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Alienazione
–
È in uso nell’accezione marxiana, limitativa: del lavoratore che perde (a cui
si ruba) la fatica, il prodotto e il senso della propria fatica. Ma è concetto
che Marx deriva da Hegel e da Feuerbach, tradendolo – involgarendolo, come
supporto alla lotta di classe. Ma la Entfremdung
e la Entäusserung originarie sono
bizzarrie. Per Hegel è il modo logico della vita dello Spirito, quando lo
Spirito “si aliena” nel mondo, cioè vi si disperde-perde. Per Feuerbach è la
trasposizione celeste delle speranze terrene.
Comunità – È
originariamente economica, sul nocciolo duro parentale. Ne fa la sintesi Max
Weber presentando i suoi due saggi sulla Borsa valori nella “Gōttinger
Arbeiterbibliothek”, 1984-1896: “L’individuo abbandonato a se stesso non è mai
stato capace di sfidare la natura”. L’individuo non può vivere isolato: “Non
fosse che per la semplice sopravvivenza, è da sempre dipeso da una comunità,
come il bambino dipende dal seno della madre”. In questa duplice funzione,
madre-figlio, unitaria-aperta, la comunità è un modulo che integra anche gli
esterni, e perfino i nemici – oggi potenzialmente sul fondamento di leggi.
Dio – Viene di
necessità, prima che di auspicio – è l’argomento del “Liber Nimrod”, l’astronomo,
poiché niente nell’universo visibile può esistere a se, di per sé - per quanti sforzi faccia, si può aggiungere, il
costosissimo titanesco impianto del Cern, dell’infinitamente piccolo.
Marx – Pochi tardivi
contributi al bicentenario della nascita, ma centrati su un “altro Marx”: l’uomo,
il politico appassionato, fazioso, l’organizzatore. Il “giovane Marx” del film –
dell’unico film, non di rilevanza – oppure il politicante. Filosoficamente poco
o nulla “marxiano”, non nel senso del Diamat, il materialismo dialettico
sovietico, da Bukharin a Lenin e Stalin. Valga Giuseppe Vacca per tutti, a
lungo presidente dell’Istituto Gramsci, e quindi custode dell’ortodossia, il
quale lamenta “il «filosofeggiare»” che si è fatto “sul pensiero marxiano
ignorandone l’interazione con la biografia”. E anzi trascurando il “Capitale”
per immergerlo negli inediti giovanili: “Pretendendo “la restituzione degli
affetti domestici, delle incredibili sofferenze procurategli dai malanni, e
dagli stenti, la memoria delle tragedie familiari”. Questo è esagerato, Marx
privato era uno godereccio che se le concedeva
tutte. Uomo sempre di spirito nella corrispondenza pur quasi quotidiana con
Engels. E uno che non si privava di una buona birra, o della caccia alle gonne.
Dalla servetta di casa, Lennchen, alla quale fece un figlio, a una ragazza
Bismarck che corteggiò, o s’immaginò di corteggiare, e altre principesse giovani.
Né
si può evitare di imputargli il materialismo. Al cui gioco vince il capitale,
quintessenza della materia. La potenza divorante del denaro avrebbe potuto
vincerla con una mossa destabilizzante, non con una accrescitiva, o in una
inutile (perdente) gara. Non è sbagliato attribuirgli la celebrazione massima
della borghesia. Il caso della Cina, massimo paese comunista e massima potenza
capitalista e imperialista, militare e finanziaria (“la via della Seta”), non è
necessariamente mostruoso.
Ma
Vacca ha ragione quando dà ragione a Marcello Musto, il marxiologo dell’ultimo decennio, che pure
ha esordito con un “Karl Marx’s Grundrisse”, anche lui. Che nella sua biografia
del Marx ultimo, “Karl Marx. Biografia intellettuale e politica (1857-1883)”, nell’originale
tedesco “Il tardo Karl Marx”, ipotizza che “tra i classici del pensiero
economico e filosofico, Marx sia quello il cui profilo è maggiormente mutato
nel corso degli ultimi anni”. Non per molti, ma mutato lo è senz’altro.
Questo
sito nel suo piccolo ne faceva stato in una serie di post.
Il 13 dicembre
2014:
“Fra
le cose che Lucio Colletti ha capito al momento dell’abiura, uscendo
dall’ermeneutica dei funzionari del Pci, è che “Il Capitale” aveva un
sottotitolo, “Critica dell’economia politica”. Lo ha sempre avuto, ma Lenin
aveva detto che bisognava leggere “Critica dell’economia politica borghese”.
Non aveva torto, Marx critica l’economia politica come scienza in sé borghese,
cioè contabilistica. Molto rivoluzionario, ma è von Hayek, meno palloso. Il
feticismo delle merci, l’alienazione nella vita e nel lavoro, questo lo
eccitava, la condizione umana, è tutta qui la teoria del valore. Il plusvalore
è la “realtà capovolta” rispetto agli elementi originari della produzione, la
terra, il capitale, il lavoro, ma è realtà non disprezzabile, se non invenzione
miracolosa. Quanto al popolo, non è a Marx, è all’intellettuale che piace,
creatura del romanticismo fumoso, che pensa di farsene guida – la volontà del
popolo. Gramsci lo sapeva: “In Italia il marxismo è stato studiato più dagli
intellettuali borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso della politica
borghese, che dai rivoluzionari”.
“Marx
sarà stato grande in questo, che ne rideva, già in anticipo – su Lenin, e
Colletti con Togliatti. Ma, Croce ha ragione, “Marx non tanto capovolge la
filosofia hegeliana quanto la filosofia in genere, ogni sorta di filosofia, e
il filosofare soppianta con l’attività pratica”. Che, se si sta in pantofole,
non è attiva né pratica. Patrizi e plebei si diceva a Roma dei primogeniti e i
cadetti della stessa famiglia, i privilegiati e i non, ma tutti erano
aristocratici, ne avevano lo spirito. Marx ne è parte, patrizio o plebeo che si
voglia, non è invidioso, non cattivo: non è schiavo ma libero. La sua
democrazia fa grande, universale, ciò che a Roma era circoscritto. Ma il resto
della storia non è onorevole”.
Il 26 novembre
2014:
“Avrebbe riso del Diamat, una cosetta scientista, positivista, e del sistema
moscovita della proprietà statale dei mezzi di produzione, o del partito unico,
una forma come un’altra di dittatura? È possibile: Marx non ne ha colpa. Lui il
suo lavoro l’aveva completato, chiedendo di abbattere lo Stato. Non si può
fargli colpa di Stalin, che non lo realizzò ma l’affossò: la rivoluzione che
doveva eliminare lo Stato ribaltò nello Stato totalitario, per primi liquidando
i comunisti.
………
“E tuttavia dopo Marx più
nulla, una voragine si è aperta che non si colma. Anche lo Stato delle
multinazionali sa di rieccolo: il previsto mercato mondiale, l’imperialismo
puro. A opera del più forte di tutti i forti, gli Usa. Nel nome del mercato, di
cui Marx fu secondo scopritore. Dopo Frances Hutcheson, che “la maggiore
felicità per il maggior numero” teorizzò, e i suoi discepoli Hume e Smith –
benché con alcuni paletti, pochi, nei punti sensibili. L’imperialismo di
mercato è molto democratico, la Coca Cola potendosi bere nel Congo equatoriale.
È pure bello: Hutcheson ha impostato l’estetica come disciplina, vanta anche
questa primizia”.
Il 10 novembre 2014:
“Il
problema con Marx è che voleva eliminare il proletariato. Mentre si lotta invece per farlo trionfare. Il proletariato,
i servi cioè retribuiti. Per forza che Marx è morto. Uno che peraltro per primo
non credeva alle “leggi” dell’economia, che sapeva falsate da autodidatta, e
della storia. E la vita spese a costituire la sua fazione, contro ogni altro
socialista e comunista prima che contro la polizia segreta prussiana.
“Sapeva riconoscere un nemico, questo sì.
Per questo eresse un monumento al capitale, con la proposta di arrestare la
storia e la filosofia, l’impercettibile ma costante mutamento attraverso cui
l’uomo esce dalla sua pelle, con gli amori, il lavoro, la generazione, la
convivialità, nell’arte, canti, balli, racconti, silenzi, e negli elementi, la
terra, il legno, la pietra, il ferro. Non bisogna equivocare sul Marx borghese,
non c’è infamia nel volere il pianoforte per le figlie. Il rifiuto del
ruolo, per l’uguaglianza del merito e una vita da vivere a ogni istante, non è
la realtà o la contemporaneità, e non è Europa, semmai è America. Tutti nel
mondo che Marx conosceva volevano, vorrebbero, una moglie nobile, la casa in
Toscana o in Provenza, con contadino, da guardare da lontano come il vecchio
feudatario, e i ricevimenti del Gattopardo coi gelati squagliati, il rifiuto
della buona borghesia è assillo borghese, un’ideologia.
“Si fa presto a dire Marx, ma che rivoluzione ha organizzato, che
partito, a parte la rissosa Prima Internazionale, che sindacato? Bisognerà
aspettare Lenin per avere una rivoluzione marxista, di borghesi cioè con la
classe operaia. I libri e le sue innumerevoli lettere sono frammenti. Il cui
filo non può essere la struttura, cioè il potere secondo il Diamat: il lavoro
produttivo è sovrastrutturale, un qualsiasi esperto di mercato lo sa.
Altrimenti è un comunismo da schiavi: non può “realizzare l’uomo” se elimina
ogni spazio comune. Ed è la verità della sua prima rivoluzione, in Russia,
paese di servi, e non in Germania, dove c’era la più vasta e organizzata classe
operaia e il contesto era maturo, per la crisi del nazionalismo, dell’economia
e dell’imperialismo. I lavoratori tedeschi vollero anzi ridare ai borghesi il
potere che la guerra perduta aveva loro sottratto. L’astronomo olandese
Pannekoek - che ne sapeva più di Lenin, disse lo stesso Lenin - scoprì subito
pure perché: in una società integrata, che viene da lontano, egemonie e
sudditanze si legano per molti fili, culturali, storici, tribali. Non maturano
solo i processi produttivi, di più ma-turano e anzi induriscono le ideologie, e
si dovrebbe dire le psicologie”.
Il 12 novembre
2014:
“È un liberale? È ipotesi non del
tutto arbitraria – tra le tante che si opinano per tenerlo in vita. Già Keynes
- a sua volta oggetto del ricorrente quesito: è un liberale= – lo collocava nel
liberismo:
“La scuola di Manchester e il
marxismo derivano entrambi in ultima analisi da Ricardo, conclusione solo a
prima vista sorprendente”. Da Ricardo che più di Adam Smith è il cardine
teorico del liberismo. Keynes Lo scrive nella prefazione all’edizione tedesca
della “Teoria generale”, nel 1936, e si può ritenere l’accostamento una
petizione di benevolenza presso gli economisti tedeschi all’ora del
totalitarismo antisovietico, ma non è sorprendente, in questo Keynes ha
ragione.
“Il primo antimarxista, anzi, si può dire
lui stesso. Che dà
una garanzia che è poco più di una metafora: ogni società, dice con Hegel,
contiene in germe le epoche successive come ogni organismo vivente porta i semi
dei suoi discendenti. Ma questa gracilità Marx condivide con tutti i filosofi.
“È
liberale, invece, con più sostanza. Non anarchico, qual è il liberale coerente:
costituzionale. Da qui il catechismo volgare. Per
abbattere lo Stato e i padroni ci vuole la rivoluzione. E la rivoluzione è solo
della classe operaia, che è libera dall’ideologia, di servitù e violenza.
Oc-corre dunque essere operai. Mentre da tempo la classe operaia si libera da
se stessa, non vuole essere più operaia. La rivoluzione è allora antimarxista.
O non sarà Marx un catechista, se kat-echon
è ciò che arresta? Un
teologo che si rifiuta? L’asceta che ribalta l’ascetismo, il rifiuto del mondo,
in odio di classe, cioè nella conquista del mondo.
““Una meravigliosa illusione fa sì che
l’alto volo della speranza si leghi sempre all’idea del salire, senza
riflettere che, per quanto si salga, si deve pur ricadere, per porre piede
forse in un altro mondo”, questo diceva Kant, che era alto un metro e mezzo.
Sì, Marx
è Sorel, che anche lui diceva come Keynes, “l’economia marxiana è
manchesteriana”, con proprietà, mercato e profitti. Solo che, come Machiavelli,
mette piede ricadendo sul mondo di prima – gli uomini più
interessati che cattivi sono nel “Principe”.
“Marx sarà stato l’ultimo dono
dell’Europa al mondo. Heidegger, Freud, Nietzsche stesso sono dei maghi, Marx
invece no, e questo è rassicurante. Confinato al sovietismo, la vecchia
agiografia, lui critico impietoso, se n’era caricato i riti, inclusi i
miracoli. Da ragazzo c’era portato, che diciassettenne scrisse di Augusto, in
latino: “Un capo assoluto e non la libera repubblica fu capace di dare al
popolo la libertà”. La chiesa sovietica non poteva che farne il profeta di
Lenin, ogni messia ha un precursore. Ma era di Lenin il partito chiesa, che non
lascia scampo.
L’abbandono
dell’analisi per l’ideologia, della critica dell’economia politica per la
mistica della rivoluzione è di Lunačarskij e Bogdanov, comprimari di Lenin. La
religione è leninista. È Lenin che ha dato alla politica il
primato sull’economia e la struttura, Lenin è il primo antimarxista. Lenin il
sarmata, che il comunismo ha trascinato fuori dalla tradizione occidentale del
dubbio. L’azione politica di Marx ha tramutato nella fabbricazione della
storia. Il marxismo come fabbrica, Marx ancora ne riderà”.
Il 6 novembre
2014
“Fu
giornalista, dopo rapidi studi di dottrina dello Stato, filosofia e storia,
senza dottorato, anche se pretenderà di rovesciare Hegel. Engels lo paragona a
Darwin. Ma è a Spencer che somiglia: la lotta di classe come il darwinismo
sociale, la sopravvivenza del più forte. L’economia o l’interesse non spiega
l’uomo, nemmeno l’uomo corporale, senz’anima, e neppure l’odio, non spiega la
guerra, né l’ilare tragedia dell’amore, il sacrificio di sé, la procreazione,
incluso dell’impresa economica, il piacere. Marx che si vuole critico è
astratto, irrealistico. Entusiasma ma è sterile. Solo produce odi improduttivi,
della perfida Albione, degli yankee,
dei padroni, di chi possiede di più. Se c’è qualcuno che sa, con cognizione di
causa, che il mercato è incontrollabile è lui - con più cognizione di causa di
Smith. La filosofia della prassi è certo novità eccezionale, ma il suo inveramento
avviene in Dostoevskij, o in Gide volendo essere beneducati, e Heidegger.
“Sarà stato una promessa filosofica a
ventisette anni, poi per altri quaranta un giornalista e agitatore politico.
Non era facile, il valore economico è recente, fino a Hobbes non c’era
un’assiologia dei beni. E a Marx si è fermato: non c’è una teoria del valore
successiva, del valore come lavoro – in italiano è perfino anagrammatica. I
suoi critici capitalisti ne ricalcano i fondamentali. Ma la critica del
capitalismo è reazionaria: i reazionari prima di Marx, e con più veemenza,
criticano il capitalismo, il mercato dei soldi”.
Il 2 novembre
2014:
“È un liberale? Non è uno sberleffo dei
suoi nemici ma un’avocazione degli appassionati e reduci del comunismo. Di un
comunismo vittima esso stesso dell’ideologia dominante del libero mercato? Non
sempre. Spesso ha ritrovamenti e radici culturali. Mario Alighiero Manacorda,
il pedagogista morto un anno fa in tarda età, nell’ultima sua rivendicazione,
“Perché non posso non dirmi comunista”, mette in campo anche Croce: “Davvero
Marx ha opposto il comunismo alla tradizione moderna del liberalismo e della democrazia
borghese? In realtà anche Croce sapeva che «l’estensore del Manifesto dei comunisti…nell’affrettar
con l’opera e coi voti la fine della borghesia usciva in un grandioso e
caloroso elogio dell’opera compiuta dalla borghesia»”. Di suo aggiungendo: “Tanto
per cominciare, e tanto per la cronaca, Marx ha una formazione liberale”, il
suo primo articolo, nel 1842, è contro la censura per la libertà di stampa. Più
“in generale, il comunismo nasce, in sede teorica, sulle esigenze poste dalle
ideologie liberali e democratiche”.
Manacorda spiega che “in Marx
l’opposizione è tra comunismo e liberismo”, in quanto “ideologia
dell’appropriazione privata dei mezzi di produzione collettivi, non è certo tra
comunismo e liberalismo”. Ma se avesse aspettato ancora un po’?”
E il 7 febbraio 2014:
“Si
moltiplicano in Germania gli studi sulla sua formazione, che ne collegano
alcuni concetti chiave, per esempio il feticismo della merce, alle sue letture
giovanili, di autori poi trascurati, il filosofo Jacobi, lo scrittore satirico
Jean Paul. Quest’ultimo coniava il “feticismo” della merce, cui intitola un
capitoletto del suo libello contro il soggettivismo di Fichte, “Clavis
fichtiana seu leibgeberiana”, con l’esempio di un “feudatario”-demiurgo cui
questa interpellazione andava rivolta: “Come deus majorum gentium, tu sei il padre del tuo bisnonno e
dell’intero albero genealogico, e anche la classe produttrice è un tuo
prodotto”.
“La
“legge” marxista del dominio della cosa – il denaro – era l’evoluzione naturale
dello scientismo positivista, della religione laica, e lo è diventata col
crollo del Muro. Cioè, contro i mattoni del Diamat, il “materialismo
dialettico” sovietico””.
Nichilismo – Tentando una
teoria del desiderio, Leopardi conclude: “Tutto è male. Tutto quello che è, è
male; che ciascuna cosa esista è un male; l’esistenza è un male e ordinata al
male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi,
l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro
che il male” (“Pensieri”, 4174). E l’uomo in tutto questo, Leopardi e gli
altri?
È
affermazione di forti personalità. Di necessità incoerenti. E non per un
rifiuto della coerenza in senso temporale, ma dell’argomentazione stessa, della
sua ratio.
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