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Ambiente – Una prima, e più
eloquente, messa in guardia è in Ovidio, nelle “Metamorfosi”, nella favola di
Erisittone. Lo spiega Anthony Doerr a Maria Egizia Fiaschetti su “7”, a
conclusione del soggiorno al’American Academy sul Gianicolo a Roma dove “mi
sono concentrato”, dice, “sul tema dell’utopia nel mondo greco”. Erisittone è il
re che, per costruirsi una sala da pranzo, decide di abbattere un bosco di
querce. Ma più attacca le querce con l’ascia, più quelle si fanno forti e
grandi. Finché, sapendo di non poter resistere per sempre, implorano Erisittone
di smettere. Nioente da fare: il taglio continua, fino a che le querce
cominciano a sanguinare. Allora Demetra interviene e punisce il re: gli
infligge una fame insaziabile, che lo costringerà alla fine a vendere la
figlia, trasformata in animale. Alla fine sarà costretto mangiare se stesso.
L’inquinamento come una forma di
autofagia.
Autenticità – Lo scrittore spagnolo Vilas
al “Corriere della sera”: “Viviamo tempi confusi, l’autobiografia è una forma
di autenticità”.
O non l’inverso? Siamo confusi perché ci
guardiamo l’ombelico – magari attraverso i social, uno specchio, con Photoshop.
Dante – Sarà il santo dell’identità italiana, lui così irascibile e - benché (poiché) ghibellino, imperiale, unitario – chiuso, oggi si direbbe sovranista? Se ne richiede con insistenza la “giornata”: ci sono giornate ora per tutto, e il “Corriere della sera” lancia un Dante Day, come una volta c’era san Francesco patrono d’Italia, o la giornata di Colombo e la scoperta dell’America. Col plauso, pare, degli “enti che studiano il poeta”. “Dante è la nostra identità”, dice Paolo Di Stefano che ha lanciato l’idea. Un modo gentile per riappropriarsi dell’identità” che si vitupera nelle cronache? Per “liberarla” da Salvini e Houellebecq – ci sono di queste missioni?
Per cominciare a capire di cosa si sta trattando? Che ci sono invasioni e invasioni: quelle coloniali e imperialiste, da aborrire certo, ma portavano la legge e le istituzioni (che solo aiutano i poveri, essendo lì per tutti), mentre quelle delle orde non apportano niente, solo furti e distruzione. Di fatto però Dante potrebbe essere un patrono identitario “pericoloso”: un sovranista feroce. Un campanilista anzi, cattivissimo con tutti, a cominciare dai bordi di casa, dai pisani, dai senesi.
Eccentricità – “L’eccentricità non è
altro che la faccia visibile della libido che prende la scorciatoia verso
l’oggetto desiderato”. È considerazione di Nicholas Blake in un racconto, “Un
tiro azzardato”, del 1944, di un conte che ha scelto di vivere su un albero. Un
precedente del “Barone rampante” di Calvino, e della trilogia? “Nicholas Blake”
non è nessuno: Cecil Day-Lewis di suo, è stato poeta, romanziere, critico,
docente a Oxford, padre dell’attore Daniel Day-Lewis, nel 1968 poeta laureato
di Elisabetta II.
Euripide – Fu anche commediografo. Suo
malgrado? In “Elena”, nelle”Baccanti”. Aristofane lo sentiva concorrente, e per
questo ne parlava male – Euripide ha brutta fama nell’antichità, per le
cattiverie scritte sul suo conto da Aristofane? È più che probabile. Anche
perché Euripide è radicale, critica e sbeffeggia pure le divinità. Mentre
Aristofane al confronto è invece conservatore.
Una radice euripidea fu trovata a
Pirandello quando ancora non era stato messo all’indice. In effetti, è più che
un’ipotesi il prolungamento del dramma radicale - dell’interrogativo senza
risposta – nell’ironia e nel ridicolo.
Nietzsche – e con lui Michaelstadter –
escludeva Euripide dal catalogo degli antenati, ne “La nascita della tragedia”,
come colui “probabilmente già portavoce di una modernità distante dal sentire
tragico”. Fin qui è la parte nota, la “modernità” di Euripide. Ma Aristofane lo
criticava soprattutto - da conservatore cieco – come colui che “rivestiva di
stracci i re”.
Giallo – È esercizio della mente,
svagato. Come l’enigmistica – forse qualcosa di più, per gli ambienti, i
personaggi, le storie? Si leggono e rileggono con gusto le inverosimili storie all’inglese,
del whodunit, del chi è stato. Il tipo
di storie, che non si ricordano ma si rileggono volentieri, antologizzate da
Borges e Bioy Casares come “i migliori racconti polizieschi”, Intrighi
improbabilissimi, il giallo senza indizi, la morte impossibile. Il giallo
impegnato, all’italiana, di Manzini, di Camilleri, ugualmente non si ricorda ma
non si rilegge, ed è anche faticoso. Perché legato all’attualità, a fatti contingenti,
di cronaca, di impegno – Camilleri si salva per il colore (aggiunto dai film
che Degli Esposti e Sironi ne traggono).
Italiano – Il lunfardo, idioma
bonaerense, Borges registra in una conferenza ora compresa in “Il tango”come
“composto in gran parte di parole italiane”. Il lunfardo è stato ed è il gergo
della comunità italiana a Buenos Aires e Montevideo, spiegano i curatori di “Il
tango”, trasmigrato nell’idioma argentino.
È un’identità forte, a giudizio di
Jhumpa Lahiri, la scrittrice americana che ha adottato l’italiano come lingua.
Perché l’italiano come nuova lingua, le si chiede spesso. Semplice, spiega a Roberta Scorranese : una nuova lingua è un
mondo nuovo. Lahiri, nata a Londra da genitori bengalesi, poi emigrati negli
Stati Uniti, dove lei è cresciuta, ha fatto gli studi, ed è diventata
scrittrice importante, per sua scelta da alcuni anni trapiantata a Roma, lo sa
per imprinting. Il suo libro più importante, “Una nuova terra”, è sulle interculture,
o identità divise-frantumate- rattoppate. Il mondo italiano è per lei particolare
in questo: “Nella cultura italiana c’è un’empatia e una umanità che non trovo
in altre architetture di pensiero”. Recente curatrice di una antologia inglese
di 40 narratori italiani, sa di che parla. L’“italianità” ritiene forte: “C’è
una italianità meno visibile ma ugualmente forte che trascende lingua, origini,
colore della pelle. Ed è interessante, molto interessante”. Contro “i paletti”
che da qualche tempo si vogliono erigere contro “persone, cose, concetti”, argomenta
anzi che proprio l’italianità verrebbe a perdere: “Sono un po’ italiane quelle
persone che nel mondo studiano e amano la vostra lingua – e, credetemi, sono
tante” – nonché “quelle persone che sono venute qui e qui vivono da anni”, e
altri che forse pensano di venire ma “già si sentono di appartenere a questo
mondo”. Una identità forte, a giudizio della scrittrice.
Proust – Tanto arguto e misurato nei pastiches e la saggistica, anche nella sterminata corrispondenza, tanto
prolisso, e esagerato, perfino ridicolo, confuso per troppa esattezza, con
personaggi più manichini che vissuti, nella “Ricerca”. Poco flaubertiano. Per
niente tolstojano, volendo confrontarsi con “suo” mondo aristocratico – la differenza
è tra un mondo proprio (Tolstòj) e uno che si vorrebbe ma non è proprio,
snobistico? Senza peraltro l’urgenza morale dell’altro prolisso, incontrollato e
confusionario, Dostoevskij.
Cosa c’entra Proust con Tolstòj, o
Dostoevskij. Nulla, ma lo si vuole altrettanto “epocale”.
La ricerca è “epocale” di Proust, non di
Parigi, per nessun senso, tanto meno della Francia: non è un romanzo storico,
certo, è un romanzo di costumi, ma in soggettiva, e posticcio, molto.
Ha molti critici – molta critica buona,
e anche ottima. Per la scrittura elaborata, forse – la “lunga durata” non è
sua, e non è del romanzo, fatto di materiali (personaggi, situazioni) friabili.
Nessun carattere forte, una figura appassionante, un nome epocale.
Ma soprattutto ha gli “incondizionati”:
fedelissimi, citatori, magnificatori. Mentre è incongruente e esagerato, ridicolo.
Uno che mena il can per l’aia, se la cosa significa qualcosa: non si può
“ritagliare” un personaggio in mille pagine, tipo Albertine: sguscia, non si prende,
non “significa”. Non è andato oltre la brutta copia, “Jean Santeuil”, che nell’incompletezza
mostra scoperta la trama: come romanzare la vita quotidiana, le visite, le
vacanze, le mamme, le zie, possibilmente titolate, ma di un Santeuil qualsiasi,
senza carattere – nella “ricerca ha solo quadruplicato il brodo.
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