sabato 9 marzo 2019

Ombre - 454


Gentile cliente, per motivi
di inefficienza siamo privi
oggi di ogni intelligenza,
e anche domani e dopo,
del telefono l’uso promettiamo
impareremo ma quando non sappiamo,
il 187 teniamo e il 155
giusto per farle ascoltare
una voce muliebre garbata
in attesa di migliorare il servizio
con la voce uno e la voce due
o magari in sequenza ambedue
ma ora basta, il tempo è scaduto.

A Basiglio, “il comune più ricco d’Italia”, il cronista appostato alla Posta la mattina del decollo del reddito di cittadinanza ci trova solo un gentiluomo, giovane, in attesa dell’apertura per “pagare un bollettino da 7,14 euro per il passaggio di proprietà del gatto”. Il populismo non nasce dal nulla.  

Il carnevale di Viareggio celebra il potere, Di Maio e Salvini, e spernacchia ogni altro, Bersani, D’Alema, Renzi, Boldrini, Berlusconi. La satira megafono del potere, sarà questa la vera novità della stagione politica.

La sfilata di Viareggio è molto piaciuta al folto pubblico. Non è la prima giravolta di un mondo che fino a ieri era solidamente comunista, o quantomeno del Pci – prima ancora era solidamente fascista. Non c’è azione pedagogica della democrazia, la barbarie è sempre in agguato.

Web spernacchiante contro Lorella Cuccarini che in tv dice: “Non votavamo per il governo da quanto, dieci, nove anni?” Che dice cioè quello che tutti sanno, che ci hanno governato governi non eletti, quelli del presidente Napolitano e quelli degli accordi sottobanco. C’è l’ignoranza dell’ignoranza, al quadrato. Che si vuole saputa: c’era una volta il “maestro di scuola”, c’è ora il navigatore.

Senza l’aiutino dell’arbitro, l’Ajax va a Madrid e affossa il Real Madrid, vincitore seriale della Champions – all’andata l’arbitro non glielo aveva consentito. Il grande calcio alla portata di tutti, gratis sulla Rai, si rivela un business bacato. Poco o nulla sportivo. 

“L’India supera la Cina tra i paesi più inquinati”. Due grandi apostoli degli accordi di Parigi sulla protezione del clima e dell’ambiente. C’è molta furbizia tra i sostenitori dell’ecologia – o molta stupidità?

 Fubini pizzica Hoekstra, inflessibile ministro olandese antitaliano, che fa vivere il suo paese alle spalle dei paesi che lavorano, sottraendo loro l’imponibile fiscale con trattamenti di favore alle maggiori imprese mondiali – a quelle che guadagnano di più. L’Olanda è “uno dei maggiori paradisi fiscali globali, più di Singapore, Bermude o dei Caraibi britannici”. L’Europa è una favola.

Un lettore lamenta che la troupe Rai sia stata ricevuta per l’intervista da Macron in un sottoscala. Cazzullo risponde che l’intervista è stata citata da “Le Monde”, e quindi è un grosso successo Rai. Il famoso dialogo tra sordi? O viva Fazio. A proposito della favola Europa, di cui lo steso Macron è prodigo nel “manifesto per l’Europa” che i giornali compunti stampano e nessuno legge.

Dacia Maraini scopre a New York, dove si reca ogni anno, un’America che non le piace, sporca e piena di barboni. È proprio vero che non è mai troppo tardi.  

Ciò che irrita più l’ occhio di Maraini, che come tutti è per le frontiere aperte, è che “i negozi seri chiudono per lasciare posto a piccoli servizi alimentari tenuti dagli indiani”. Bisogna anche essere selettivi: solo indiani che tengono negozi seri.

Il Reno fa l’Europa


“Storia, miti, realtà”, Febvre si propone di assemblare. Per un excursus che Donzelli propone come libro d’arte più che come trattato. Ma di fatto un saggio politico – curato in questa edizione dal politologo tedesco Peter Schlotter. “Un capolavoro della geografia storica” (Jacques Le Goff) che è una proposta politica. Per l’impianto e per i tempi: il trattato fu scritto tra il 1931 e il 1935. Da subito dopo la cessazione dell’occupazione odiata della Renania da parte della Francia, a garanzia del pagamento dei debiti di guerra, che tanto contribuì alla crescita di Hitler. A Hitler saldamente insediato a Berlino, e non amichevole verso la Francia. Di impianto saldamente pacifista, malgrado i venti di guerra: una “storia della geografia” per unire. Per unire due mondi che sembravano, dopo tante guerre, nemici a morte.
Febvre rifà la storia del fiume. Negli eventi e nei miti. E ne utilizza la geografia per il suo appello pacifista: del fiume che unisce invece di divider, luogo di scambi, e di incivilimento - fiume europeo, dalla pianura padana all’Olanda, lambendo Svizzera, Francia e Germania. Ciò che è stato vero in questo dopoguerra, con la Repubblica Federale di Bonn, la Germania renana: la quarta Germania si è fatta sul Reno, che è fiume tedesco ma sta nel mezzo. Al suo tempo, invece, al tempo di Febvre, questa conclusione era un azzardo.
Accingendosi a studiare il Reno, che lo porterà in cattedra al Collège de France, scrisse a Pirenne che s’affacciava “non senza timore su un pentolone di streghe dove ribolle la strana, incomprensibile mistura di tre o quattro Germanie contraddittorie che fanno la Germania e dal quale non smettono di fluire, inquietanti e temibili, fiumi di ubriachezza, ambizione e bramosia”. E si cautela, definendolo un’area “situata tra l’Est e l’Ovest”. Mentre il contrario si direbbe: è il cuore dell’Europa, da passi e colli agevoli, il Septimer, lo Spluga, il San Bernardino, il Lukmanier, e attraverso altri passi e colli dal lago di Como, dal lago Maggiore, alle Fiandre e all’Atlantico. Un fiume che Hölderlin, che il Reno vede azzurro, come Dumas dopo di lui, ldice “nato libero”, cioè in Svizzera, “con i fratelli Rodano e Ticino”. E non ha diviso ma unito nella storia, fino alle guerre franco-tedesche.
Fino a Filippo il Buono e Carlo il Temerario, al fallimento dell’idea di regno borgognone al cuore dell’Europa, che tanto avrebbe fatto bene al vino e alla cucina, invece del Reich millenario inutile lasciato da Romolo Augustolo. Dopo ci saranno 97 stati inetti, germanici di nome, francesi di lingua e modi. E il fiume divenne vittima del romanticume e della tedescheria. Non prussiana, da caserma, ma ugualmente eversiva d’ogni buon senso. Liberale qual era e buon cattolico, il fiume si ritrovò avamposto dell’odio riformato, al tamburo del nazionalismo. Il flusso magico finendo vper rifluire nel regime sbirresco, il suo politico di maggiore prestigio essendo Metternich: l’uomo dell’equilibrio liberticida vi nacque a Winneburg, di cui nel 1832, cancelliere dell’impero d’Austria, volle farsi feudatario, Clemens von Metternich-Winneburg – un decennio dopo aver ricevuto in premio dal suo imperatore il ben più meritorio Johannisberg, bandiera del Reno, con le terrazze di viti fastose.
L’attrazione è profonda della Francia per la Germania. Anche tedesca verso la Francia, verso Parigi e la Costa Azzurra. Ma culturale, estetica, vacanziera, non etnica. Mentre la Francia vorrebbe essere tedesca. A lungo i nobili, tra il Reno e i Pirenei, non vollero essere galli, come loro competeva per lo spirito rivoluzionario, ma franchi, dice Febvre. È la verità più vera di questa storia del fiume.
Lucien Febvre, Il Reno, Donzelli, pp. LI + 212, ill. ril. € 23,24

venerdì 8 marzo 2019

Il mondo com'è (369)

astolfo


Eccezionalismo americano – È più forte nella proiezione esterna, anche in questo lungo dopoguerra che gli Stati Uniti hanno controllato, se non dominato – il figurarsi la storia e la politica americane come diverse e migliori.
Si discute ora, con la presidenza Obama e di più con quella Trump, se l’impero americano, o pax americana, sia alla fine. Di fronte all’emergere della Cina come potenza globale, presente finanziariamente, commercialmente e industrialmente, se non militarmente, in tre quarti del globo, potenza dominante in Africa, e influente in Asia e in Europa, alla pari con le multinazionali americane, o appena sotto di esse ma in ascesa. Un tramonto di cui la presidenza Trump rappresenterebbe un colpo di coda.
Non è la prima volta che se ne discute. Almeno in altre due epoche, in questo dopoguerra che ha visto negli Stati Uniti la potenza dominante, se ne è discussa, e  anzi celebrata, la fine. A cavaliere del 1960, quando l’Unione Sovietica sembrò sopravanzare gli Stati Uniti nella corsa allo spazio. E un decennio dopo, con la crisi nei campus e le rivolte dei neri, la sconfitta in Vietnam, e la crisi del dollaro. Ma se ne discute fuori, negli Stati Uniti no, se non eccezionalmente, in ambiti ristretti. Negli Stati Uniti è proprio in riguardo alla politica estera che domina il sentimento dell’ “eccezionalismo americano”, di un destino diverso e migliore che nelle storie pregresse del resto del mondo: la crisi dell’imperialismo americano non si discute perché non c’è la nozione di imperialismo, non degli Stati Uniti.
L’unico a interrogarsi oggi su “passato, presente e futuro degli Stati Uniti”, sotto il titolo “L’impero in ritirata”, è il professore Victor Bulmer-Thomas, che però è inglese, direttore di Chatam House, il forum londinese delle relazioni internazionali – ed è specialista dell’America Latina, con un po’ dell’acredine naturale in quell’area verso gli yanquis. Per la storiografia, la scienza politica e i media americani il tema appare invece bizzarro: l’imperialismo è una cosa europea, occupazione di territori, sfruttamento delle risorse, dominio su popolazioni estranee. In America, subito da quando l’imperialismo è nato, con la guerra contro la Spagna sul finire dell’Ottocento (tralasciando l’espansione al Sud e all’Est, ai danni essenzialmente del Messico, e l’“apertura” forzata del Giappone al commercio nel 1854, dieci anni dopo la guerra al Messico, con le “navi nere” a vapore del commodoro Perry che spaventarono gli isolani), con Theodor Roosevelt e sempre poi, si usano altri termini e concetti ma contestando l’imperialismo.
Si parla di leadership transatlantica, difesa della democrazia, politiche della libertà, internazionalismo, anche di espansionismo e di politiche di grandezza, ma senza un progetto imperiale dietro, la costruzione di un impero, e non a fini imperialistici, di sfruttamento. Con effetti, anzi, semmai negativi per gli stessi Stati Uniti. Uno studioso della politica estera americana a partire dal 1789, David Hendrickson, collaboratore di “The Nation”, il “Manifesto” americano, lo teorizza in “Republic in Peril” che ora pubblica: l’America è bloccata, la democrazia vi è a rischio, a causa dell’interventismo estenuato, in atto da quasi mezzo secolo, in ogni area del mondo.
Entrambi, sia Bulmer-Thomas che Hendrikson, ritengono che l’America si stia restringendo, sui tre piani, economico, politico e militare, culturale. Ma entrambi, post- o pre-trumpiani, affermano anche che l’America può rafforzare la presenza internazionale riducendo gli impegni militari fuori del territorio nazionale, impegni “overextended”.
Femmicidio – Era legale fino a non molti anni fa, sotto il titolo delitto donore, e tuttora lo è in larghe parti del globo. In Italia fino al 1981, quando infine fu abolito a seguito di due referendum popolari, quello a conferma del divorzio nel 1974 e quello, nello stesso 1981, a conferma della legge del 1978 che introduceva l’aborto. Due conferme a larghissima maggioranza, del 60 e dell’85 per cento rispettivamente, a prevalenza femminile. Nonché a seguito della riforma del diritto di famiglia introdotta nel 1975 dal primo centro-sinistra. L’assassinio di una congiunta, moglie o fidanzata, figlia, sorella, perfino nuora e cognata, i suoceri avevano anch’essi titolo a uccidere, e i fratelli del marito-fidanzato, per violazione di un “codice d’onore” a carattere esclusivamente sessuale. Non se la congiunta era ladra per esempio, o violenta. Il “codice d’onore” puniva l’adulterio, anche solo in pensieri e parole, il tradimento della promessa, la condotta “immorale”. Sulla base unicamente del convincimento soggettivo della persona “offesa”, il congiunto maschio, anche a dispetto dell’evidenza contraria. E comunque senza necessità di un giudizio previo: molti casi sono celebri di delitti d’onore anche estremamente crudeli del tutto immotivati.
Stendhal, curiosone delle cose italiane, ne racconta uno specialmente atroce ne “La duchessa di Paliano”. La duchessa Violante (da nubile variamente nominata: D’Alife, Cardona o Diaz-Garlon, comunqne figlia del conte ispano-partenopeo Antonio D’Alife e di Cornelia Piccolomini) viene garrotata dal fratello freddamente, cambiando la corda perché la prima non era solida, su giudizio e ordine del marito, Giovanni Carafa. Il quale però non era convinto del tradimento della moglie, madre dei suoi due figli e incinta di lui al sesto mese. E aveva già personalmente ucciso la testimone d’accusa, Diana Brancacci, una domestica gelosa, di cui aveva scoperto la fallacia.
La duchessa fu garrotata nel racconto che Stendhal ha tratto dagli atti dell’inchiesta che il papa Pio IV, nemico dei Carafa, successivamente ordinò sull’accaduto. Ma secondo altre testimonianze al processo, che Adriano Prosperi ha esumato nella sua biografia del cardinale Carlo Carafa, fratello del duca Giovanni, fu strangolata con le mani dallo stesso cardinale, avente diritto in qualità di cognato. In margine al racconto, sul manoscritto della cronaca cinquecentesca, Stendhal ha annotato: “L’onore romano esigeva, nel 1560, che i parenti di una donna leggera, padre, figlio, marito, suocero, la facessero perire”. E cita i casi di “Maria dei Medici (non la regina)”, ma non dice quale, “la vecchia principessa Santacroce, la duchessa di Paliano”.   
Nel racconto Stendhal ricorda che “il principe  Orsini”, Paolo Giordano, “sposò la sorella del granduca di Toscana “, Isabella, “la credette infedele e la fece avvelenare nella stessa Toscana, col consenso del granduca suo fratello. Parecchie principesse del casato dei Medici sono morte così”. Stendhal sbaglia i particolari ma il fatto c’è. Isabella era figlia e non sorella di Cosimo I dei Medici - e di Eleonora di Toledo, la figlia del viceré spagnolo a Napoli. Sposata a quattordici anni, lui di quindici, “celebre per la sua bellezza, la sua cultura e la sua saggezza e lodata nelle opere di moltissimi artisti e letterati” (wikipedia), fu strangolata venti anni dopo, nel 1576, personalmente da Paolo Giordano, non fatta avvelenare. Senza l’accordo di Cosimo I, che intanto era morto. Paolo Giordano Orsini persevererà, facendo assassinare sette anni dopo a Roma, dove si era rifugiato per sfuggire alla giustizia granducale, il marito di Vittoria Accoramboni – un’altra storia avvincente delle “Cronache italiane” di Stendhal – per farsene l’amante senza ostacoli. Il marito essendo nipote del papa regnante Sisto V, Orsini dovette lasciare anche gli Stati pontifici, e si portò appresso l’amante. Che pochi mesi dopo la sua morte, nello stesso 1585, restò vittima di un delitto d’onore, assassinata da Ludovico Orsini di Monterotondo, per vendicare il fratello Roberto morto in un faida con Paolo Giordano. 
Per onore s’intende nelle legislazioni che ancora lo consentono, in molti paesi islamici, un valore rilevante per la stabilità sociale, e nei rapporti familiari. Dando credito paradossalmente alla donna di un valore decisivo per la stabilità familiare e sociale, mentre non lo è la dissolutezza anche spinta  dell’uomo, marito o padre. Di fatto l’onore che il codice d’onore protegge(va) è la reputazione, non l’ordine sociale: l’opinione della comunità, compresi il pettegolezzo e la calunnia.

Moro – Non c’è solo Otello, il Moro di Venezia che Shakespeare trasse dagli “Ecatomiti” di Giambattista Giraldi Cinzio. La pratica era diffusa dopo la tratta degli schiavi anche in Europa di fare figli evidentemente con donne nere. Famoso è il caso di Puškin, che aveva tratti negroidi derivati da un nonno. E di Dumas. Ma già prima della tratta c’erano casi di commistione razziale. Il più noto e evidente è Alessandro dei Medici “Il Moro”, che il Bronzino ha ritratto senza possibilità di mascheramenti. Alessandro fu “signore di Firenze” dal 1523 al 1527 e dal 1530 al 1532, quindi duca di Firenze, il primo Medici a essere insignito di un titolo nobiliare, dal 1532 al 1537, quando venne assassinato dal cugino Lorenzino dei Medici. Era figlio riconosciuto di Lorenzo dei Medici duca di Urbino, quindi nipote in linea diretta del Magnifico. Ma figlio naturale probabilmente del cardinale Giulio dei Medici, che poi sarà papa Clemente VII. Governò Firenze dopo la sconfitta e la capitolazione della Repubblica, cui Clemente VII riuscì con le armi spagnole di Carlo V. Da questi insignito per matrimonio, e per le mene del papa, del titolo nobiliare, che faceva di Firenze una signoria. Cresciuto alla corte imperiale spagnola di Carlo V, a Bruxelles e a Madrid, ne portò gli usi a Firenze, fino a trasgredire le regole della resa della Repubblica, che prevedevano il mantenimento delle istituzioni rappresentative – il disegno signoriale sarà perfezionato dal successore Cosimo I, lontano cugino del “Moro”. Alessandro fu assassinato senza motivo da Lorenzino, che ne era l’amasio, se non per gelosia. Era stato sposato da pochi mesi a Margherita d’Asburgo, la figlia naturale legittimata di Carlo V con una arazziera fiamminga.
Prima di Alessandro dei Medici era stato Moro celebre uno Sforza, Ludovico, quello che meglio illustrò Milano, governando la città, come reggente e poi come duca, per gli ultimi venti anni del Quattrocento, patrono di Leonardo e altri artisti, committente dell’“Ultima cena”. Sotto l’“impresa” personale: “Per Italia nettar d’ogni bruttura”.
Ludovico fu figlio, il quarto, di Francesco Sforza, il condottiero, anche lui di colorito scuro, tratti marcati, capelli crespi neri, nato a Cigoli, nel comune di San Miniato in Toscana, non si sa come. Francesco Sforza, primo duca di Milano, ebbe cancelliere Cicco Simonetta, il “messer Cecco” di Machiavelli, “Istorie fiorentine”, cap. XVII, “uomo per prudenza e per lunga pratica eccellentissimo”, versato in greco, latino, ebraico, francese, tedesco e spagnolo, che gli procurò il titolo nobiliare a alla discendenza, la moglie Polissena Ruffo, castellana pro tempore del suo paese, e a Milano fece convenire il meglio delle arti, tra i pittori Antonello da Messina, che ora la città celebra, tra i musicisti Joacquin des Près.
Il paese di Simonetta era Caccuri in Calabria, un piccolo borgo della Sila. Francesco “Cicco” era nato in famiglia di cui non si sa nulla, allevato dai monaci basiliani, e aveva tratti anche lui marcati.


astolfo@antiit.eu

Un paese di immigrazione

Se ne tratta come di un’emergenza e una novità, ma se ne può già fare la storia: l’Italia è un paese d’immigrazione, stabile. Colucci ne ripercorre gli sviluppi “dal 1945 ai giorni nostri”, ma il fenomeno è più recente, degli anni 1970, e quindi anche molto rapido, si può dire affrettato oltre che nuovo e inatteso. Questo contribuisce a recepirlo come una “aggressione” - anche per la tratta disumana che se ne è instaurata da un quindicennio ormai nel canale di Sicilia. Ma risponde a una domanda sempre più vasta e sollecita. Dapprima di servizi domestici e accudimento, e di bracciantato-manovalanza (edilizia, fabbrica). Poi di operai. Ora anche di cervelli. In aggiunta alla domanda sempre forte dell’economia criminale – una domanda in Italia più forte probabilmente rispetto agli altri paesi europei.
Si è cominciato con i filippini e gli africani (Somalia, Eritrea, Capo Verde) per i servizi domestici, gli ebrei russi in transito verso il Nord America per il piccolo commercio, i nordafricani (tunisini, marocchini) della legione sterminata degli ambulanti, di merci contraffatte, allora prodotte in area napoletana, e gli asiatici, egiziani compresi, della ristorazione, tra pizzerie e kebab. Poi di varie provenienze e specializzazioni: braccianti e allevatori (nordafricani e asiatici), manovali nell’edilizia e in fabbrica, presto imprenditori in proprio nelle attività più faticose e meno salubri, concerie, fonderie (nordafricani e est-europei, specie rumeni, albanesi e ex jugoslavi), stagionali in agricoltura (africani). Più naturalmente la prostituzione (da Nigeria e Sud America), lo spaccio (nordafricani), e ora perfino l’elemosina (africani).
Colucci, storico all’università della Tuscia a Viterbo e all’Orientale di Napoli, documenta statisticamente l’immigrazione. E analizza le forme istituzionali e sociali di recepimento del fenomeno. Una storia non si saprebbe dire quanto più necessaria, eppure anch’essa “straordinaria”. E questo introduce a quella che è la vera mancanza, o colpa, dell’immigrazione: un’opinione pubblica distratta, o allora scandalistica, e anzi facinorosa, anche quando piange gli annegati nel canale di Sicilia o dice di difendere l’accoglienza. L’unico reportage sulla prostituzione dalla Nigeria è del “New Yorker”, della prostituzione nigeriana in Italia. La “distrazione” peraltro non si limita all’immigrazione.  
Di fatto, il quadro che Colucci traccia è tutto sommato responsabile e aggiornato, malgrado le speculazioni anti-immigrati dei due cicli politici della Lega, con la legge Bossi-Fini del 2002 (che di fatto normalizzava l’immigrazione, con una sanatoria…), e i tweet di Salvini oggi. La legge Martelli introduceva già nel 1990 un quadro di accoglienza aggiornato e ragionato – che la Turco-Naplitano affinava nel 1998. Semmai, si può aggiungere, il Pd che non ha osato votare lo ius soli l’altro autunno - il diritto per chi è nato in Italia, dove verrà educato e accudito, e lavorerà, anche se di genitori stranieri immigrati, a essere automaticamente iscritto all’anagrafe quale cittadino - ha pagato caro in primavera al voto questa presunta prudenza.
Un italiano su dieci è oggi immigrato, recente. Gli “stranieri residenti” sono cinque milioni e mezzo, il 9,2 per cento della popolazione. Aggiungendovi un milione di stranieri naturalizzati (extra Ue), la percentuale di stranieri residenti di prima e seconda generazione è l’11 per cento della popolazione. Una presenza che è essa stessa una “informazione”: l’informazione professionale, attraverso i media, è carente, se non è scandalistica, a partire dalla Rai che non sa andare oltre le fratellanze universali, e il cosiddetto “uomo della strada” ha difficoltà a orientarsi, ma che che questi stranieri ci sono e ci debbono essere lo vede e capisce da solo.  
Michele Colucci, Storia dell’immigrazione straniera in Italia, Carocci, pp. 243 € 18

giovedì 7 marzo 2019

Secondi pensieri (379)

zeulig


Amore – L’amore, secondo Spinoza, “non facciamo alcuno sforzo per liberarcene”. Perché, “primo, è impossibile, secondo, è necessario che non ce ne liberiamo”. Ma c’è chi volentieri ci rinuncia.
E insomma, si direbbe oggi, “mi confondo col mappamondo\ della bussola non so che far”, se il doppio senso è inappropriato, quello letterale sì, del Rossini matrimoniale. È il guaio dell’emancipazione, capita di scambiare l’innamoramento per prostituzione, e la stronzaggine per passione. Per il riserbo, cioè, il cane da guardia dell’emancipazione: si bandisce l’amore per non essere romantici. Succede all’uomo con la donna, per antiche incrostazioni, e ora alle donne con gli uomini, malgrado la fresca liberazione – che poi tanto fresca non è, l’estasi viene alle sante in forma di solide tette già nel Seicento italiano, senza ombra di uomo in giro. E si diventa sospettosi con le regine, sentimentali con le squinzie. Il sesso per sé, per la durata e l’intensità dell’orgasmo, non porta in nessun posto, se non a gioiosi intervalli, come bersi un’aranciata. Non all’amore, all’avventura, alla creazione, all’illusione della creazione. Il corpo ha certo unanima. Estetica per i greci, magica per i primitivi, spirituale e filosofica per i mistici, ora, pare, psicologica. Ma, secolarizzato, vibra meno d’una partita  di calcio, e non elimina le tossine. Certo, non richiede coraggio.

Capitale - “Una Borsa forte non può essere un club di ‘cultura etica’e i capitali delle grandi banche non sono ‘istituzioni di beneficenza’ più di quanto lo sono i fucili e i cannoni. Per una politica economica nazionale che persegue scopi ben di questo mondo, non possono essere che una sola cosa: dei mezzi di potenza impegnati in questo combattimento economico”. La difesa più strenua è di Max Weber, nel secondo dei saggi su “La Borsa” scritti per una rivista socialista, la “Gōttinger Arbeiterbibliothek” - questo nel 1896. Se il capitale si dà finalità “etica”, ci riesce meglio. Ma il fine principale è la potenza: “Finché le nazioni perseguono la lotta economica inesorabile e ineluttabile per la loro esistenza nazionale e la potenza economica, anche se può darsi che vivano in pace sul terreno militare, la realizzazione di esigenze puramente teorico-morali resterà strettamente limitata se ci si rende conto che anche sul terreno economico è impossibile procedere a un disarmo unilaterale”.

Francia-Germania – Si moltiplicano i patti perché l’armonia stenta? È possibile. Ma non c’è migliore acquirente della Germania della Francia. Più elaborato, più assiduo, più cedevole: ne rifiuta ogni aspetto, in atteggiamento ostile e in armi, ma ne adotta ogni sospiro. In affari come in filosofia. A partire dalle parole composte, che ubriacano Derrida e Foucault – un po’ anche Barthes. Di Foucault l’a-voir, il pou-voir, il potere di vedere - il pidocchio? il polso? – rasenta il sublime: la scoperta della semantica è affascinante, l’a privativo col con con, coglione. Non c’è centimetro quadrato di Germania di cui i francesi non s’approprino, le etimologie, la morfologia, la fonetica, le genealogie dei ciabattini, parroci, maestri, alchimisti tedeschi, dei vaghi esoteristi in cerca del diavolo, effetto esilarante della scoperta della comune origine teutone prima che celtica, della testa quadra. Ma di più si potrebbe produrre in italiano per la strepitosa inclusione che esso fa del sesso nel possesso - Foucault questa se l’è persa. Non il solito gio-co con Giovanna, che poi non è divertente, ma un filone di studi poderoso e anzi una cultura, ramificata in scuole, centri, accademie, seminari e opere, scientifiche, storiche, romanzate, con coda di film, un Umschlag vero, il rovesciamento dal basso della filosofia franca e le sue guide teutoniche Freud, Heidegger, Wittgenstein, e la conferma di Marx, effetto non deprecabile. Opera rivoluzionaria per la migliore Italia, ammesso che afferri la duplice accoppiata sesso-possesso, la sedizione che essa condensa, su cui costruire imbattibile primato. 
Si divaga se attorno si ergono mura levigate, ma non è male, l’arte militare consiglia di prendere tempo.

Il Reno unisce ma divide. Oppure il Reno divide ma unisce. Il fatto varia con le circostanze. Curiosamente sancito da Lucien Febvre, uno storico, filosoficamente: “una identità che si afferma per opposizione” – Febvre riflette sul Reno per un libro intero. Che potrebbe non voler dire nulla, e allora Febvre precisa: “Vi è un Reno, nella sua totalità, se il problema è quello di unire; ma vi sono molti e diversi Reni, se bisogna chiudersi in sé o bisogna combattersi”. Da qui la “divisione”: “Diversi Reni che talora unificano e talora dividono. Che cosa? Due mondi”. Dividono e unificano Francia e Germania naturalmente, ma non solo. Un mondo è “l’estrema propaggine dell’Europa occidentale”, che ricomprende la Francia. L’altro è “quella massa illimitata dell’Europa di mezzo, saldamente legata alle terre massicce dell’Europa orientale, e per quel tramite alle vaghe immensità dello spazio asiatico”. Ma conviene bizzarramente – il saggio è dei primi anni di Hitler, che per prima cosa aveva cominciato a fare i conti con l’occupazione francese della Renania, a garanzia del pagamento dei danni di guerra – che il Reno può dirsi “tutto tedesco nella misura in cui, esattamente, la Germania ha amato definirsi il «divenire», in cerca di orizzonti mutevoli, piuttosto che l’«essere», rinserrato nella chiara consapevolezza di sé”. Bizzarramente elogiativo di una Germania chiusa.  

Traduzione – “La traduzione reale è impossibile”, sosteneva una antica traduttrice del cant che legava i beatnik - una lingua falsa nella falsa comunicazione Usa, quindi vera. E: “Non si può tradurre la droga”, l’addiction.
A maggio ragione ora che tutto è addiction, droga: politica, amori, religione, famiglia, lavoro, internet, e non si è entusiasti ma addict?

Tribù – È storia vecchia, l’identità, il sovranismo. Il romanzo storico è solo possibile in Italia per dire male degli spagnoli. Come quando a Varsavia le puttane sono ungheresi, o ceche, e in inglese la cattiveria è olandese, la slealtà, l’avidità: la tribù ha sempre bisogno di spurgarsi.
Ma forse è più complicato. La dottrina dei primati non è scema. Ma bisognerebbe fare una storia anche della nazionalità dei brutti, sporchi e cattivi.


zeulig@antiit.eu

Uno vale uno è la Costituzione


La “colpa” del 4 marzo 2018 non è delle “due forze politiche che, sia pure minoritarie”, avevano governato in precedenza, Monti e il Pd, ma più o meno della storia repubblicana, di tutto il dopoguerra.  La colpa è, non ironicamente, della Costituzione. Redatta in reazione al fascismo, la Costituzione “ha posto le premesse perché venissero nutrite aspettative di maggiore partecipazione, nonché di una democrazia più vasta”. A partire dall’art. 1, per il quale “la sovranità appartiene al popolo”. Che non è esattamente la sovranità parlamentare delle democrazie occidentali.
La “democrazia diretta” è “un mito”, che nasce dalla Costituzione. Mentre l’esercizio politico repubblicano è subito evoluto verso una politica di mestiere, partitica, correntizia. Asfittica. L’ex presidente della Corte Costituzionale fa un lungo elenco di perversioni – di “debolezze”. Che tutte vede confluite nello smantellamento della classe dirigente, anzi in una “cronica incapacità di creare una classe dirigente”. Incapace di tutto: di governare la globalizzazione, come già di ridurre il divario Nord-Sud, o controllare la spesa pubbliac. La “rifondazione dello Stato, per adeguarlo alla dimensione europea e mondiale, sentita già largamente negli anni 1960, è stata procrastinata e variamente bocciata. I partiti sono stati dissolti d’autorità, “senza che si consolidassero nuove forze politiche”. Quel poco di classe dirigente residua è stato colpito con la virulenta polemica contro la “casta” – che un tempo si sarebbe detta fascista, va aggiunto, ma in Italia è stata svolta dai migliori media, i più “politicamentre corretti”. L’esito è un paese inerme e incapace, governato dal “vincolo esterno”..
Il vincolo esterno - la Ue, la Commissione di Bruxelles, la Bce – Cassese apprezza come “deterrente contro i peggiori animal spirits che avrebbero potuto portare l’Italia verso un modelo argentino”. Ma anch’esso è assunto nel modo peggiore, come un residuo, oppure passivamente – a volte, va aggiunto, senza sapere nemmeno cosa, vedi il bail-in: qualcssa su cui allinearsi, magari protestando. Mentre “costituisce ormai il contesto nel quale si svolgono i poteri pubblici nazionali”. Se non si capisce questo, non si fa una politica nazionale, checché si pretenda.  
Un ragionamento elaborato, non un pamphlet. In orma di analisi e non di proposta: “Dialoghi sulla politica che cambia” è il sottotitolo. Già ministro della Funzione pubblica nel governo Ciampi del 1993-1994, a lungo presidente del Banco di Sicilia, e giudice costituzionale per un decennio, il giurista emerito discute tra sé e sé, nella forma del dialogo, di un cambiamento radicale, forse pericoloso, di certo un’avventura. Con l’avvertenza che ciò avviene non solo in Italia. E non è casuale: la storia, si sa, non ha cesure, va in continuo. Anzi, non inaspettato: in certi momento, avverte, “il precipitato di debolezze antecedenti fa massa: eventi preparati nel passato si ripropongono insieme e presentano il conto ai tempi nuovi. Non una ricetta ma un riesame.
La storiografia ha tra i filoni prediletti quello delle “cause”, le “cause di”. Specie, in Italia, del fascismo. Che però si fa dopo, come esercizio propriamente storico e non politico. Cassese si avventura sulla storia quale avviene, con una riflessione politica più che storica – di ricostruzione delle cause e gli effetti del momento politico prevalente. Ma qui, più che il diritto, conta la crisi del 2007-2008, il  secondo atto della globalizzazione avviata vent’anni prima. Avviata da un Occidente trionfante, ma di fatto dall’imperialismo delle multinazionali – un “fatto” che non si può più dire perché finito in un linguaggio violento, ma non si può cancellarlo, trent’anni ormai di fallimenti, delocalizzazioni e licenziamenti. L’Italia ne è tramortita come ogni altro in Europa, e l’Occidente tutto.
Sabino Cassese, La svolta, Il Mulino, pp. 340 € 18

mercoledì 6 marzo 2019

Problemi di base mortuari - 476

spock
“La stessa cosa sono il vivo e il morto,  il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio”, Eraclito?

“L’essere è, il nulla non è”, Michelstaedter?

“L’indistinto è il luogo di tutti i distinti”, Anassimandro?

“Io una volta fui ragazzo e ragazza, cespuglio e uccello e muto pesce nelle onde”, Empedocle?

“Chi teme la morte è già morto”, Michelstaedter?

“Della morte non posso parlare, non sono mai morto” – la morte non fa parte della vita (Wittgenstein)?

La Chiesa che sopravvive ai papi non sarà un miracolo?

E ai teologi, ai vescovi, a se stessa?

spock@antiit.eu

La storia si fa


L’eternità non dura più della vita. Possiamo dunque permetterci tutto. Ma in prospettiva. Bizzarro è invece il desiderio che abbiamo costante di rifare la storia, questa fabbrica dell’antichità che sono la filologia, l’epigrafia, la glottologia, il carbonio, di rifare comportamenti, credenze, leggi, mentalità, Privatleben non solo, ma anche divinità, anime, pietre, e ogni altro manufatto. Mentre si può vivere con il falso, anche dichiarato, la bugia è più comoda. Hans von Meegeren ha dovuto fare un processo per dimostrare che era l’autore di molti Vermeer, e i giudici non volevano credergli. Lo psicologo inglese Cyril Burt ha lavorato per un quarto di secolo con buoni risultati su inchieste immaginarie. Mungo Bashi, invece, ha il torto di essere nero.

È bravissimo, poiché tutto è preciso e corrisponde. E non è cattivo. Può averlo fatto per i soldi, è possibile. Ma uno che viene dal bush si compra con una birra: non ha il senso del denaro, che può valutare troppo se è poco, e sperperare se è molto. Di sicuro non lo ha fatto per la gloria, i riconoscimenti, la carriera, orizzonti ignoti nel continente. Resterà forse negli annali, ma non per quanto lo concerne: non lo saprà e comunque non ha per lui valore, ricorrere in nota a un libro, che in Africa, senza elettricità e refrigerazione, o se manca la corrente, come ogni giorno avviene per lunghe ore, si decompone in tre settimane. Lo ha fatto per bontà, per amicizia, per compiacere i Gunther von Toul, paleoantropologi dilettanti, padre Brando, insaziabile, e il Vaticano, uno stato che comanda a Dio. L’uomo africano è volentieri filosofo, ma rudemente pratico, e la tentazione dell’inganno alimenta, nell’irrilevanza del denaro, anche di onestà e bontà. La storia che la prima donna sia stata creata in Africa è onorevole, e domani, chissà, le sue visioni s’invereranno, un osso si troverà che al radiocarbonio si rivelerà il primo Jack o Lucy dell’umanità (nel 1974 verrà alla luce proprio in Kenya, in un punto della faglia detta Rift Valley, che parte da Damasco, il reperto fossile 288-1, di australopiteco femmina, battezzato “Lucy”, n.d.C.). Gli acquirenti invece, studiosi, collezionisti, funzionari coloniali, sono avidi.
Mungo ha sentito più volte che cercavano la prima Eva. In numerose carte di Padre Brando il paradiso terrestre è segnato in Africa. Con loro ha sfogliato mappe e riconsiderato ipotesi, ha annusato tracce, pietre, alberi, insetti, la terra ai vari livelli negli scandagli, li ha visti cercare con ansia, con ira, ogni avanzo di ossa, polire, misurare, radiografare, ha apprezzato la dedizione che portavano alla loro passione, ha apprezzato la loro amicizia, quel considerarlo parte di loro stessi, e non ha voluto deluderli. La storia è semplice. Ma Mungo la nega. Poiché non ha compiuto violenza, non ha barato per un tornaconto, non ha fatto nulla di diverso da quello che loro fanno. Altri gruppi di paleontologi dottrinariamente avversi, la scuola britannica, la scuola americana, non hanno lo stesso probo disinteresse di Mungo Bashi. La storia si fa. Si racconta, si scrive. La storia è un desiderio.
Cosa cambia un Afarensis in più o in meno? O uno falso invece di uno vero. E chi può dire che la prima Eva non sia quella? Si vuole la prima Eva in Etiopia, o in Sud Africa, e perché non in Kenya? Mungo si è limitato a far trovare la prima donna là dove era cercata, sotto le acque putride del pantano in un angolo dimenticato del lago Turkana, buono per i coccodrilli. Ci sono voluti quarant’anni per dimostrare che l’Uomo di Piltdown nel Sussex, calotta umana con mandibola di scimmia, non era un progenitore umano ma un falso dello stimato avocato Dawson, o una beffa ai suoi danni, e del credulone Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes. Antichizzare i reperti è anche segno di abilità.
Il risentimento di Mungo Bashi, come di ogni altro in Kenya, contro i britannici è odio di famiglia, giustificato dalla storia coloniale. Mungo è del resto nomignolo di san Kentigern. O Kentegern, Kentegernus, Kentigernus, Conthigernus, Conthi-girnus, Cyndeyrn, l’abate e missionario primo vescovo di Glasgow, evangelista dell’antico regno celtico della Cumbria nel 600. San Kentegern, “l’Altissimo”, fu chiamato anche Mungo, “mio caro amico”. Questo nomignolo gli fu dato dal suo maestro, il vescovo san Servo, tedesco. C’è anche un esploratore di nome Mungo, Mungo Park, ma ricorre solo nell’Espasa Calpe, l’enciclopedia spagnola, che peraltro lo dice inglese mentre ne dà la nascita in Scozia, a Foulshields, il 10 settembre 1771. L’esploratore vantava la scoperta in Africa a ventiquattro anni, nello stesso 1795 in cui Napoleone effettuava il suo primo colpo di Stato, alla confluenza dei fiumi Senegal, Volta e Niger, che non confluiscono in nessun posto, di una città grande quanto Londra, che non si è ancora riusciti a localizzare. Il “mio caro amico” ricorre infine in “Stark Munro”, il romanzo pseudonimo in cui Conan Doyle rievoca spiritosamente i suoi inizi di medico.
Il solo cruccio di Mungo Bashi è di aver perduto l’amicizia dei diplomatici tedeschi, sempre premurosi benché ossessivi, e di padre Brando. Il quale però persevera: malgrado il falso di Mungo resta convinto che il paradiso terrestre è in Kenya. È straordinaria l’irrilevanza delle scienze in ambito umano, soprattutto quando pretendono a giustizia, cioè alla verità. Per il resto Mungo è noncurante e servizievole, quale lo vuole la sua natura curiosa. Vivendo in Africa, non sa che la filologia innova, sì, muove molto, ma è una parte della realtà, vela l’ipocrisia del linguaggio doppio, in politica, nella storia, in letteratura, e alla fine è un rifiuto delle cose – la scienza delle parole ha portato alla perdita di significato delle parole, e quindi delle cose. Filosoficamente, potrebbe chiedere qual è la verità della storia. Ma sa che ce n’è una.



Luce sui Preti

“Una luce nuova su Mattia e Gregorio Preti”, i due fratelli del primo Seicento venuti da Taverna in Calabria a Roma quali pittori accreditati con importanti committenti. Il maggiore, Gregorio, prima di Mattia, che meglio padroneggerà l’arte.
Un’esposizione di una dozzina di quadri, dell’uno e dell’altro, e a due mani, per mettere in evidenza il restauro della “Allegoria dei cinque sensi”, eseguito da Giuseppe Mantella e Sante Guido. Un grande quadro, di poco meno di due metri per quattro, con una ventina  di figure dipinte al naturale, al centro l’autoritratto, probabile, di Gregorio, dipinto a due mani – ma senza particolari differenze, non all’occhio del visitatore.
Classificati tra i “caravaggeschi”, Gregorio e Mattia Preti, questi sopratutto, elaborano una personale forte carica “narrativa”: nei ritratti, le pose, i gesti, la teatrale disposizione scenica.  
Alessandro Cosma-Yuri Primarosa (a cura di), Il trionfo dei sensi, Palazzo Barberini, Roma

martedì 5 marzo 2019

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (389)

Giuseppe Leuzzi

Marco Di Lauro, “l’uomo più ricercato d’Italia dopo Matteo Messina Denaro”, latitante dal 2004, viene arrestato a casa sua in un condominio, “senza stanze segrete né impianti di sorveglianza e nemmeno guardie all’esterno”, dove vive con la compagna e due gatti.

Le origini
Il 16 luglio 1891 Federico De Roberto trentenne emigrato a Milano scrive al giovane amico letterato palermitano Ferdinando Di Giorgi: “Quando sarò tornato a casa”, a Catania, “attaccherò «I Viceré»”, il romanzo catanese. E successivamente, il 23 dicembre, da Catania: un romanzo come “I Viceré” “si deve scrivere nell’ambiente in cui si svolge la sua azione”.
Le origini contano, e l’ambiente. Non come vincolo, come stimolo. È il segreto dei narratori siciliani e napoletani, di terre da cui non si fugge, sia pure tra le deprecazioni.
Nei versi di W.H.Auden, inglese d’oltremare, cosmopolita vagabondo, dapprima a Berlino poi a New York:
“Speranza di un poeta: poter essere,
come certi formaggi delle valli,
locale ma apprezzato anche altrove”
(nella raccolta “Shorts”, p. 65 dell’edizione italiana).

La Sicilia di Marcello Cimino
Marcello Cimino, morto trent’anni fa e subito dimenticato, fu giornalista letterato di Palermo di avide amicizie, amico lui stesso di molto riposo, con uno sguardo singolarmente perspicace - rapido, penetrante. Collega anziano del “Cesare Alfieri” di Firenze, e quindi di ottima cultura politica, ma più isolano vigile.
Curioso, diceva, c’è libertà di pensiero a Palermo. Il forestiero vaga su una spessa coltre, formata dai pensieri della città. Tanto spessa che non pone domande, e evita le risposte. C’è libertinismo, di pensarlo se non di farlo, di pensare ogni possibile improsatura. Con animo candido, anzi critico, pervaso dei destini della nazione e dell’umanità, è per questo vasta la moralità che la Sicilia dispensa al resto del mondo, magistrale, ultimativa. La verità è che la verità non piace. La Sicilia di suo la aborre. Per quel gusto che il nobile Palmieri di Micciché dice “silenziosità castigliana” - forse intendeva ironicamente: a Madrid parlano a raffica, e a Palermo.
“È così che basta un questore di mezza tacca a tenere l’isola in pugno”, diceva sempre semplice e amabile. Era stato collega e amico di De Mauro, ma sapeva che non c’è limite al peggio: “Hobsbawm ha contato dodici insurrezioni a Palermo fra il 1512 e il 1866, un record in Europa. Poi più nulla. Ad Agira c’è il cimitero canadese: duemila tombe, ognuna con una sua frase di saluto, pulite anche dalle erbacce. Sono le tombe dei caduti nello sbarco del 1943. Sono morti più canadesi per la liberazione della Sicilia che siciliani. Domani è un altro giorno è la nostra divisa, ce l’hanno rubata”. Agira è nome remoto, della conquista araba.
“Accidenti, se non è ricca Palermo”, diceva del consumo ostensivo perdurante, in epoca piccolo borghese, lo scimmiottamento dell’aristocrazia favoleggiata, per cui bisogna fare a Palermo la cosa giusta, al posto giusto, all’ora giusta. E citava Yurick, “The political Economy of Junk”, pure lui leggeva la “New Left Review”: “La città non è povera, è depressa”. La malinconia rilevando profonda al Delle Palme, salotto allora politico: “Ogni inchino una fitta, deve bruciare così una pugnalata. I siciliani »sono come le vespe», diceva Erissia, «se qualcuno, provocandoli, ne eccita l’ira diventano intrattabili». Orazio descrive Plauto «brioso come il suo modello siciliano Epicarpo». Di cui però non si sa nulla, ci manca sempre qualcosa. La Sicilia, direbbe il Gattopardo, è femmina, si lascia ingravidare”.
“Il Gattopardo” è, è stato a lungo, tema imprescindibile: “Dice Croce che Vittorio Emanuele II piaceva ai napoletani «diversamente ma analogamente» come Ferdinando IV di Borbone. Su questo «diversamente ma analogamente» Tomasi ha centrato «Il Gattopardo». Noi ci facciamo piacere troppe cose, la logica ci ha lasciato”. E la Germania: “L’imperatore Federico morì troppo presto”.
La Germania è rimasta in Sicilia in casa Piccolo, divagava: “I Piccolo, i cugini di Tomasi di Lampedusa, hanno, come l’altro Federico, il Gran Re di Prussia, fede negli spiriti e amore per i cani. La cugina li seppellisce, con la lapide, in giardino, in un cimiterino ormai vasto. Sono però bestie comuni, il Gran Re aveva invece levrieri italiani, che onorava di titoli, marchese, conte, duca”.
“Ci sono le sorelle oltre che le mogli e le mamme: bisognerebbe conoscerne le donne per capire i siciliani, come di qualsiasi altro popolo maschile. Se ci fu prima il matriarcato e poi il patriarcato, si può ritenere quello naturale e questo una fase storica. Ma non si sa perché le donne si ritrassero. Si ritrassero infatti, non ci sono tracce di guerra: non furono eliminate, non avrebbero potuto, pena l’estinzione della specie, e non se la presero più di tanto, poiché sono sempre madri affettuose, sorelle, amiche, amanti. Si può ipotizzare che non sia un fatto di “o….o”, ma della prevalenza ora dell’uno ora dell’altro gene. O sono le donne in Sicilia come si vedono, inaccessibili? Si vede dagli occhi troppo neri, o troppo chiari. Secondo Tomasi, che lo scrisse alla moglie Licy, «non c’è città dove si fotta meno» di Palermo”.
Può essere il troppo dolce che abbassa “gli zuccheri” – alza la glicemia, riduce il benessere e l’energia? Quando Lucio Piccolo andò a San Pellegrino, Montale, sconvolto nel suo piccolo ordine, ne fece una macchietta, indelebile. “Il mondo resta complesso, eccetto che al Nord”, sapeva essere filosofico. “Ma quello di Piccolo e del suo amico Montale non è un caso: il Sud capisce e ama il Nord, il Nord non capisce e disprezza il Sud, pensando, che è il più grave, di saperne tutto e ancora di più. Anche Sciascia, uomo laico nel senso del meridionale settentrionalizzato, o della civiltà che si trova al Nord, con le metropoli, gli affari e la pubblicità. O Vittorini, che per questo si fece sfuggire l’evidenza, del «Gattopardo» che è un romanzo sociale, perfino neorealista – se ha un punto debole è quello”. 
Di una comune conoscenza di cui non fu più possibile avere a un certo punto ntizie della moglie, che era stata generosa anfitriona:  “Si sono lasciati, lei l’ha lasciato. E questo lo segna. È un bravo uomo, ma non tanto da farsene una ragione. Lei è migliore indubbiamente, più intelligente, ha buoni studi, è anche un bella ragazza, e ha trovato di meglio. Lui è come tutti i siciliani, pensa che lei sia una poco di buono, e se ne vergogna. Non ci sono grandi storie d’amore in Sicilia. Ossia, ci sono ovviamente, ma non vengono raccontate: tanti letterati nell’isola, anche sommi, e nessuna passione amorosa, niente Leile, Leandri. Non fanno parte dell’immaginario. Uno come L. è più che altro angosciato per aver sposato una bagascia. Si riterrà tutta la vita un cornuto”.
O non viceversa? Non si spiega col forte seppur mascherato matriarcato l’assenza del sentimento? Assenza di cui Marcello era certo: “Palermo è l’unico teatro d’opera che per un secolo e mezzo non ha avuto Mozart in cartellone. La prima volta fu nel 1947. La città non si prende con lievità di spirito, Mozart vi è afono. Il barone Pietro Pisani fece allestire «Così fan tutte» al Regio il 4 ottobre 1811, per l’onomastico del principe ereditario Francesco: non piacque. Tre anni dopo allestì in casa «Il flauto magico», per il quale scrisse versi cantabili in italiano, e invitò a dispetto una sola persona, un mercante tedesco, di nome Marsano, che gli aveva abbozzato in latino il testo tedesco, per consentirgli di poetarlo”.

leuzzi@antiit.eu

L'Eco non c'è

Di Eco sopravvivono i nomi, compreso il titolo, e le morti misteriose. Poco altro. Il grosso è trasformato secondo i modelli vincenti, “The Game of Thrones” principalmente, con bagliori cupi di battaglie, e figure femminili ambigue, mentre Guglielmo da Baskerville (John Turturro) fa lo Sherlock Holmes, quello che sa già tutto. Con location di gran nome, partendo da Firenze che non ci azzecca nulla. 
Non fosse per Turturro e il giovane Adso (Damian Hardung) un polpettone. Bello certo. E attraente. Anche se meno di Eco - se uno apprezza la sottigliezza. Ma già confuso. E il peggio – il più confuso di tutto: la questione teologica – deve ancora venire.
Senza Eco tutto è possibile. Anzi già si intravede: un robusto duello Gui-Baskerville, di vecchi gigioni, invece che di dottrine - quanto i nuovi serial sono diversi dai vecchi?
Giacomo Battiato, Il nome della rosa, Rai 1

lunedì 4 marzo 2019

Problemi di base capitali bis - 475

spock


Le scale mobili si fermano nella metro romana: a protezione dell’ambiente?

Per ridurre il consumo di elettricità?

Per indurre i romani all’esercizio fisico?

Per amore delle rovine?

Perché nessuno se ne è accorto?

Perché bisogna lavorare per farle funzionare?


spock@antiit.eu

Appalti, fisco, abusi (148)

Una visita specialistica intra moenia in un ospedale romano costa 150 euro. La stessa specialità – endocrinologia – costa 130 euro in primaria clinica privata. Si usa la privatizzazione per distruggere ciò che resta della sanità pubblica?

Si dà la fiscalità in Italia da anni immutata al 42,2 per cento del reddito disponibile. Che è la percentuale più alta in Europa, alla pari di quella svedese o poco sotto, ma facendo valere appunto che è immutata. Omettendo però dal conto una serie di spese trasformate in tasse e indeducibili: il gran numero di medicinali, anche di prima fascia, passati a integratori, i ticket farmaceutici e ospedalieri, il contributo al sistema sanitario in Rca, le assicurazioni mediche obbligatorie. 

Aumenta indecorosamente la fiscalità indiretta, punitiva verso i nuclei familiari ridotti - e più verso i single - e verso le famiglie a minor reddito. Per il canone dei servizi ambientali - che è in realtà una tassa, anche se non si computa nella fiscalità complessiva - che si calcola in base alla superficie abitata, e non ai rifiuti prodotti. Per gli “oneri di sistema” e di rete imputati in bolletta elettrica e del gas, irrelati ai consumi.

Palazzo Barberini è a Roma un enorme bellissimo palazzo, su tre vasti piani, con grande giardino, con architetture di Bernini e Borromini, che ospita una enorme bellissima pinacoteca, che espone pezzi pregiatissimi di Raffaello, “La Fornarina”, Caravaggio, Holbein, e tanti altri, ma viene ottantesimo, o centottantesimo, nella graduatoria dei musei più visitati in Europa.
Il Louvre, con la sola “Gioconda”, che non vale “La Fornarina”, viene al primo posto.

Si visita palazzo Barberini come una città dei morti. La galleria romana è come se fosse “spenta”. Mai una iniziativa, una proposta, un motivo d’interesse. Un deposito, di quadri accavallati alle pareti senza criterio, anche male illuminati. Accudita da un personale numerosissimo, quaranta o cinquanta persone, che non sa nulla, a partire dai cassieri, e non gliene può “frega’ de meno”. L’epitome della Funzione Pubblica oggi: uno spreco.

Spensierati novant’anni, all’italiana


A quasi novant’anni Clint Eastwodd si diverte, e diverte, a dirigere e interpretare un novantenne appassionato cultore di daylily, hemerocallis, il “giglio giornaliero” (ogni giorno ne fiorisce uno), che per questo ha trascurato la famiglia, e ora che la sua attività è al fallimento fa il corriere della droga fra El Paso alla frontiera col Messico e Chicago, per conto di mafie messicane. Col primo viaggio si ricompra casa e terreno, col secondo riapre il bar-dancing di un amico, e così via. Fino al dodicesimo viaggio. I cartelli della droga si fanno le guerre, e lui a un certo punto ne è vittima. Finirà in prigione, dove aprirà, mantenuto dallo Stato, una florida coltura delle amate hemerocallis. Dopo aver assistito affettuoso la moglie moribonda, ed aver fatto pace con la figlia e con la nipote.
Con lui si divertono i comprimari, Bradley Cooper, il federale dell’antidroga Andy Garcia, un capomafia che tira al piattello e si assedia di donne procaci, la figlia Alison Eastwood, anche se nel film fa la figlia che non parla col padre.
Una storia vera, di un veterano della guerra di Corea che a novant’anni ha provato a fare il corriere della droga – a rifiorire, come il suo giglio di elezione. Che Eastwod trasforma in elegia dell’età senza pensieri. Con un film semplice, senza effetti, misurato e allegro. Di poche scene variamente rimontate, e corpi e attitudini pesanti, quali sono di fatto nella grassroot America. Da novantenne agile, soprattutto di mente, e di spirito gentile. Che si esercita col sorriso, e con scene e battute “di sinistra”, da vecchio attore “di destra”.
Con alcuni effetti semmai da cinema “italiano”, se non per l’impianto stesso del film. “I più terribili cinque minuti della mia vita” di un americano latino fermato per un controllo dalla polizia – un episodio da cineteca. La famigliola “negra” sperduta nelle praterie per la foratura di una gomma, che il vecchietto agile rimette in moto. Il glamour di grosse tette e deretani alla festa mafiosa a bordo piscine - una sorta di trattato in poche immagini.   
Clint Eastwood, The Mule

domenica 3 marzo 2019

Letture - 377

letterautore


Cultura – Non è baluardo contro il male. “Paesi con le culture più raffinate, la Germania, l’Italia, il Giappone, sono passati alla storia per le peggiori atrocità”, Lars von Trier, uno specialista.

Dante – Ulisse è “l’originale doppio di D ante”, nell’esegesi di Jurij Lotman, “Testo e contesto”, p. 96.

L’aleppe del “Pape Satàn pape satàn aleppe”, come forma d’uso, diminutiva, non propriamente dispregiativa, di una cultura che si sapeva presente ma non coltivata, la prima lettera dell’alfabeto ebraico riducendo a filastrocca infantile, dice che Dante, pur colto, non era “interculturato”, come oggi si vorrebbe. Non era un comparatista, e non era necessario esserlo. Lo stesso che per l’ebraico avviene per l’islam, che compare nella “Commedia” come cosa ordinaria, di cui si parla, senza grande attenzione. Dante studiò molto ma non l’ebraico e nemmeno l’arabo. E viaggiò, ma non in terra infidelium, a differenza di san Francesco o dell’imperatore Federico II, e non mostra di saperne alcunché, se  non le nozioni volgari, né di curarsene.
È un limite, oggi. Allora il mondo arabo e islamico, fosse stato Dante un best-seller immediato, non se ne sarebbero meravigliati. Erano anche anni, quelli di Dante, in cui cristianità e islam non si combattevano: si fronteggiavano staticamente – divisi semmai e distratti al loro interno.

Fu praticamente sconosciuto in Francia – niente a fronte di Petrarca, Boccaccio, e anche l’Ariosto, l’Aretino, Machiavelli. Anche se già a fine Trecento Cristine de Pisan, la scrittrice italo-francese,  lo citava spesso, in lettere e in poesia, specie l’“Inferno”. E compara la “Commedia” favorevolmente rispetto al “Roman de la Rose”. Mentre Alain Chartier (call E-S) ne cita il distico su Costantino. “Ah Costantin, di quanto mal fu matre,\ non  la tua conversion, ma quella dote”. È del 17985 la prima traduzione dell’“Inferno”, a opera di Antoine Rivaroli, giornalista di origine italiana. La prima traduzione delle tre cantiche, a opera di Lamennais, sarà pubblicata nel 1855.

Un affascinante saggio della dantistica – dell’emeneutica dalle possibilità infinite – è la voce Treccani a proposito di Nimrod, Nembrotte in Dante, posto all’“Inferno” in quanto architetto di Babele, che muove un altro verso oscuro, il 67 del canto XXXI, “Raphèl mai amècche zabì almi”, misto si suppone di aramaico e ebraico: “Il Lemay, in un interessante saggio”, del 1962, “ ha ricordato che nella tradizione araba il nome di Nembrot designa un ribelle stupido e violento; ma, prima di lui, molti avevano sostenuto trattarsi di un'espressione araba, cui ognuno di essi offriva un particolare significato, secondo la vocalizzazione e la trascrizione proposta: “Esalta lo splendor mio nell’abisso, come sfolgorò per lo mondo” (Lanci); “Un pozzo ha rapito il mio splendore, ecco adesso il mio mondo” (Flügel, citato dal Filalete); “Quam stulte incedit fiumina Orci puer mundi mei” (D'Ammon, citato anch'esso dal Filalete); “Summa mea in fundum cecidit, vis gloria mundi” (Schier); “Ecco l’eccelso del mio splendore e della mia gloria; la mia superbia e la mia scienza è divenuta oscurità e abisso” (Lasinio); “Sono portante in alto il mio stendardo prolungato, questo è il mio regno” (Barbera); “Quest'abisso e io stesso siamo indotti allo stato di ebeti a causa della scienza” (Lemay). Sarebbe adunque un grido di orgoglio o un grido di avvilimento.
“Per altri si tratta di un'espressione che ha sempre origine in un linguaggio semitico, siriaco, caldaico, ecc., e in particolare ebraico. Il Landino fu forse il primo a proporre un accostamento alla lingua caldea, pur riconoscendo che l'espressione deve rimanere oscura per volontà del poeta stesso: non per cogliere la “sentenza intera”  dunque, ma per vedere il significato di qualche singola parola.
“Su questa via, s'interpretò in modi diversi l’intera espressione: “Per Dio, e perché son io venuto in questi pozzi? Torna indietro, nasconditi” (Venturi); “Contro chi vieni tu all’acque del gigante, al pozzo del Zabio?” (Maggi); “Nel pozzo oscuro a che te ne vai? Ritorna al mondo” (Barzilai); “Genti, e che? Abbandonate il gran lavoro?”; “Giganti, che gente che rasenta l'’bitacolo? segreto della bellezza!” (Guerri); “Gigante Dio di cento miei cubiti, esci a guerra con il mio manipolo” (Benini). Per il Guerri si tratterebbe di linguaggio ebraico deformato secondo la dottrina linguistica medievale; per il Nykl, sarebbe un testo ispirato almeno all’inizio dai testi talmudici; il Barzilai cita Brunetto Latini (e ci pare citazione felice), secondo il quale al tempo della torre di Babele la lingua ebraica diede origine alla lingua caldea: e qui saremmo nella fase di quel confuso trapasso linguistico.
Non mancano poi le interpretazioni più soggettive….”, etc.

Intraducibilità – È il segno della grande poesia per Hannah Arendt in uno dei suo ultimi scritti, “Remembering W.H.Auden” (“The New Yorker” 20 gennaio 1975). Lo dice di Auden come di Goethe e Puškin. Partendo dalla sinteticità dell’espressione poetica, che chiama “reticenza”: “La reticenza può essere la déformtion professionnelle del poeta”. Nel caso di Auden perché molta sua poesia sorge “dalla parola parlata, dagli idiotismi del linguaggio giornaliero”, dalla pratica: “Questa specie di perfezione è rara; la troviamo in alcune delle migliori poesie d Goethe, e deve esistere nella maggior parte delle opere di Puškin, perché la loro caratteristica è di essere intraducibili”.  

Italiano – Fu lingua veicolare dei dotti in Europa, insieme col latino, fino al primo Settecento – poi, con i philosophes, soppiantata dal francese. In casa Goethe c’era un istitutore d’italiano. Il padre di Goethe, Johann Caspar, scrisse un “Viaggio in Italia” in italiano – così come aveva fatto, a metà, Montaigne due secoli prima. Voltaire scrive spesso in italiano, per esempio alcune delle lettere d’amore alla nipote Marie Louise Mignot, “Madame Denis”, che leggeva e scriveva italiano. Troverebbe ora una risorgenza internazionale, come lingua di studio e non più di comunicazione, secondo la classifica 2018 stilata dalla rivista “Ethnologue”, pubblicazione del Sil International, la ong evangelica che studia la diffusione dela Bibbbia nelle varie lingue: dopo l’inglese, lo spagnolo e il cinese, a una certa distanza, l’italiano è la quarta lingua più studiata. A partire dall’anno 2014-2015, quando le iscrizioni nei 115 paesi i cui sono presenti istituti di cultura italiani e scuole Dante Alighieri hanno registrato un boom, passando dall’1,7 milioni del 2013-2014 a oltre 2 milioni. Nell’anno accademico 2016-2017 erano 2 milioni 145 mila.
In Europa però l’italiano ha un parte minima nell’insegnamento delle lingue, toccando solo l’1,1 per ceto degli studenti delle scuole. Al sesto posto, dietro, nell’ordine, inglese, francese, tedesco, spagnolo e russo.
L’italiano è agli ultimi posti anche come lingua parlata nell’uso quotidiano, al 21mo posto, con 67 milioni di parlanti, gli italiani residenti in Italia e quelli di prima\seconda generazione emigrati.

Latinità - Nasce dalla rotta, stando all’imperatore Augusto che la inventò, nella guerra di Troia: l’Occidente nasce da una disfatta a opera dei greci. E si perfeziona a opera di un anti-Machiavelli, il Possevino, gesuita di origini ebraiche, viaggiatore non memorabile nella Moscovia. Il quale selezionò le letture e redasse la ratio studiorum cui l’Occidente s’è conformato, un grafomane. Questo è importante saperlo, per la storia e per capirsi.

Lisbona – Fu fondata da Ulisse, secondo la “General Estoria” fatta redigere da Alfonso X il Savio a metà del Duecento. Ulisse intraprende il viaggio di ritorno, l’odissea, per la  nostalgia della moglie e del figlio, che non vede da venticinque anni, dopo avere creato la città di Ulixbona. Avendo infranto l’interdetto delle colonne d’Ercole, di non superare lo stretto di Gibilterra – tema di molte trattazioni classiche e bizantine.
Alle colone d’Ercole era arrivato, secondo la “General Estoria” – e secondo Dante – attraverso una via Herakleia, una via marittima che partiva da Cuma in Campania (la Gaeta di Dante, “prima che sì Enea la nomasse”): una via marittima interinsulare, che andava da un’isola all’isola vicina, condivisa, secondo Menendez Pidal, “Historia de España”, anche dagli arabi, perché la meno esposta alle insidie dei venti.

Tempo - “Caro amico, voglia scusarmi per la lunghezza di questa lettera”, scrisse Pascal, “non ho avuto il tempo di essere breve”. Voltaire lo riscrive più conciso: “Vi scrivo una lunga lettera perché non ho il tempo di scriverne una breve”.

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