letterautore
Italia – Si direbbe allo stadio
finale dei “Principi della scienza nuova” di Vico, di quella finale delle sue velocissime
metamorfosi storiche – alla “degnità LXVI”: “Gli
uomini prima sentono il necessario, dipoi badano all’utile, appresso
avvertiscono il comodo, più innanzi si dilettano del piacere, quindi si
dissolvono nel lusso, e finalmente impazzano in istrappazzar le sostanze”.
Machiavelli – Ebbe, fra i tanti
commentatori, Campanella e Vico simultaneamente anti e pro. Campanella nell’“Atheisumus
Triumphatus”, nelle poesie e in altre scritture, offeso, sdegnato, dal poco o
nessun conto che Machiavelli pragmatico faceva della morale, che Campanella per
qualche tempo voleva universale, provvidenziale, umana. A Machiavelli
rimproverando specificamente di amare “la parte più che il tutto e più se
stesso che la specie umana”. Anche Vico fu ambivalente, spiegava Roberto
Esposito nel suo primo saggio, “La politica e la storia. Machiavelli e Vico”,
quarant’anni fa. Vale per Vico l’osservazione che un altro suo studioso, Marco
Vanzulli, premette a un saggio analogo: “L’importanza di Machiavelli per
il pensatore napoletano è già evidente per la critica di cui è costantemente
fatto oggetto, e gli autori che Vico attacca con accanimento costituiscono
tutti, a diverso titolo, dei riferimenti fondamentali del suo pensiero.
Machiavelli è in buona compagnia, Hobbes, Spinoza, Cartesio…”
E tuttavia entrambi si ponevano come
continuatori, se non successori, dell’opera di Machiavelli. Del disboscamento
della società politica. In Campanella nell’utopia. Di più, più specificamente,
in Vico, il cui titolo principale è esattamente “Principi di Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni”. Al culmine di
quali eleva lo Stato a principio regolatore. E, soprattutto,
la morale vuole assorbita nella politica. Il bene comune essendo il bene
supremo.
Mare – È solitamente l’orizzonte aperto,
mobile, l’ignoto, l’avventura – l’“Odissea”. Dominique Fernandez, “La Société
du mystère”, ne fa la summa al rovescio, come di una distesa inerte, così lo
vuole sentito dal suo personaggio, il pittore Bronzino, quando per la prima
volta sbuca sul mare “dalle belle colline toscane”: “Una distesa d’acqua senza
limiti, un paesaggio senza disegno né struttura, invariabile, monotono, stiracchiato
fino all’infinito, questa successione di onde che si ripetono e vengono a
morire, allo stesso posto, tutta questa uniformità mi sembrò insipida”.
Mitteleuropa - È l’Est continentale, fatto “di pianure, di
montagne, di case, di luoghi in cui si sta ben coperti, di alberghi a poco
prezzo nei quali ci si lava la faccia e le mani nel lavandino”. Che finiva
“dove cominciava l’acqua, qualsiasi acqua, qualsiasi mare” - Claudio Magris,”Lezioni
di musica” (in “Tempo curvo a Krems”).
“Occidente, occiduo, occidentale”, a un
mitteleuropeo sbucato a Trieste evocavano, continua Magris narratore, “la
solitudine oceanica” . Erano anche una musica, “che sentiva sussurrare come una
sirena in quelle dolcissime consonanti palatali”.
Statue
– Hanno generato un filone consistente nella letteratura d’evasione, in
forma di amore delle statue – amore passionale, animato.
Il filone più consistente è
stato quello mariologico, innestato sulla raccolta, voluta da Gregorio Magno,
delle veneri, le giunoni e le diane di Roma antica dentro il Colosseo. Tutti
quei marmi fibrillarono nelle fantasie del popolo cristiano in fidanzate,
mogli, madri e madonne. Registrata nel “De Gestibus Regum Anglorum” con cui Guglielmo di Malmesbury tentò nel 1125 di edificare una storia inglese, la raccolta di san
Gregorio trapassò nei repertori narrativi di ogni tronco letterario europeo;
fino all’“Urania” di Giovanni Pontano, alle odi leggere di Piron, al filosofo
sensualista Condillac, il quale immaginò una
“statua psicologica” fatta di marmo sensibile, e a Prosper Mérimée - c’è una prevalenza di francesi.
Di Mérimée, amico stretto di Stendhal e suo esecutore testamentario,
molti sono i casi. In “La Venere d’Ille” un giovane alla vigilia del
matrimonio, mettendosi in libertà per fare sport, appende l’anello destinato
alla fidanzata al dito di una statua e l’indomani è trovato morto nel letto
nuziale. In “Lokis” un giovane muore nel letto nuziale tra le due fidanzate,
una donna e una statua “dagli occhi di tigre”. E in “Il viccolo (sic!) di
madama Lucrezia, in una storia fulminante dentro la narrazione prolissa: un
milord, archeologo dilettante a Tivoli, s’innamora di una statua che “ogni
notte si animava a suo profitto”, ne viene strangolato, impaziente gli subentra
un altro baronetto isolano.
Non infrequenti sono stati, dopo Gregorio, gli innamoramenti mistici
delle statue della Madonna e dei santi. Ultimo Vincenzo Consolo con santa
Rosalia, “una fanciulla sensuale di marmo bianco, quasi carnacino”. Animare le statue
è però ambizione suprema in letteratura, che quindi abbonda di marmi. Esemplare
la quinta delle sfrenate elegie romane di Goethe: “E non mi erudisco mentre
spio le forme dell’amabile seno, guido la mano giù per i fianchi? Solo allora
intendo il marmo...”.
Rilanciato in tempi vicini dalla scrittrice irlandese di porno leggero
“Sally Mara”, il topos aveva naturalmente
posto d’onore tra “I ballisti” di Luciano, impropriamente detti falsari o
amanti del falso. Ma si ride poco con le statue. A parte Luciano e “Sally
Mara”, si registra un epigramma dell’“Antologia greca”: “Il dottor Marco porse ieri i suoi servigi a una statua di Giove, e
la divinità, benché sia di pietra, sarà sepolta oggi”.
Il rapporto corpo-statua, una
somiglianza, un destino, è il tema sinfonico del “Fauno di marmo”, il romanzo di Nathanael Hawthorne che inaugurò il filone mitico del genere cosmopolita ed ebbe forma
plastica al cinema nel 1919 nelle fattezze di Elena Sangro, la Piacente che
risveglierà D’Annunzio vecchiarello alle geometrie del Triangolo e del
Cerchio, sorpresa dovutamente celebrata in versi, nel “Poema segreto”. Ma il “bellissimo
di Salem”, fondatore della letteratura americana, disapprovava che gli
scultori, in pieno secolo XIX, sbozzassero marmi nudi.
Le statue delle fontane sono felici, secondo D’Annunzio, “La città
morta”: “Esse godono, nel tempo medesimo, dell’inerzia e della fluidità”.
L’amore di Carmide, personaggio di un dialogo platonico, con la
statua di Pallade-Arena è il focus del poema a lui intitolato di Oscar Wilde - ce
ne sarebbe un altro, la dichiarazione d’amore della statua a Carmide morto, ma
è diluita per ben 25 sestine, su un totale di 111.
Ne “La salamandra e la statua”, fiaba originale di Cristoph Martin
Wieland, una delle poche da lui non copiate, la statua è la forma nella quale
il druido fa trovare moglie al figlio.
Il favolista filosofo Wieland era antiromantico. Ma sarà tuttavia
proprio la superproduzione romantica ad attingere alle statue con ampiezza:
Victor Hugo a 16 anni, Heine nelle “Notti fiorentine”, Eichendorff, “Das Marmorbild”, Nietzsche, “La gaia scienza”, W.E. Yeats, “The Statues”, Henry James, “L’ultimo dei Valeri” e “La statua di Giunone”, la giovane Yourcenar di “Denaro del sogno”, Fleur Jaeggy, “Statue d’acqua”.
“La Jongleuse” di Rachilde, disgustata dell’amore fisico, si accoppia con forme di
alabastro. “La donna senz’ombra” di Hofmannstahl incontra una statua, uomo, ragazzo, principe,
cacciatore, amante, sposo, che però c’è e non c’è. Un titolo lapidario, “Les filles de marbre”, commedia di Théodore Barrière, serve al dire e non dire di Proust
per addebitare a Odette “amori di quel tipo”,
cioè da casa d’appuntamenti.
Marmorei turbamenti extraletterari sono testimoniati dalle sorelle
Mancini, le nipoti del cardinale Mazzarino, in personaggi, eunuchi o mariti. Mossi
probabilmente da quello stimolo che Balzac, nel promiscuo “Sarrasine”, ha chiamato “la gelosia delle incisioni, dei quadri, delle statue
in cui gli artisti esagerano la bellezza umana, per la dottrina che li porta a
idealizzare”. E che Guy de Maupassant visse eccitato a Siracusa davanti alla Venere testé scoperta dal cavalier Saverio Landolina: “È la donna così come la si ama, come la si
desidera, come la si vuole stringere. È prosperosa, col seno fiorente, l’anca
possente e la gamba un po’ forte, è una Venere carnale che si sogna coricata
pur vedendola in piedi”.
La memorialistica è inesauribile: “La passione dei marmi è molto, ma
molto più rara del sadismo”, spiega Mario Praz, dove “rara” evidentemente sta
per “complessa”. Jurgis Baltrusaitis pone fra le “Aberrazioni” la “pietra figurata” o fiorentina, animata da colori e figure,
naturali o incise. Ha la passione dei marmi il professor Baldasseroni,
antagonista del “Serpente” di Luigi Malerba, che “non potrà volare mai perché tende verso il
basso”. Il presidente De Brosses al contrario addebitava buona parte della
grandezza dei romani antichi alla loro ineguagliata passione per i marmi. I
nudi di pietra fiorentini emozionarono perfino l’olimpico Montesquieu. Per le
“soavissime figure di pietra”, unicamente per quelle, smaniava il marchesino
De Pisis. Nella corrispondenza che Mérimée, l’amico di Stendhal, teneva nella sua
funzione di ispettore generale ai monumenti artistici, la donna statuaria che
mozza il respiro ritorna frequente.
Statuario è il fantasma della gigantessa di Baudelaire, delle hommasses di Brantòme, e di “Sodoma e Gomorra”. Dove però, in omaggio alla mortemartiana disidratazione del
desiderio, indica solo una donna grassa.
Carlo Dossi rimosse l’amore dopo una settimana di frenetico
concubinato statuario.
Malaparte invece ebbe una sorpresa: andò a lungo “ogni giorno a fare
all’amore con la Laurina di Cafaggio, una statua di pietra grigia, senza
braccia, le guance rose dal vento e dalla pioggia, affacciata al muro di un
orto”, che quando il muro fu abbattuto si rivelò un torso maschile. Il suo
emulo André Pieyre de Mandiargues, che “mai” fu “così felice come in Italia”, e
provava questo stato soprattutto con le pietre, inciampò un giorno, in “Marbres ou les mystères d’Italie”, in una grande statua, distesa per terra come cadavere, che per
scienza infusa capì essere “il lettore” — carogna di un dio per il quale
“l’autore” era stato creato, ma al pari di lui era morto.
Il caso più famoso riguarda la Giustizia che il milanese Della Porta
scolpì a San Pietro sul mausoleo di Paolo III Farnese, “tanto bella”, attesta
il Belli, “ch’un zignore ingrese ’na vorta un zampietrino ce lo prese in atto
sconcio e co’ l’uccello in mano”, talché fu necessario che il Bernini la
ricoprisse di sottane.
La Venere Italica, Paolina Borghese, suscitò passioni comuni a Foscolo,
aFlaubert (“mi si perdoni, è stato da molto tempo il solo bacio sensuale”: il
genio grammaticale che aveva paura del corpo fu visto piangere spesso davanti
alle pietre) e al popolo, al punto che si dovette ordinare il trasferimento
della statua di Canova dalla romana villa Medici a Firenze, perché “ben spesso
con parole e con gesti dei più scorretti abusata” — tutti evidentemente
inconsci del carattere “cimiteriale” che Roberto Longhi le attribuiva.
La passione popolare si rinnovò nel 1901, quando venne svelata a Roma
la fontana dell’Esedra o delle Naiadi: i rapporti delle guardie regie fanno
stato di ripetuti episodi di trasporto emotivo.
Gli archivi ribollono di storie inconfessabili con il Davide della
Signoria, vero Golem fossile.
Nell’antichità la commistione servi anche da mezzo di produzione.
Sull’esempio di quegli scultori che colarono a lungo i loro bronzi, specie
quelli delle divinità virginali, nei calchi dei seni di Teodota, la bellissima
fidanzata di Alcibiade.
L’archetipo è in Pigmalione, il conquistatore di Cipro che, offeso
dalle voglie delle donne del luogo, se ne fece una di marmo, uguale ad Afrodite
divinità dell’isola, se ne innamorò e secondo Ovidio la ingravidò – la statua delle
“Metamorfosi” sarà detta di Galatea nel Settecento (ma Goethe la chiama ancora
diversamente, Elisa). Secondo Robert Graves, “I miti greci”, il latteo simulacro della dea nel suo letto serviva invece a
Pigmalione per mantenersi, principe consorte, sul trono, in analogia con il
trucco escogitato da Micol per salvare David dalla follia di Samuele. Boccaccio
opina che la donna di marmo in realtà mascherasse un’acerba vìrgunculam.
Ateneo racconta di Cotide, re della Tracia, che, innamorato di un
simulacro di Atena, straziava l’amante vera con le unghie a partire dal basso
ventre, ma questa redazione del mito non è sopravvissuta nella panoplia
dell’amore ideale.
È un referente artistico. Nella “Filosofìa nova” Stendhal lo dice, incontrovertibile: “Bisogna descrivere l’Apollo del Belvedere nelle braccia della Venere dei Medici nei più
incantevoli giardini di Napoli e non un grasso Olandese sopra la sua Olandese
in un sudicio mezzanino”.
L’embrione è Pandora, la prima donna, che Zeus fece modellare in
argilla. Di questa storia è fervoroso tramite il poeta anti-femminista Esiodo.
La statua fa la differenza, attesta Roberto Calasso analizzando la
sbandata di Giove per la copia di Hera, la sacerdotessa dal nome rivelatore di
Io.
Si aprono baratri nella misoginia, nel cui amore delle statue si
rappresenta la ricerca trepida dell’amore-amante immobile, che tenti e
rassereni. Tale l’ateniese Amicleto, il quale, sorpreso a fare l’amore
nottetempo con una statua di Venere, così si giustificò davanti ai giudici:
“Ho voluto amare una pietra, perché so amare, e non sono così vile che ami per
essere amato”.
Tedeschi – “I tedeschi sapevano
obbedire e cantare, che era la stessa cosa, dire di sì” – Claudio Magris, “Il
custode” (in “Tempo curvo a Krems”).
Le donne tedesche, le buone mogli di Stendhal e
Tacito, si legano ai mariti anche coi soldi: condividono il reddito, che lei
lavori o no, e sgonfiano l’imposta progressiva, pagando aliquote marginali più
basse, avendo imposto allo Stato lo splitting, la divisione del reddito
familiare in due.
E sempre si salvano: la principessa Sofia Carlotta
di Braunschweig Wolfenbüttel, sposata ad Alessio, il figlio che Pietro il
Grande uccise, finse di essere morta e lasciò che si celebrasse il funerale,
mentre fuggiva in Martinica, dove si rifece con valenti coloni francesi.
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