. 240, ril. € 5
Rusconi, pp. 220 € 12

giovedì 7 febbraio 2019

Ombre - 450

L’autorità Anti Corruzione chiude di fatto, snobbata dal governo del nuovo. Lascia il giudice Cantone, uno del Pd. Ma è l’Autorità nell’insieme che non interessa – inattiva ormai da quasi un anno. Il nuovo è molto vecchio.

“Stiamo mettendo in chiaro con la Cina che, dopo anni trascorsi a prendere di mira le nostre aziende e a rubare la nostra proprietà intellettuale, il furto di posti di lavoro e di ricchezza americana è finito” - Trump al Congresso, sullo Sttao dell’Unione. La vera globalizzazione è protezionista (controllata).

“Ancora Trump al Congresso: “Abbiamo speso oltre settemila miliardi di dollari per combattere guerre in Medio Oriente. Le grandi nazioni non combattono guerre infinite”. Ci voleva un Trump per scoprirlo.

 “Le parlamentari democratiche in bianco per la difesa dei diritti delle donne”, contro Trump al Congresso, è la foto in prima di “la Repubblica”. Senza dire che in bianco erano anche le deputate repubblicane. Questo giornale è per i Dem, o è una quinta colonna?

La vera notizia del discorso di Trump al Congresso è che le deputate dem lo hanno applaudito. “La Repubblica” confina la notizia al sito. E allude: non saranno stati applausi ironici? Non ha altro da dire “di sinistra” - alla Moretti?

Una settimana il reddito di cittadinanza,video-teatralizzato. Una settimana lo stadio della Roma, video teatralizzato. Regia di Grillo e Casaleggio. Un esempio della democrazia diretta? Dell’Italia che se ne frega, per dirla col “Che” Guevara del movimento, Di Battista?

L’ultraottantenne Savona alla Consob sarebbe da barzelletta – erano le nomine tipiche di Andreotti, il recupero dei dimenticati. Sarà l’epoca del nuovo quella della terza età? Del tipo: gallina vecchia fa buon brodo.

Non si cura Virginia Raggi di buche e spazzatura per le strade, giardini e parchi abbandonati, bus e metro in fiamme o in tilt, ma lo stadio della Roma lo farà. L’opera più corrotta di questa ennesima Repubblica. Sembra incredibile ma è vero.  

E sono i grillini al di sopra di ogni sospetto? Raggi dà disposizione “ferree”, immediatamente esecutive, ai suoi uffici di fare lo stadio della Roma contro il parere del politecnico di Torino, cui lei stessa aveva chiesto un parere, e contro la più che sospetta corruzione del suo proprio mediatore d’affari Lanzalone, nel giorno in cui Lanzalone e il costruttore interessato sono rinviati a giudizio. Lanzalone sarà pure innocente ma non sembra – non si difende.


I 300 milioni che lo Stato ci deve spendere, in questo famoso stadio della Roma, per urbanizzare l’area, ponte sul Tevere compreso? Ma finalmente la Repubblica farà un ponte sul Tevere.

Però, che l’unica opera pubblica in Italia, di un partito che non vuole opere, sia uno stadio, e che questa sia un’opera che affogherà la città due giorni a settimana, anche questo sembra incredibile ma è vero.
Si dice: Raggi si assicura così i voti dei romanisti. Che però non sarebbe un segno di imbecillità politica – i romanisti hanno altri “cazzi”?

Sul Venezuela Salvini  col democratico Guaidò, Grillo col dittatore Maduro. Grillo non è difficile leggerlo – è simpatico, è un comico, è uno scassa, dichiarato – ma non si vuole. Bisogna alimentare lo spettacolo. Poi dice che il declino è del’Italia, e non dei media.

Folla di cristiani – lavoratori immigrati, dal Libano all’India, quelli che lavorano nella penisola arabica, i beduini sono tutti signori - per la messa del papa a Abu Dhabi. All’aperto perché non ci sono chiese, non ci possono essere. Cioè ce ne sono, ma piccole, stanze per lo più, e non possono esporre la croce, edifici anonimi.

Gli islamici convertiti scrivono al papa, che però non risponde – scrive Filippo Di Giacomo sul “Venerdì di Repubblica”. Sono gli unici ai quali non risponde, il papa è altrimenti cordiale. E non vuole altri islamici convertiti. Per timore di rappresaglie nei paesi islamici. Che però sono la meta preferenziale dei suoi viaggi.

Roma troglodita

Un mondo di trogloditi, nell’VIII secolo civilissimo, tra etruschi, greci e latini. Ma di nudi maschili palestrati, e di acqua, fuoco, terra e sangue – manca l’aria.
Un film Rai del genere catastrofista, due ore di immagini cupe e violente: il rifiuto del sacro – il potere - induce la follia, e Romolo dovrà infine uccidere l’ammazzatutti. più spesso con le mani, fratello Remo.
Matteo Rovere, Il primo re

mercoledì 6 febbraio 2019

Riduzione Usa delle spese o ritiro dal Medio Oriente

Retrenchment è restrizione (delle spese) o ritiro? Quello avviato da Obama in Medio Oriente e accentuato da Trump sa di ritiro: il campo è stato e viene lasciato alle forze locali, non necessariamente in linea con la politica americana, di pace e di democrazia, e di fatto per più aspetti contrarie: in Iran, in Siria, in Iraq, in Afghanistan, nonché nella parentesi non conclusa dell’Is, dello “stato islamico”.
L’America dismette l’impegno diretto in Medio Oriente ufficialmente perché vuole che le forze in campo, i governi della penisola arabica, l’Egitto, la Turchia, Israele, l’Arabia Saudita, “facciano la loro parte”. Sottinteso: delle spese militari. Ma le spese militari si fanno per uno scopo, secondo piani strategici. E questi mancano: gli Stati Uniti se ne vanno e basta. In una regione in cui invece i piani strategici ci sono, ma ostili: dell’Iran, della Russia, della Siria di Assad, e del fondamentalismo islamico in Afghanistan e in Iraq. All’ombra del terrorismo.
C’è sempre Hezbollah in attività, il raggruppamento libanese filoiraniano e anti-israeliano. Ci sono ancora frange mobilitate di palestinesi. L’Is non è morto. Che non era Al Qaeda, un movimento terroristico contro l’Occidente in Occidente: l’Is ha creato governi territoriali, e disponeva di finanziamenti e armamenti, di un retroterra – non solo nel Qatar come ora si vorrebbe (che è invece il regime della penisola arabica più occidentalizzato, con più ramificazioni in Europa e negli stessi Usa).
Succede in Medio Oriente, si dice ancora, come succederà altrove, nel quadro di una visione del mondo che Washington ha ora multipolare. Con più potenze, in un concerto di potenze. Ma la multipolarità è vecchia, la condivisione delle responsabilità con potenze locali e delle spese per la sicurezza. Kissinger, studioso e teorico del concerto metternichiano delle potenze -  dell’equilibrio delle forze e del negoziato permanente - l’ha teorizzata in un documento del 1974, dopo la “guerra del petrolio” che aveva posto l’Europa in stato d’assedio: nella solidarietà transatlantica, ognuno provveda per sé. Ma già la “dottrina Guam”, o “dottrina Nixon”, 1969, ne stabiliva il principio: la guerra del Vietnam è dei vietnamiti – opera peraltro anch’essa di Kissinger, assistente speciale d Nixon. 
Il retrenchment di Obama e Trump è un semplice abbandono del Medio Oriente. Cui si forniscono armamenti anche complessi, e costosi, ma come un semplice mercato di esportazione.

Lo splendido isolamento americano


Never had it so good, mai stati così bene avrebbe potuto dire l’orrido Trump, alla McMillan, nel suo contestato Messaggio dell’Unione. Non lo ha detto, perché non è lo stupido che si dice, ma ne elencato gli elementi. Occupazione, reddito e risparmi in continua elevata crescita, e le “stupide guerre”, care e ferali, in chiusura.
Un messaggio da “America sola” più che da America First. Seppure in un isolazionismo splendido. Ma non è detto.
Il concetto di America sola si rafforza col Muro al confine col Messico, che Trump “comunque” farà. Ma per lui è quasi un obbligo, completare un Muro già costruito. In attesa di definire un nuova politica dell’immigrazione. Quella selvaggia dal Centro America è infatti stata già affrontata dai suoi predecessori Obama, Bush jr e Clinton, col Muro. Che è costruito per 1.126 km (sui 3.150 km di confine col Messico), Trump deve solo completarlo, per 350 km.
Sugli altri fronti, la Cina, sfidata sul piano commerciale, negozia su tutte le richieste ultimative di Trump: importazioni, dumping sociale, scambio tecnologico. Le guerre che Trump chiude sono le guerre perse, in Afghanistan e in Siria, ma ha accresciuto di molto il bilancio militare. Sui missili, la reazione di Putin alla denuncia del trattato del 1987 solo ne conferma la motivazione: Mosca aveva sviluppato nuovi missili, se ora li mette in chiaro.

martedì 5 febbraio 2019

Problemi di base divini - 470

spock


 “C’è molta ragione nella religione, benché non nelle chiese”, Kurt Gödel?

“L’esistenza di Dio è compresa nella sua essenza”, Cartesio?

“Se l’esistenza di Dio è possibile, allora Dio esiste”, Cartesio, Leibniz?

Poiché Dio è pensabile, allora esiste, Hegel?

“Causa di se stesso è un ente la cui essenza implica l’esistenza”, Spinoza?

“Dio è talmente perfetto che non ha bisogno di esistere”, Robert Nozick?

“L’unico approccio razionale alla religione è di essere irrazionali”, teologia dell’assurdo?

“Non cerco di comprendere per poter credere, ma credo per poter comprendere”, Anselmo d’Aosta?

spock@antiit.eu

La libertà è americana, eccezionale

Il sociologo politico americano fa dell’“eccezionalismo” nel sottotitolo, “A double edged sword”, un’arma a doppio taglio. Ne fa comunque un’arma. Anche se la basa su una mancanza: “La nozione di «eccezionalismo americano» si è applicata ampiamente nel contesto degli sforzi per spiegare la debolezza del radicalismo operaio negli Stati Uniti. Il quesito maggiore sussunto nel concetto divenne perché gli Stati Uniti sono il solo paese industrializzato che non ha un movimento socialista significativo o un partito Laburista”. A partire da Engels, che ne fece il problema principale dei suoi ultimi dieci anni di vita. Werner Sombart si pose il problema in un’opera apposita, “Perché non c’è il socialismo negli  Stati Uniti?”, 1906. Nello stesso anno lo stesso quesito poneva H.G.Wells, allora giovane attivista fabiano (socialista) in “The Future in America”. Sarà un problema anche per Lenin e Trockij, che  Marx non funzionasse in America. E non c’è rimedio, conclude Lipset introducendo la sua ricerca. “Benché gli Stati Uniti restino il il più ricco grande paese industrializzato, devolvono meno del loro reddito al welfare e impegnano lo Stato meno nell’economia di quanto avviene per altri paesi industrializzati. Non soltanto non hanno un’efficace, classista, movimento politico radicale, ma i loro sindacati, che a lungo sono stati più deboli di quelli di quasi tutti i paesi industrializzati, sono andati rapidamente indebolendosi a partire dalla metà degli anni 1950”.
Oggi l’“eccezionalismo” è in causa nel dibattito sull’imperialismo americano. Che appunto non si vuole imperiale, ma movimento di libertà. Per il credo eccezionalista, ma è più un sentiment, l’imperialismo è una cosa europea, che implicava l’occupazione di territori, lo sfruttamento delle loro risorse, la dominazione delle popolazioni locali.  Mentre l’America avrebbe agito in maniera diversa, a partire dalle Filippine e da Cuba, dalla guerra contro la Spagna: si sarebbe unicamente impegnata per l’indipendenza e la democrazia di popoli soggetti, per la libertà.
L’“eccezionalismo” in campo internazionale viene discusso nel quadro della revisione in atto della politica estera e militare degli Stati Uniti: se fare il poliziotto del mondo oppure no - discorso di Trump nella base americana fuori Baghdad il 26 dicembre. Avviata da Obama e rafforzata da Trump: il retrenchment, la restrizione delle spese e quindi dell’impegno diretto, militare oltre che diplomatico. Il riesame è reso più difficile dalla concezione dell’intervento americano come di libertà. Se – poiché – l’imperialismo è come lo definiva Mitterrand: “L’idea d’impero è per se stessa come un male che vi divora”. Ma è in chiave interna che lo studio di Lipset, e l’eccezionalismo nella tradizione, si colloca: perché l’America non è in alcun modo socialista.
Il quesito si può rovesciare, arguisce lo stesso Lipset: “Poiché qualcuno può obiettare a un tentativo di spiegare un negativo, una mancanza, il quesito si può naturalmente rovesciare e chiedersi perché l’America è stata la società politica più classicamente liberale nel mondo dalla sua fondazione a oggi”. E lo fa, proponendo gli Usa come il paese dell’eguaglianza. Non in assoluto, ma come “più uguali” – non nel senso di Orwell, di alcuni “più uguali” degli altri: più uguali che nel resto dell’Occidente.
In apertura, nell’introduzione, definisce “l’ideologia della nazione”, del modo di essere americano, “in cinque parole: libertà, egualitarismo, individualismo, populismo e laissezfaire”. L’America è nata repubblica, aggiungeva, l’Europa monarchica. “Le valutazioni comparative non sono mai assolute”, precisa, “si fanno sempre in termini di più e meno. L’affermazione che gli Stati Uniti sono una società egualitaria non implica ovviamente che tutti gli americani sono uguali in qualsiasi modo questo si possa intendere. Questa proposizione significa (a prescindere da quale aspetto sia sotto considerazione: le relazioni sociali, lo status, la mobilità, etc.) che gli Stati Uniti sono più egualitari dell’Europa”. E non per ereditarietà, si direbbe, o scienza infusa: “Essere americano”, aggiunge subito Lipset, “è un impegno ideologico. Non è una questione di nascita. Chi rigetta i valori americani è in-americano”.
L’America è nata liberale: “L’ideologia rivoluzionaria che divenne il Credo Americano è il liberalismo nella sua accezione sette-ottocentesca, diversa da torysmo conservatore, comunitarismo statalista, mercantilismo, e noblesse oblige dominanti nelle culture monarchiche, stato-chiesa”. Non ha avuto aristocrazie e non ha avuto conservatori ad essa legati: “L’America è stata dominata da puri valori borghesi, di classe media, individualistici”.
Lipset apre la trattazione con un richiamo a Chesterston: “L’America è la sola nazione al mondo fondata su un credo. Quel credo è stabilito con lucidità dogmatica e perfino teologica nella Dichiarazione di Indipendenza”. Che Burke, va aggiunto aveva preceduto, nel discorso al Parlamento del 22 marzo 1775 in cui presentò un piano in cinque punti per “concedere e conciliare” con le colonie in rivolta – un mese dopo, con la battaglia di Lexington e Concord, la prospettiva decadeva. Il ribellismo (“disobedient spirit”) americano Burke legava alla crescita economica (“oggi le esportazioni dell’Inghilterra verso “le colonie” sono uguali a tutte le esportazioni settant’anni fa”), e al fatto che i coloni, benché inglesi a tutti gli effetti, non avevano diritti politici, di rappresentanza e di legislazione. Ma soprattutto, concludeva, nasce dal sentiment libertario: “Nel carattere degli americani l’amore per la libertà è la caratteristica dominante che segna e distingue il tutto; e siccome una passione ardente è sempre gelosa, le colonie diventano sospettose, turbolente, e intrattabili quando vedono il più piccolo tentativo di strappargli con la forza, o sfilargli con l’imbroglio,  quello che credono il solo bene per cui meriti vivere. Lo spirito orgoglioso di libertà è più forte nelle colonie inglesi, probabilmente, che in qualsiasi altro popolo della terra, e questo per una grande varietà di potenti cause”.
Nell’Ottocento prevaleva la “germ theory”, anzi la continuità era scontata, per molti la rivoluzione americana fu un prolungamento dei dibattiti alla Camera dei Comuni. Lo stesso Burke ne era convinto – tra le “potenti cause” c’era il fatto che i coloni erano inglesi – ma sapeva che non era tutto. È del resto vero che i futuri Stati Uniti d’America non furono mai colonie, erano pezzi delle madrepatrie, un’Europa trapiantata, inglese, olandese, francese, tedesca, russa perfino, seppure governata da Londra, alla lontana. Ora le differenze sono nette. Le tradizioni europee si riconoscono in America in quanto incidono su persistenze tipicamente americane. Quel poco che ancora incidono, e alla pari delle tradizioni africane o asiatiche.
Un libro di vent’anni fa, che non si è tradotto benché necessario alla storia americana, e nostra.
Seymour Martin Lipset, American Exceptionalism, W.W.Norton, pp. 352 € 16.34

lunedì 4 febbraio 2019

Accoglienza e razzia


L’accoglienza è un dovere, legale oltre che morale. Il mercato delle braccia è un altro, il caporalato – ma è più una foema di razzia. Se ne discute in Ialia attorcigliandosi sulla buona volontà, a opera di un patito Democratico a fini di propaganda politica. Che è poi lo steso partito che non ha voluto riconoscere lo ius soli, che è un diritto umano basico, e comunque un diritto positivo acquisito internazionalmente. Oltre che un messaggio di saggezza: l’Italia è un aese che accoglie chi ci è nato, vi si forma e vi lavora – l’Italia è un paese solido, non una pappamolla di buone intenzioni. Per non dire del diritto, altrettanto fondamentale, ai ricongiungimenti familiari.
Mentre dall’altra parte non si fa il discorso delle mafie dei migranti. Che ci sono. Ci sono sempre state, fin dal 1990, dal primo arrivo degli albanesi con i mediatori pronti a Brindisi. E ora con le organizzazioni che smistano i minori e chi emigra senza un progetto, un mercato degli sbandati. Senza leggi e senza remore: lè così che e migliaia di morti non sono una colpa.
Il dovere dell’accoglienza implica anche la repressione degli abusi. Sulla pelle dei migranti.

Le mafie dei migranti

Le mafie dei migranti non sono solo libiche. Sono anche italiane, e africane: nigeriane, dei bambara, degli est-africani, dell’Etiopia e del’Eritrea – a lungo sono state somale. Ci sono organizzazioni per questo, ognuno lo vede dalle semplice osservazione in strada, per le attività illegali e per i piccoli lavori, retribuiti cioè male. Con esiti negativi per l’insieme dell’immigrazione, che è ingombra di refoulés e deve vendere il suo lavoro al ribasso, nelle campagne, nell’edilizia, nei servizi domestici. Non solo a Rosarno-San Ferdinando, come pensa il neo segretario della Cgil Landini.
La disattenzione, o ignoranza, del sindacato è una delle “buche” in cui questo mercato nero delle braccia prospera. Ma le disattenzioni, o la mera capacità di informarsi, è generale in Italia.
I mercati di africani per esempio non sono solo libici, e anzi non sono probabilmente nemmeno libici, se non per il pizzo del passaggio. Non sono libici quelli che tengono in soggezione in attesa dell’imbarco. Anche se la Libia ne ha la tradizione: una invettiva di Virgilio nell’“Eneide” contro il rifiuto di accoglienza ai naufraghi che è stata messa in rete come fosse rivolta a qualche aborigeno di Lavinio, è invece già allora contro i cattivi di Cartagine, che è quanto dire la Libia anche se oggi sta in Tunisia, ma non è immaginabile un’organizzazione libica del business immigrati, se non per la modesta tangente di passaggio.  

Dio c’è ma non esiste

La “prova ontologica” (logica) di Dio cui Gödel ha lavorato in un lungo lasso di tempo, messa a punto il 10 febbraio 1970, una paginetta di formule, assiomatiche e definitorie. Assortita da due foglietti di annotazioni, di carattere filosofico e teologico, che accompagnavano la “prova ontologica”. In tutto una diecina di pagine, che si vogliono a loro volta assortite da quattro spiegazioni. Due in forma di prefazione, di Gabriele Lolli e di Robert Merrihew Adams, l’editore della “prova ontologica”, e due in forma di postfazione, d Giorgio Odifreddi e del matematico pisano Roberto Magari. Due atei professi, i postfatori, che un po’ ridicolizzano la prova un po’ dicono Gödel comunque un  non credente. Mentre i prefatori lo presentano di spirito religioso, nella corrispondenza, nelle confidenze, nelle (rare) prese di posizione: un tradizionalista – alla “prova ontologica” lo spinge Leibniz.
Scritti impervi, formali, specie quelli di Gödel, arabo per il profano. Molto si fa la differenza fra essere e esistere – Dio è, ma esiste? Ma l’affaccendarsi degli ateisti anche qui attorno a Dio confonde: perché si occupano tanto di questo Dio che negano?
Kurt Gödel, La prova matematica dell’esistenza di Dio, Bollati Boringhieri, pp. 123 € 11

domenica 3 febbraio 2019

Il mondo com'è (366)

astolfo


Africa – È il continente dei presidenti a vita, con poche eccezioni (forse la sola Nigeria, dove le elezioni sono “regolari”), fra i suoi cinquantaquattro paesi. Di dittature di fatto, anche se fra elezioni periodiche. Teodoro Nguema Mbasogo gestisce la Guinea Equatoriale dal 1979. Dos Santos, il presidente dell’Angola, che si è dimesso nel 2017, viene secondo nella durata, 48 anni, avendo preso la presidenza nel 1979, alla morte di Agostinho Neto, il leader dell’indipendenza del paese. Paul Bia, in carica a capo del Camerun dal 1975, viene terzo, con 44 anni. Gheddafi è stato il quarto più longevo in carica, dal 1969 al 2011, 42 anni. Seguito da Omar Bongo, Gabon, con solo qualche giorno in meno, dal 1967 fino alla morte nel 2009. Eyadéma segue in settima posizione, 38 anni di presidenza del Togo, dall’indipendenza nel 1967 alla morte nel 2005.
Fra i viventi, dopo Mbasogo vengono:
Yoweri Museveni che gestisce l’Uganda dal 1986 – 33 anni
Omar Hassan el Bashir il Sudan dal 1989
Isaias Afewerki l’Eritrea dal 1991
Un campionario di altre lunghe durate:
Sékù Touré, dal 1958 al 1984 (deposto). Succeduto da Lansana Konté, dal 1984 alla morte nel 2006
Léopold Sédar Senghor, Senegal, 1960-1980 (ritiro)
Félix Houphouët-Boigny, Costa d’Avorio, 1960-1993 (morte)
Dawda Jawara, Gambia, 1962-1994 (deposto)
Il dr. Hastings Banda, Malawi 1963-1994 (sconfitta elettorale)
Julius Nyerere, 1964-1985 (ritiro)
Kenneth Kaunda, 1964-1991(ritiro)
Mobutu Sese Seko, Congo-Zaire, 1965-1997 (deposto, malato terminale). Dopo di lui altri ci hanno tentato, con diversa fortuna, ma mai per il bene del paese: la attuale Repubblica Democratica del Congo sopravvive fra un centinaio di gruppi armati che si fronteggiano. 
Mussa Traoré, Malì, 1968-1991 (deposto)
Siad Barre (Somalia), 1969-1991 (deposto)
Abdu Diouf, Senegal, 1970-2000 (ritiro)
France-Albert René, Seychelles, 1976-2004 (dimissioni)
Hassan Aptidon (Gibuti),1977-1999 (lascia la presidenza al nipote Guellez)
Daniel Arap Moi (Kenya), 1978-2002 (ritiro).
Robert Mugabe (Zimbabwe), 1980-2017 (deposto)
Hosni Mubarak, Egitto, 1981-2011 (deposto) – prima di lui Gamal Abdel Nasser, 2956-1970 (morto)
Jerry Rawlings (Ghana), 1981-2001 (ritiro)
Blaise Compaoré, Burkina Faso, 1987-2014 (deposto)
Ben Alì, Tunisia, 1987-2011(deposto)
Molti sono stati deposti dopo pochi anni di dittatura.
Nel Ciad Hissène Habré, presidente dal 1982al 1990, è stato deposto da un colpo di Stato democratico. Idriss Déby, l’autore del colpo di Stato contro il dittatore Habré, è rimasto a capo del Ciad ininterrottamente dal 1990 a oggi.

Distensione- S’intende tra Est e Ovest, tra l’Occidente e all’allora mondo comunista, cioè la Russia, in atto dal 1954. Quell’anno le quattro potenze ex alleate in guerra, più la Cina, si riunirono a Ginevra per cercare una soluzione alla guerra in Corea, e alla rivolta nazionale in Indocina. Era il primo incontro dopo l’avvio della guerra fredda nel 1946, presieduto dal sovietico Molotov e da lord Eden, i ministri degli Esteri. Ne venne fuori l’assetto che ancora perdura delle due Coree. 
Il processo di distensione superò il 1956, la crisi di Suez (la nazionalizzazione del Canale, l’intervento militare anglo-franco-israeliano, e il finale intervento diplomatico americano a favore dell’Egitto e la nazionalizzazione), e la rivolta dell’Ungheria, affrontata da Mosca con i carri armati. Si svolgerà come “competizione pacifica” negli anni di Krusciov a Mosca, protesi a “superare” gli Stati Uniti, nella scienza e la tecnologia, e perfino nella produzione. Indenne a crisi anche acute, come quelle del 1956, e anche guerre: la crisi dei missili a Cuba nel 1962, il Vietnam, Poznan e Praga nel 1968, l’occupazione sovietica dell’Afghanistan. Fino all’accordo del 1987 fra Reagan e Gorbaciov, per la distruzione di 846 missili americani 1.846 russi. E laccordo Che ora, dopo trentanni, viene rimesso in gioco dalle due potenze.  
L’accordo del 1987 era stato preceduto nel 1963 da un’intesa a tre, Usa, Urss e Gran Bretagna, non firmata da Francia e Cina, per la messa al bando degli esperimenti nucleari nell’atmosfera. Con l’apertura della linea rossa, un linea di comunicazione diretta fra Mosca e Washington, al fine di prevenire malintesi e incidenti. Dieci anni dopo, nel 1972, Kissinger concludeva con Mosca gli accordi Salt 1 e Abm, i sostanziali precedenti dell’accordo del 1987, per la limitazione del numero e la potenze delle testate nucleari e dei stsiemi di difesa antimissile – missili antimissili.

Francia – Il paese della rivoluzione ha un fondo conservatore, e anzi reazionario: localistico, agrario, le “grandi famiglie” segrete. Le rivolte sono sempre di destra, le jacqueries, i sansculottes, e la sinistra non ha mai governato, fino a Mitterrand. La sinistra è stata al potere in Francia in due secoli e mezzo, poco meno, cinque volte. L’ultima con Hollande, che però non si può dire di sinistra  – non si può dire di nessun colore. Prima di Hollande c’è stato Mitterrand, per due presidenze, a partire dal 1981. Ma nei due secoli precedenti niente: quattro mesi nel 1848, con un solo rappresentante peraltro, Louis Blanc, in posizione amministrativa, di segretario del consiglio, in un governo la cui unica decisione fu di opporsi alla riduzione del tempo di lavoro quotidiano. Due mesi nel 1870, e solo a Parigi. E un anno nel 1936, col Fronte Popolare. Con Mitterrand la sinistra ottenne nel 1981, per la prima volta nella storia della Francia parlamentare, la maggioranza assoluta l’Assemblea – un’altra rivolta cieca, più che di sinistra.

A un sondaggio nel 1986 sulle elezioni legislative in calendario, un terzo dei francesi pensavano che l’elezione fosse del presidente della Repubblica, un quarto che fosse un’elezione dei sindaci. Due francesi su cinque non sapevano che erano elezioni a un solo turno.

In conversazione con  Marguerite Duras nello stesso 1986 (“Le bureau de poste de la rue Dupin e autres entretiens”) Mitterrand ricorda un sondaggio nel primo dopoguerra “in un piccolo villaggio della Nièvre”, nella Borgogna Franca Contea, al centro della Francia, che alla domanda “Sotto che regime siamo, repubblica o monarchia?”, aveva avuto una risposta divisa, metà e metà.
Nella stessa conversazione Mitterrandi dice i francesi conservatori per il fondo celta: “I francesi sogno galli, e i galli erano contadini”. I contadini ora sono una infima minoranza, continua, “nemmeno l’8 per cento della popolazione, ma è quell’8 per cento che ispira il modo d’essere e di ragionare della maggioranza della popolazione”. Ma per lo steso motivo anche litigiosi, pronti alle rivolte inconsulte, per un fondo tribale – “ricordatevi Asterix.”.

Islam – L’Italia se ne proclamò protettrice, con Mussolini, nel 1934: riunendo la Cirenaica e la Tripolitania nella Libia, Mussolini si proclamò protettore dell’Islam e del Profeta. I libici promosse a “mussulmani italiani della quarta sponda d’Italia” - Italo Balbo, governatore della Libia, darà nel 1939 la cittadinanza italiana a tutti i libici della costa. Da radio Bari avviò una serie di programmi in lingua araba. Aprì a Tripoli una Scuola Superiore di Cultura Islamica. Favorì con elargizioni e strutture ricettive il viaggio alla Mecca. Restaurò o aprì scuole coraniche e moschee. Tre anni più tardi, il 20 marzo 1937, proclamato l’impero, si fece nominare Spada dell’Islam, insignito dell’arma e del titolo, in una grande cerimonia nei pressi di Tripoli – l’arma aveva fatto realizzare a Firenze, dalla ditta Picchiani e Barlacchi, e se la portò alla Rocca delle Caminate, sua residenza estiva..
Il fascismo ebbe anche larga eco e molto seguito nel mondo arabo. Il sostegno italiano all’islam fu azionato in chiave antibritannica, e antifrancese. A Beirut portò alla creazione delle Falangi  Libanesi, che ancora esistono. Notevole seguito ebbe nello Yemen, dell’imam Yahia. Forte fu l’influenza sul movimento nazionalista in Egitto dei Fratelli Mussulmani di Hassan el Banna. Nella guerra d’Africa, quando il maresciallo Graziani pensava di fare una passeggiata fino al Cairo, nella capitale egiziana c’erano manifestazioni di incoraggiamento, con invocazioni di Mussolini quale “Mussa Nili”, Mosè del Nilo.
Sempre in chiave antibritannica, Mussolini ebbe anche un rapporto privilegiato col Muftì di Gerusalemme Amin el Husseini, il custode dei luoghi santi islamici, forte nazionalista, e con la famiglia reale dell’Afghanistan. Con l’ultimo re Zaheri e, soprattutto, con suo cugino Mohammed Daud, che vestiva in camicia nera e gambali. Lo stesso che nel 1973 rovescerà il re, che in esilio verrà a Roma, e proclamerà la repubblica, col partito Comunista.
Giancarlo Mazzucca, che con Gianmarco Walch ha scritto un libro in tema, “Mussolini e i musulmani”, in chiave aneddotica, dice l’infatuazione non politica, riportandola agli anni 1910 e a una “affettuosa amicizia” che il Mussolini direttore socialista dell’“Avanti!”, avrebbe avuto con al giornalista Leda Rafanelli, “di fede musulmana”. Anche il nome, dicono Mazzucca e Walch, lo legava all’islam: Mussolini da mussola, da Mossul in Iraq – se non direttamente da mussulmano.

Leggi razziali – Furono applicate con durezza in Italia, fino al 25 luglio 1943, e dopo, nel Centro_Nord con le leggi di Verona. Nei territori occupati in guerra, invece, in Grecia e nella Francia meridionale, l’Italia si oppose alla deportazioni tedesche, e non impedì agli ebrei di esercitare le loro attività, compresi i commerci.
Gli italiani brava gente? Difendevano gli ebrei e molti ne salvarono, ma anche accusavano e compravano al ribasso.

Victor Noir – Il suo monumento funebre è il più frequentato del Père Lachaise, il cimitero monumentale di Parigi. Nelle parti basse. Era un giovane giornalista, antibonapartista, morto a 22 anni, il 12 gennaio 1870, vittima di un colpo di pistola, all’improvviso e a bruciapelo, di Pierre Bonaparte, il figlio di Luciano Bonaparte, quindi nipote di Napoleone – cugino dell’imperatore in carica, Napoleone III. Noir era andato a casa sua con un amico, quali padrini di un altro giornalista,  Pascal Grousset, che si riteneva diffamato da un articolo di Bonaparte e lo sfidava a duello.
L’assassinio in casa del principe Bonaparte avviò una serie di tumulti, che dureranno fino alla caduta di Napoleone III. Qualche anno dopo, le spoglie di Victor Noir,quale simbolo delle virtù repubblicane, furono trasferite al Père Lachaise. E un monumento funebre fu commissionato allo scultore Aimé-Jules Dalou.Che lo raffigurò al naturale, in bronzo, come fu trovato dopo il colpo mortale: la bocca aperta,i pantaloni slacciati, gonfiati da un’erezione.
È questa parte che ne causa la popolarità - una parte che brilla per il continuo strofinamento. Sono lucide anche le spalle, come se la pratica fosse comune di cavalcare il monumento.


Orban – Fu l’artefice dell’assedio mussulmano di Costantinopoli ne 1453, conclusosi l’anno dopo con la conquista – Orban era intanto morto, nel maggio 1453. Ingegnere metallurgico ungherese già noto per la sua attività, offrì i suoi servigi a Mehmet II, il giovane sultano ottomano, dopo che erano stati rifiutati dal’imperatore bizantino. Equipaggiò l’esercito ottomano con cannoni in bronzo molto più potenti di quelli in uso, che fecero epoca. Uno, detto “il cannone dei Dardanelli”, resterà attivo e pronto all’uso ancora nel 1807 contro la flotta britannica che voleva forzare lo stretto. Aveva un calibro di 889 mm., poco meno di un metro, in grado di lanciare pietre del diametro di 63 centimetri.

astolfo@antiit.eu 

Ritorno al Mundial, e alla banda della Magliana

Una buffonata – si dice commedia all’italiana, ma è propro una commedia dell’arte, con i ruoli fissi dei buffoni. Vivace e divertente, sulla storia come avrebbe potuto essere e a un certo punto non è più – la storia ha questa caratteristica, di mutare in continuazione. Su un pretesto perfino semplice: una rimpatriata fra tre compagni di scuola cresciuti sfigati, che vivacchiano tra mogli renitenti (Gassman), suoceri schiavisti (Gianmarco Tognazzi), e infingardaggine (Giallini), finiscono nel mondo della Banda della Magliana che provavano a mettere in vendita come itinerario turistico.  Dal 2018 sono catapultati per caso, spinti da un quarto compagno, quello intelligente e inventivo (il regista Buno si è riservato il ruolo), per troppa immedesimazione col lor tema turistico, nel 1982.
È l’estate del Mondiale di Spagna, i nostri sanno i risultati, vincono al totonero, convincono Renatino, capo della Magliana, ne diventano gli eroi. Si approprieranno anche del tesoro della banda, ci provano, custodito a sant’Apollinare, e torneranno infine alla vita vera di ogni giorno. Ma hanno vissuto un’esperienza indimenticabile. Senza morale – che sarebbe: meglio la Magliana che niente. E tuttavia si ride.
È come per il ritorno di Mussolini: lo spazio-tempo circolare, einsteiniano, consente molte sorprese.
Massimiliano Bruno, Non ci resta che il crimine