sabato 8 giugno 2019

Cronache dell'altro mondo (35)

Il Procuratore Speciale Mueller, che ha indagatio per due anni e mezzo sul Russiagate, non ha “trovato le prove”, dice. Non ha trovato le prove che Putin ha fatto eleggere Trump... Ma, aggiunge, “non posso scagionare Trump”. Il giudice vorrebbe Trump colpevole, perché anche a lui antipatico, ma in due anni e mezzo non è riuscito a incastrarlo. Un giudice molto onorato nell’opinione pubblica americana.  
Mayorga, la “giornalista” di Cristiano Ronaldo, e il giovanotto promessa del cinema” di Asia Argento, si sono fatti pagare 400 mila dollari per una scopata – forse. A titolo, espresso, di ricatto sessuale. Patrocinati da avvocati specialisti in estorsioni, i cosiddetti contingenxcy lawyers, avvocati a percentuale, che si pagano con un quota dei “danni” recuperati. Tutto questo nel nome della rispettabilità, anzi della moralità, e anzi della giustizia.
Madonna, di proverbiale virtù, non sapendo più cantare né ballare, si conquista le prime pagine spiegando al mondo che Weinstein ci provava sempre, ma lei ha resistito. E che Trump l’ha “molestata al telefono sotto falso nome”. Un seguito ora sarà possibile: lei ha riconosciuto Trump dalla voce, quindi familiare, e come mai familiare? Oppure: come Trump ha avuto il telefono di  Madonna? Dagli Usa è tutto.

Derrida a Siracusa – la Nuova Internazionale dell’Ospitalità

Derrida “sulla sovranità , sulla cittadinanza, sulla civiltà e sulla cosa politica”, premonitore della nostra quotidianità, e risolutore. Essendo stato, come Platone, anche lui a Siracusa. Non per consigliare qualche tiranno, ma per tratteggiare il Duemila. Niente di meno. Con perspicacia e insolita sintesi.
È questo il Derrida  che si presentò a Siracusa a gennaio del 2001, all’inizio del millennio, per ringraziare della cittadinanza onoraria nella “città di Platone”, quella dove Platone concepì la “Repubblica” dei belli-e-buoni. Un Derrida risolutore propriamente no, se non in forma di interrogativi, ma quello che aveva individuato con precisione l’epoca e le evenienze per l’Europa nel mondo “mondializzato”. Insolitamente propositivo, quasi ottimista. La filosofia forse no, ma il filosofo è nudo di fronte alla mondializzazione, come Derrida chiama la globalizzazione: non sa che dirne. Sa però che è impossibile, e forse ingiusto, rifiutarla.
Come Platone, anche Derrida è stato dunque a Siracusa. Ma volendosi nudo. Platone a Siracusa s’immaginò di dettarne la politica, di coniugare le ragioni della politica a quelle della filosofia. Rischiando una fine poco onorevole. Derrida, in un’occasione cerimoniale, e con uno scritto breve, pur professandosi nudo, inerme cioè davanti alla politica, propone molto di più: il governo del mondo. Non della cosa pubblica, della politica in senso stretto, ma del senso e della direzione delle cose del mondo oggi.
Forse Platone non è stato a Siracusa, forse non nei termini della Lettera VII, di conquistatore-conquistato, ostaggio del tiranno che voleva sottomettersi. Ma la tentazione si può dire ricorrente, si pensi solo a Heidegger – un caso peraltro estremo, di un filosofo per così dire ingenuo, di fronte a un tiranno molto tirannico. Derrida lo riconosce: la tentazione è ricorrente, al punto che poi il filosofo, ogni filosofo, si sente nudo: “Un filosofo si sente sempre colpevole, politicamente in colpa, e dunque vergognoso, anche se non è nudo”, se ha provato a pensare la politica, a dare il suo contributo. Anche perché, vero o no che sia, il filosofo “da sempre lo si accusa di amare il potere”. E i filosofi stessi ne sono tentati, di condizionare “tutti questi sovrani attraverso i nostri consigli, le nostre teorie politiche, i nostri progetti di costituzione, la nostra saggezza e il sapere che si presuppone noi abbiamo circa le leggi, la storia, la destinazione e persino la felicità degli uomini”. Lui stesso ne è tentato – lo nega ma poi non lo nega.  
La “tentazione” è quella che ha generato i cattivi rapporti tra la filosofia e la politica. L’ambizione dei filosofi di “condizionare” i disegni pratici, della politica – che è, Derrida non lo ricorda, l’arte del possibile. Un’ambizione, si può aggiungere, che è in realtà il disdegno della politica.
La tentazione è quella Lettera VII di Platone, della cui autenticità a lungo si è dubitato ma che Derrida prende per buona, e con lui i curatori di questa edizioncina, sulla scia di Gadamer. Quello che più colpisce di questo discorsetto d’occasione, il 18 gennaio 2001, in un Palazzo del Senato nell’isola siracusana di Ortigia stracolmo, è una sorta di preveggenza, di acuta sensibilità storica e politica: qui è questione di Stati-nazione, frontiere, cittadinanza, identità, ospitalità, diritto d’asilo, immigrazione.
La “mondializzazione” ha già portato Derrida a resuscitare Marx, già nel 1993, subito dopo la caduta del bolscevismo, con una lettura “messianica” – “Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale”. Pronosticando una rivolta degli “oppressi”, in una “Nuova internazionale”, senza nazionalità e senza classi. Nel mentre che riprendeva e rielaborava il tema dell’ospitalità di Lévinas. Per una reinvenzione della democrazia, “una nuova alleanza tra filosofia e politica”, in vista di “una nuova era della cittadinanza cosmopolita”. E di “nuove leggi d’ospitalità internazionale: una nuova ospitalità per lo straniero, per lo xenos divenuto philos”.
Verso un nuovo modello di cittadinanza
Un esito che sembra di auspicio più che analitico: “Una nuova era di cittadinanza cosmopolita si annuncia e forse anche nuove leggi d’ospitalità internazionale: una nuova ospitalità per lo straniero, per lo xenos, divenuto philos, un’ospitalità che sarebbe più cosmopolita, più che platonica e anche paolina e kantiana, laddove il cosmopolita continua a fare segno verso un modello antico di cittadinanza, la cittadinanza di ieri ancora legata all’autoctonia, alla nazione, alla nascita, alla fraternità, alla lingua, alla religione al luogo della sepoltura, alla terra e al sangue”. Una dissolvenza totale, per un modo di essere informe, e inconsistente?
In Kant l’ospitalità è giuridica, in Derrida è incondizionata: nelle “Politiche dell’amicizia,” anteriori a questa “Tentazione di Siracusa”, va oltre la politica e il diritto, e anche l’etica. Con qualche aporia, se l’amicizia, come l’ospitalità, deve essere qualcosa e non il tutto-niente. La “tentazione” è anomala se il governante è monocratico, ma è possible e anzi necessaria in democrazia, dove si discute del “più” e del “meglio”? La tentazione non è la stessa?
Altrove, “Il diritto alla filosofia dal punto di vista cosmopolitico”, Derrida era già stato dissolvente. La filosofia non può essere legata a una lingua e a un luogo, a una sola memoria: “Sotto il suo nome greco e nella sua memoria europea è sempre stata bastarda, ibrida, innestata, multilineare, poliglotta”. In teoria sì, in astratto, ma in pratica, nella storia, come avviene la storia, come si svolge il gomitolo?
Caterina Resta, che ha recuperato la conferenza di Siracusa, la inquadra nell’ultimo Derrida. Elio Cappuccio, che la commenta, opportunamente riporta in ballo Popper, che si vorrebbe dimenticare, la sua acuta benché radicale rifutazione di Platone, dell’ambizione del sapiente di “risolvere” la storia. A Popper opponendo Gadamer, “Sccitti platonici”, che la “Repubblica” pretende di ascrivere al filone democrartico. Roberto Fai, al quale risale l’idea di invitare Derrida a Siracusa sul tena “tentazione della politica”,  rifà la “fraterna inimicizia” tra filosofia e politica – anch’egli con Gadamer al salvataggio di Platone. Derrida sembra muoversi su un altro terreno, più utopico e quasi di fantasia, che forse avrebbe sviluppato dopo il discorso di circostanza a Siracusa, se non che la vita non gliene lasciava il tempo.
Jacques Derrida, Tentazione di Siracusa, Mimesis, pp. 74 € 6  

venerdì 7 giugno 2019

Appalti, fisco, abusi (154)


Susanna  Tamaro fa l’esempio, in un libro in uscita, degli strani accertamenti dell’Inps su chi raccoglie le castagne nel castagneto di un amico, o l’uva alla vendemmia, e non è regolarmente retribuito, con voucher (ci sono ancora?) o contratto temporaneo.
Non un impiego del tempo a perdere da parte dei funzionari dell’Inps, ma una vera caccia all’evasore – che forse per questo non si trova.

Di peggio succede, per la testimonianza di Tamaro e anche personale, con le ex Guardie Forestali dopo che sono state passate ai Carabinieri. I quali, non sapendo che fargli fare, gli hanno passato i controlli alimentari, il vecchio Nas, nucleo anti-sofisticazione. Giornate sono perse dagli esercenti dietro i Forestali-Carabinieri, che non sanno cosa chiedere, e perciò prendono tempo.

Tanti controlli-abusi di cui Tamaro racconta sono dovuti all’occhiuto impegno delle amministrazioni locali sulle  seconde case in Toscana – Tamaro non menziona la Toscana, ma si sa. Si pagano diritti salati, con multe stratosferiche per tutto: aver rimosso una legnaia marcita, aver eretto un cancelletto di legno, non aver dato la tonalità regolamentare alle imposte,  aver coperto la serra dei fiori con una plastica o vetrata di sfumatura di colore non consentito – aver creato una serra per i fiori. Ciò nel grossetano soprattutto, terra già celebre per i taglieggiatori di passo, ma anche nel senese.

La Toscana è ingorda di tasse, su passanti e forestieri. I soprusi con i non residenti giustifica con la protezione ambientale. Alla quale però sfuggono le licenze di cementificazione, con villette a schiera e anche multipiano. Nelle valli e anche sui poggi, con vista - si sa che l'ambiente ne è ghiotto. 

Mezza Italia, nelle zone boscose, in quelle montuose - nelle Prealpi anche agglomerati urbani importanti – e perfino al mare, dove gli esercenti dei bagni non hanno aderito alle reti wi-fi o ne sono usciti, ha difficoltà a connettersi. Con danni anche importanti, ora che è invalso l’uso di Internet, con la banca, con i fornitori, e anche con lo Stato, il fisco, l’Inps, i Comuni, il Catasto e ogni altra istituzione. Perché la rete è stata lasciata agli operatori telefonici, che servono di preferenza le aree più intensamente abitate.
Si fa come se l’Italia fosse immobile, nessuno si muovesse, per lavoro o anche soltanto per piacere o per la salute, o per un impegno qualsiasi.

La connessione privatizzata penalizza gli utenti anche per il motivo che gli operatori spesso si scambiano le torri con segnale. Una zona remota, o boscosa, o scarsamente abitata, prima servita da Wind, lo è ora da Vodafone o da Tim, ma il residente stesso, nonché il viaggiatore, non può cambiare operatore  a ogni passaggio di proprietà delle torri col segnale. È così che l’iperconnessa Italia, quella che più di tutti parla e legge al telefonino,  figura non connessa.

Una rete nazionale di connessione via cavo era stata avviata in anticipo su internet, quando si aprlava di “città cablate”, di capacità  di “trasporto” via cavo moltiplicata all’infinito, dalla Stet-Sip col progetto Proteo. Poco meno di trent’anni fa. Ma la Stet-Sip andava privatizzata, e il progetto fu fermato, come ogni altro investimento da parte dell’ex operatore pubblicio, che era all’avanguardia. Le varie proprietà private che si sono succedute a Telecom-Tim si sono solo occupate di incassare l’ipertrofico abbonamento al fisso, e di arrotondare con i margini della fatturazione.  

L’amore viene dall’aldilà

Accostate due divinità primigenie e commplesse, intrecciate. Di Ade, il dio del mondo sotterraneo e degli inferi, figlio di Crono e Rea, fratello di Zeus, Era, Poseidone, Demetra e Estia, perché s’innamorò di Kore-Persefone (Proserpina) e la rapì. Kore, figlia di Demetra, la dea della terra, della fertilità, e sposa di Ade, re dell’oltretomba, è la complessità del femminile, partecipe di due nature e di due esistenze, ninfa giocosa e gentile tra i fiori in primavera, e insieme signora del mondo nascosto, segreto, in quanto sposa di Ade – di cui era anche nipote, e col quale, benché ne fosse stata rapita, si mostra felice nelle pinakes, le istantanee del mondo locrese (felice di sfuggire così ala madre, come tutte le adolescenti?).
Un  soggetto di miriadi di rappresentazioni nella colonia locrese, e nelle sottocolonie di Medma (Rosarno) e Ipponion (Vibo Valentia). In tutte le forme e per tutti gli usi, e più di tutto nelle pinakes, tavolette votive quadrate di argilla in bassorilievo, all’origine colorate, che furono produzione di Locri per un secolo e mezzo, in serie, circa settemila ne sono state censite, con 170 scene circa ripetute. Una produzione  votiva a Persefone, doppiata da quella a Ade.
Il culto fu consistente anche in laminette, talora in oro, che si ritrovano nelle sepolture di chi in vita era stato iniziato ai misteri, collocate sulla bocca del defunto. Con descrizione in genere di un paesaggio infero spettrale e l’indicazione di un percorso, solitamente tortuoso, che il defunto deve seguire per la salvezza., talora molto poetico.
Un culto molto diffuso anche in Sicilia – che per molti autori è essa stessa dono di nozze a Persefone da parte di Zeus. Ma a Locri con una particolarità: Madre e Figlia sono separate nel culto. Locri ospitava anche un Persefoneion, un tempio, considerate “il più famoso della Magna Grecia” secondo Diodoro Siculo. Ma non vi si venerava Demetra, che aveva un  suo proprio santuario – decentrato, quasi fuori dal recinto urbano.
Nessuna menzione nella mostra – quaeta non movere? – invece della Persefone più famosa dell’attualità. Il Persefoneion, il grande santuario, era anche un grande luogo di furti, famoso pure per questo. Da ultimo lo sarà a fine Ottocento, col trafugamento della grande statua di Persefone, che da allora fa l’attrazione dell’Altes Museum di Berlino – Corrado Alvaro ne fa il racconto in “Mastrangelina”. Fu tagliata a pezzi e trafugata dalla località La Moschetta (mesquita) nel 1911 da trafficanti tedeschi. Che poi la vendettero allo Stato Prussiano a caro prezzo. Legalmente, si dice, allora si potevano “esportare” i beni culturali, seppure non a pezzi e di nascosto. Ma in contanti: il museo berlinese non ha alcuna pezza giustificativa dell’acquisto.
Quello di Ade e Persefone è anche il culto eleusino, dei miseri celebrati a Eleusi. Di cui nulla si sa, solo supposizioni. Tra le quali la più aderente sembra quella di Simone Weil, “Forme dell’amore implicito di Dio”: “La tendenza naturale dell’anima di amare la bellezza è la trappola più frequente di cui si serve Dio per aprirla al soffio che viene dall’alto. È la trappola in cui cadde Core. Al profumo dei narcisi sorridevano tutta la terra, la volta del cielo e il turgido mare. Appena la povera ragazza tese la mano, fu presa al laccio. Era caduta nelle mani del Dio vivente. Quando ne uscì, aveva mangiato il chicco della melagrana che la legava per sempre. Non era più vergine; era la sposa di Dio”.
Nel “Quaderno X”, ancora Simone Weil si interroga: “Se Core (Persefone) rappresenta veramente il chicco di grano, è una figura del Cristo”.  Core poi accosta, nello stesso “Quaderno”, alle altre prefigurazioni del Cristo, Prometeo e Dioniso: “Le Oceanine sono compagne di Core come di Prometeo. Core è rapita nella pianura di Nisa, dove fu rapito Dioniso”. Nonché a Osiride, per l’equivalenza-discendenza che stabilisce fra i misteri egiziani e quelli greci e cristiani, uniti nella Passione, la Passione di Dio: “La Passione di Dio era l’oggetto stesso dei misteri egizi, e così pure dei misteri greci, in cui Dioniso e Persefone sono il corrispettivo di Osiride”. E ancora: “Tutte le divinità morte e resuscitate impersonate dal greco, Persefone, Atti, ecc., sono immagini del Cristo, e il Cristo ha riconosciuto questa somiglianza attraverso l’espressione: «Se il grano non muore… ». Ha fatto la stessa cosa rispetto a Dioniso dicendo: «Io sono la vera vite», e ponendo l’intera propria vita pubblica sotto il segno di due trasformazioni miracolose, una dell’acqua in vino, e l’altra del vino in sangue”.
Da Core viene generato Zagreo, aggiunge S.Weil, che fu grecista accreditata – “zangrei” sono tuttora in grecanico i pastori: “Zeus è diventato drago per generare Zagreo da Core mediante un bacio”.
Carmelo Malacrinò-Ivana Vacirca (a cura di), Ade e Persefone, signori dell’aldilà, MArRC pp. 110 ill. € 10

giovedì 6 giugno 2019

Galateo made in Italy Italiano ai Grandi della Terra


Lezione di diplomazia e bon ton dei media italiani ai potenti della Vittoria, riuniti per le celebrazioni dello sbarco di Normandia, da cui l’Italia è ovviamente esclusa: cosa dire, cosa fare, chi premiare, che lezione trarne. Dopo le lezioni di etichetta impartite da “Corriere della sera” e “la Repubblica” su come comportarsi davanti alla regina d’Inghilterra. Le più antiche e robuste democrazie del mondo non aspettano che la lezione made in Italy. La quale un tempo aveva il senso del ridicolo.
La supponenza mediatica è forse in odio a Trump, che si sa è un arricchito – ma non sarà che posa a arricchito? Ma più è per il piacere, un tempo si sarebbe detto progressista, di farsi (immaginarsi) Pari d’Inghilterra, in spirito se non di fatto – quello che un tempo ancora più lontano, a metà Ottocento, veniva definito un high tory, un conservatore eccentrico.
Cazzullo si spinge a dire che “Trump umilia più gli inglesi che noi”, patrocinandone la Brexit – noi chi: gli italiani, gli europei? Gli inglesi, si sa, sono sempre un po’ barbari – fessacchiotti – come al tempo dell’impero romano. Non aspettano che noi.

Con la Francia niente affari – le asimmetrie europee


Questo sito metteva in dubbio due settimane fa

la possibilità per un gruppo italiano di fare affari in Francia. Non c’era bisogno di doti profetiche per immaginare i no francesi a Fiat-Chrysler: tutti i tentativi precedenti sono falliti, dalla Citroën che l’Avvocato Agnelli voleva comprare sessant’anni fa, alla Société Générale, Alitalia, i cantieri. C’è in Francia un “complesso politico-affaristico (Grandi Famiglie)” molto sciovinista.
Lo stesso in Germania. Il mercato è una fandonia italiana, dei media italiani. Idem per il mercato dei capitali nella Unione Europea. Si può comprare liberamente in Italia, i francesi lo hanno fatto e lo stanno facendo, anche grandi imprese, e così i tedeschi, un tempo gli svedesi, ora i cinesi, perfino i coreani. Ma la reciprocità quasi sempre non c’è.
La Germania, e un po’ anche la Francia, mettono limiti perfino alla libera circolazione delle merci, sotto forma di regolamenti chimici e ambientali. L’Europa langue per queste asimmetrie. Che per l’Italia sono specialmente acute o offensive perché l’opinione non vi è preparata, né dai governi né dai media. Mentre le istituzioni – le burocrazie ministeriali – sono piuttosto filofrancesi. Capofila gli Esteri, di cui a lungo è stato punta di diamante Sergio Romano, una sorta di piccolo De Gaulle che tuona contro gli anglosassoni – anche se l’unico mercato aperto di fatto, sotto le polemiche protezionistiche, sono stati e restano gli Stati Uniti.

L’europa à la carte


A proposito di asimmetrie, nulla le spiega meglio della cronaca di oggi. Grande enfasi, a Bruxelles e a Roma, sulla richiesta al governo italiano di correggere i conti. Anche se il deficit sarà sicuramente sotto il 3 per cento regolamentare. Ma non si dice che la Commissione Ue, nella stessa sessione, a iniziativa dello stesso commissario, Moscovici, ha: autorizzato la Francia a sforare il deficit del 3 per cento nel 2019; escluso la Spagna dalle procedure per deficit eccessivo, e il richiamo alla Germania perché allenti il “surplus eccessivo” di bilancio, che “pesa anche sulle spalle dei partner europei”, ha indirizzato a Berlino come sempre blando e pro forma.
Moscovici è ben l’ultimo socialista a Bruxelles, come ora il premier spagnolo. Ma è anche ben francese, e un po’ macroniano, ora che il suo incarico a Bruxelles finisce - Macron usa molti (ex) socialisti.

La religosità dei greci, elementare

Il catalogo della mostra che oggi chiude, che la soprintendenza di Ioànnina, in Grecia, col patrocinio dell’università di Salerno, ha organizzato al Museo Archeologico di Reggio Calabria sull’oracolo di Dodona, diventa un testo di riferimento per il tracciamento della linea Magna Grecia-Grecia-Egitto per quanto concerne  i culti misterici, soprattutto quelli femminili.
Tutto è segno. La quercia che è il luogo dell’oracolo, protetta da una ringhiera metallica rotonda, che una serie di lebeti in bronzo decorano. La ringhiera e i lebeti. La foglia: la forma, . il colore, il fruscio. Il vento e ogni suono, compreso del bronzo dei lebeti. La fiamma dei lebeti, la luce.
L’oracolo era all’origine una quercia, un bosco sacro – e tale si presentava quarant’anni fa, prima che si procedesse agli scavi per la ricostituzione dell’area sacra. Gli edifici sono posteriori, per la necessità di ospitare i pellegrini. La documentazione portata da Ioànnina, specie le lamine in cui si incidevano i quesiti posti alle divinità, testimonia un sorprendente vuoto. O una religiosità d’accatto: la credulità fondamentale della Grecia, la stessa che inventò il logos, la ragione. Una voglia di divino, forse, ma espressa in una sensibilità minuta, delle piccole cose . a meno che la religione non costeggi la superstizione. Le lamine venivano perfino riutilizzate, per risparmiare – a Locri questa pratica era proibita, e e le domande, incise invece che su lamine su piastrine di terracotta, venivano frantumate dopo la risposta.  
La mostra e il suo catalogo costituiscono il primo collegamento di tale sensibilità con quella magno-greca. Di cui spiegano o illuminano molte persistenze: il culto mariano (i culti femminili), la sensibilità religiosa “istintiva”, come per imprinting, la disposizione pànica. E in specie per la Calabria, considerata la localizzazione di Dodona, in una zona interiore dell’Epiro montagnoso, anzi “sotto il monte”, analoga a quella di Polsi, la Madonna della Montagna al centro dell’Aspromonte, un luogo remoto e chiuso, lungo il corso d’acqua sotto il monte, un parallelismo che potrebbe fare del santuario aspromontano il luogo di culto con più continuità.
Il rettore di Salerno, Tommasetti, vede in Alessandro il Molosso e Pirro, i due re epiroti partiti alla conquisa dell’Italia (presenti in mostra con le copie in tre D, messe a punto dalla Real Academia de San Fernando di Madrid, dei busti ritrovati nella villa dei Papiri a Ercolano), quelli che “hanno percorso le terre dell’Italia meridionale e consolidato le relazioni tra le due regioni vicine del Mediterraneo”. Fu proprio cosi? Il Molosso e Pirro hanno fallito, l’invasione dell’Italia è sempre venuta dal Nord. Ma la storia si può riscrivere, è aperta a tutte le soluzioni.
Carmelo Malacrinò-Kostantinos I. Soueref-Luigi Vecchio, Dodonaios, MArRC Cataloghi, pp. 355 ill., € 45


mercoledì 5 giugno 2019

Letture - 386

letterautore


Ambiente – Una prima, e più eloquente, messa in guardia è in Ovidio, nelle “Metamorfosi”, nella favola di Erisittone. Lo spiega Anthony Doerr a Maria Egizia Fiaschetti su “7”, a conclusione del soggiorno al’American Academy sul Gianicolo a Roma dove “mi sono concentrato”, dice, “sul tema dell’utopia nel mondo greco”. Erisittone è il re che, per costruirsi una sala da pranzo, decide di abbattere un bosco di querce. Ma più attacca le querce con l’ascia, più quelle si fanno forti e grandi. Finché, sapendo di non poter resistere per sempre, implorano Erisittone di smettere. Nioente da fare: il taglio continua, fino a che le querce cominciano a sanguinare. Allora Demetra interviene e punisce il re: gli infligge una fame insaziabile, che lo costringerà alla fine a vendere la figlia, trasformata in animale. Alla fine sarà costretto  mangiare se stesso.
L’inquinamento come una forma di autofagia. 

Autenticità – Lo scrittore spagnolo Vilas al “Corriere della sera”: “Viviamo tempi confusi, l’autobiografia è una forma di autenticità”.
O non l’inverso? Siamo confusi perché ci guardiamo l’ombelico – magari attraverso i social, uno specchio, con Photoshop.

Dante – Sarà il santo dell’identità italiana, lui così irascibile e - benché (poiché) ghibellino, imperiale, unitario – chiuso, oggi si direbbe sovranista? Se ne richiede con insistenza la “giornata”: ci sono giornate ora per tutto, e il “Corriere della sera” lancia un Dante Day, come una volta c’era san Francesco patrono d’Italia, o la giornata di Colombo e la scoperta dell’America. Col plauso, pare, degli “enti che studiano il poeta”. “Dante è la nostra identità”, dice Paolo Di Stefano che ha lanciato l’idea. Un modo gentile per riappropriarsi dell’identità” che si vitupera nelle cronache? Per “liberarla” da Salvini e Houellebecq – ci sono di queste missioni?
Per cominciare a capire di cosa si sta trattando? Che  ci sono invasioni e invasioni: quelle coloniali e imperialiste, da aborrire certo, ma portavano la legge e le istituzioni (che solo aiutano i poveri, essendo lì per tutti), mentre quelle delle orde non apportano niente, solo furti e distruzione. Di fatto però Dante potrebbe essere un patrono identitario “pericoloso”: un sovranista feroce. Un campanilista anzi, cattivissimo con tutti, a cominciare dai bordi di casa, dai pisani, dai senesi.
    
Eccentricità – “L’eccentricità non è altro che la faccia visibile della libido che prende la scorciatoia verso l’oggetto desiderato”. È considerazione di Nicholas Blake in un racconto, “Un tiro azzardato”, del 1944, di un conte che ha scelto di vivere su un albero. Un precedente del “Barone rampante” di Calvino, e della trilogia? “Nicholas Blake” non è nessuno: Cecil Day-Lewis di suo, è stato poeta, romanziere, critico, docente a Oxford, padre dell’attore Daniel Day-Lewis, nel 1968 poeta laureato di Elisabetta II. 

Euripide – Fu anche commediografo. Suo malgrado? In “Elena”, nelle”Baccanti”. Aristofane lo sentiva concorrente, e per questo ne parlava male – Euripide ha brutta fama nell’antichità, per le cattiverie scritte sul suo conto da Aristofane? È più che probabile. Anche perché Euripide è radicale, critica e sbeffeggia pure le divinità. Mentre Aristofane al confronto è invece conservatore.
Una radice euripidea fu trovata a Pirandello quando ancora non era stato messo all’indice. In effetti, è più che un’ipotesi il prolungamento del dramma radicale - dell’interrogativo senza risposta – nell’ironia e nel ridicolo.  
Nietzsche – e con lui Michaelstadter – escludeva Euripide dal catalogo degli antenati, ne “La nascita della tragedia”, come colui “probabilmente già portavoce di una modernità distante dal sentire tragico”. Fin qui è la parte nota, la “modernità” di Euripide. Ma Aristofane lo criticava soprattutto - da conservatore cieco – come colui che “rivestiva di stracci i re”.

Giallo – È esercizio della mente, svagato. Come l’enigmistica – forse qualcosa di più, per gli ambienti, i personaggi, le storie? Si leggono e rileggono con gusto le inverosimili storie all’inglese, del whodunit, del chi è stato. Il tipo di storie, che non si ricordano ma si rileggono volentieri, antologizzate da Borges e Bioy Casares come “i migliori racconti polizieschi”, Intrighi improbabilissimi, il giallo senza indizi, la morte impossibile. Il giallo impegnato, all’italiana, di Manzini, di Camilleri, ugualmente non si ricorda ma non si rilegge, ed è anche faticoso. Perché legato all’attualità, a fatti contingenti, di cronaca, di impegno – Camilleri si salva per il colore (aggiunto dai film che Degli Esposti e Sironi ne traggono).

Italiano – Il lunfardo, idioma bonaerense, Borges registra in una conferenza ora compresa in “Il tango”come “composto in gran parte di parole italiane”. Il lunfardo è stato ed è il gergo della comunità italiana a Buenos Aires e Montevideo, spiegano i curatori di “Il tango”, trasmigrato nell’idioma argentino.

È un’identità forte, a giudizio di Jhumpa Lahiri, la scrittrice americana che ha adottato l’italiano come lingua. Perché l’italiano come nuova lingua, le si chiede spesso. Semplice, spiega  a Roberta Scorranese : una nuova lingua è un mondo nuovo. Lahiri, nata a Londra da genitori bengalesi, poi emigrati negli Stati Uniti, dove lei è cresciuta, ha fatto gli studi, ed è diventata scrittrice importante, per sua scelta da alcuni anni trapiantata a Roma, lo sa per imprinting. Il suo libro più importante, “Una nuova terra”, è sulle interculture, o identità divise-frantumate- rattoppate. Il mondo italiano è per lei particolare in questo: “Nella cultura italiana c’è un’empatia e una umanità che non trovo in altre architetture di pensiero”. Recente curatrice di una antologia inglese di 40 narratori italiani, sa di che parla. L’“italianità” ritiene forte: “C’è una italianità meno visibile ma ugualmente forte che trascende lingua, origini, colore della pelle. Ed è interessante, molto interessante”. Contro “i paletti” che da qualche tempo si vogliono erigere contro “persone, cose, concetti”, argomenta anzi che proprio l’italianità verrebbe a perdere: “Sono un po’ italiane quelle persone che nel mondo studiano e amano la vostra lingua – e, credetemi, sono tante” – nonché “quelle persone che sono venute qui e qui vivono da anni”, e altri che forse pensano di venire ma “già si sentono di appartenere a questo mondo”. Una identità forte, a giudizio della scrittrice. 

Proust – Tanto arguto e misurato nei pastiches e la saggistica, anche nella sterminata corrispondenza, tanto prolisso, e esagerato, perfino ridicolo, confuso per troppa esattezza, con personaggi più manichini che vissuti, nella “Ricerca”. Poco flaubertiano. Per niente tolstojano, volendo confrontarsi con “suo” mondo aristocratico – la differenza è tra un mondo proprio (Tolstòj) e uno che si vorrebbe ma non è proprio, snobistico? Senza peraltro l’urgenza morale dell’altro prolisso, incontrollato e confusionario, Dostoevskij.
Cosa c’entra Proust con Tolstòj, o Dostoevskij. Nulla, ma lo si vuole altrettanto “epocale”.
La ricerca è “epocale” di Proust, non di Parigi, per nessun senso, tanto meno della Francia: non è un romanzo storico, certo, è un romanzo di costumi, ma in soggettiva, e posticcio, molto.

Ha molti critici – molta critica buona, e anche ottima. Per la scrittura elaborata, forse – la “lunga durata” non è sua, e non è del romanzo, fatto di materiali (personaggi, situazioni) friabili. Nessun carattere forte, una figura appassionante, un nome epocale.
Ma soprattutto ha gli “incondizionati”: fedelissimi, citatori, magnificatori. Mentre è incongruente e esagerato, ridicolo. Uno che mena il can per l’aia, se la cosa significa qualcosa: non si può “ritagliare” un personaggio in mille pagine, tipo Albertine: sguscia, non si prende, non “significa”. Non è andato oltre la brutta copia, “Jean Santeuil”, che nell’incompletezza mostra scoperta la trama: come romanzare la vita quotidiana, le visite, le vacanze, le mamme, le zie, possibilmente titolate, ma di un Santeuil qualsiasi, senza carattere – nella “ricerca ha solo quadruplicato il brodo.

letterautore@antiit.eu

L'amministrazione è abolita

Si sono abolite le province , sostituendole con i consigli metropolitani o altre istituzioni che nessuno conosce né sa come farle funzionare. Abolendo con questa magnifica riforma, ormai da quattro anni, il mantenimento delle strade e le scuole, e l’assistenza ai ceti deboli. Poi dice che gli italiani votano contro le riforme: l’indigenza è dello Stato. Ma nello Stato del  Parlamento, pieno di analfabeti politici (per non dire di amministrazione). Che fanno leggi  di cui non conoscono la portata, e non le dotano dei necessari regolamenti di applicazione.
L’amministrazione in particolare è abolita, la Funzione Pubblica. Buona e cattiva. Non si nemmeno più che cosa è: come spendere, quando, dove, cosa. Si commissariano in compenso i Comuni nel nome della buona amministrazione, quando invece si sa che è mefitica e luciferina, distruttiva: diciotto mesi di commissariamento, che il Comune deve pagare svenandosi, e una città, un paese, non si riprendono per dieci anni, dalle buche ai tombini intasati, alla spazzatura e agli abusi. Giusto per la carriera degli impiegati delle prefetture. Che sembra assurdo, e lo è. Ma è vangelo.
È la maledizione del novismo. Su butta giù il vecchio, dicendolo corrotto. E si mette il nuovo, che altrettanto corrotto, a Roma e a Molano, tra i 5 Stelle e nella Lega, e per di più ignorante. Poi si dice l’identità: l’identità è la stupidità – si vorrebbe dire mascalzonaggine, ma è stupidità.

Niente professori, niente medici

Mancano professori all’università e medici negli ospedali. Mentre dottorandi e medici, anche specialisti, sono emigrati e continuano a emigrare a decine di migliaia ogni anno: l’Italia li forma a perdere. Per un’assurda concezione dell’economia come contabilità, che si è imposta con i tagli lineari di Tremonti quindici anni fa. Un artificio ragionieristico, che poi non è  stato corretto e non si riesce a correggere. Malgrado i gravissimi danni fatti e che sta facendo: la perdita di competenze o capitale umano: lo shortage, pensare, di professionisti.
Con gravi sprechi nella sanità. Le Asl erano nate per sprecare soldi, e si può pensare che non sappiano fare altro. Ma nel caso del personale – oltre i medici mancano gli infermieri – no. Non per colpa loro. Non è colpa loro se il dottore romeno o slovacco che accetta l’incarico si fa pagare con i parametri italiani, le leggi sul lavoro si vogliono giustamente rigide, ma non sa la lingua, non abbastanza, e ha bisogno dell’interprete. Ed è giustamente precario,.per scelta cioè, lasciandosi libero in ogni momento di ritornare a casa. Ciononostante il numero chiuso a Medicina è il più ferreo. E anzi le facoltà si gloriano di test d’ammissione volentieri astrusi, per fare le ammissioni cioè col pallottoliere, a quei pochi a cui capita di barrare la casella giusta.


La Guerra di Troia di fece per niente

Una commedia degli equivoci – quasi plautina, senza il cachinno. Elena non è andata a Troia,  ci ha mandato una sosia, gli Achei hanno fatto dieci anni di guerra e distrutto un mondo per nulla, Menelao e Agamennone, gli Atridi, sono due imbecilli, è in Egitto che Elena ora si trova, alla foce del Nilo, dove un re locale brama di impalmarla, benché in avanti con gli anni, e con una figlia lontana che ora non troverà più marito, essendo anche lei avanti con gli anni, se non che ci capita Menelao naufrago, dopo sette anni di peregrinazioni, e la coppia si ricongiunge, mettendosi infine in salvo nella Sparta originaria per le astuzie di lei. Peggio; non è Elena che si è sottratta al regalo di Afrodite a Paride, è Hera, che si è voluta vendicare di Afrodite,e ha mandato a Paride un simulacro: gli dei sono stupidi e gelosi, anche loro. Le battute comiche si sprecano.
È anche una commedia al femminile. Le donne sono intelligenti e sensibili, anche strateghe, gli uomini balordi. La regia di David Livermore accentua i toni, fino all’omofobia. Il coro, solitamente femminile, è fatto di omaccioni seminudi. Il ras egiziano che vuole impalmare Elena è un vanesio settecentesco, nell’abbigliamento e il tratto, un rididule. Minuetti e passacaglie sottolineano alcuni passaggi.
Livermore ha anche adattato la nuova traduzione, di Walter Lapini, a un ritmo più veloce, andante con moto. Senza “saltare” i passaggi, la recitazione c’è tutta nel testo originale – eccetto un paio di gag - ma modernizzando i giri di parole delle traduzioni alla lettera.
Una sorpresa, forse filologicamente non sbagliata. La regia è composita, Livermore usa tutti i registri, anche l’appassionato e il giusto – molto si dice in tema di giustizia – accanto agli equivoci e alle gag cabarettistiche. Poche per la verità, ma danno il tono – fanno sapere al pubblico, solitamente inteccherito a queste rappresentazioni classiche, che si può ridere. L’egiziano lamenta “il pianto Greco”. La sua serva blocca Menelao profugo con la scopa sul bagnasciuga, sillabando “da noi\  i porti\ sono\ chiusi”  (applausi). Poi si fa una canna, accesa con l’accendino, e la compartisce col profugo (applausi). Ma è teatro.
Una serata di teatro. Anche per la novità di una platea non oscurata, se non a mano col tramonto: il teatro così è diverso, gli spettatori fanno anche loro spettacolo.

Gli aficionados non apprezzano, si sentono commenti delusi. Ma tragedia e commedia non sono due facce della stessa moneta? L’epica se ne distingue, ma Euripide non vuole assolutamente essere epico, è piuttosto un social scientist.
Euripide, Elena, Teatro Greco, Siracusa

martedì 4 giugno 2019

Sexy war

Il rap volgare degli Stage Fright va a tutto volume. Leandro arriva in decappottabile sgommando, lascia la macchina in seconda fila, salta giù con una piroetta... No, scende dall’autobus con la borsa delle scartoffie ciondolante. Attraversa la strada, verso il marciapiedi isolato, sul quale ancheggia una ragazzina. L’aggredisce, le strappa la maglietta, la mette a gambe all'aria... No, se ne tiene a un paio di metri.
È l’ora del rientro. Melinda, mezza punkie mezza grunge, jeans scuciti ma collanti, capigliatura folta, brillantino all’incisivo, lo guarda dal balcone, nel palazzone di dieci piani. Una vecchietta semicieca gli intralcia il passo. Leandro la butta giù col rovescio della mano, le strappa la borsetta, il portamonete... No, le sorride mellifluo, piegandosi in due, le indica la direzione per attraversare. Fa per entrare nel portone, guarda l’orologio, guarda furbetto in su.
Melinda si ritira furente dal balcone. Butta per terra le pratiche di Leandro. Scompiglia l’ordine meticoloso delle sue piantine. Si guarda e si compiange. Leandro entra. La chiama, s’infuria, le dice “troia!” e “strega!”, spazza via i soprammobili e le gioie, distrugge le foto in cornice... No, entra a ritroso, una mano sugli occhi, fa “cuccu!” e “Dinda non ti muovere, il tuo amore cieco ti ritroverà”. Si diletta di giochi di prestigio. Nel palmo della mano sugli occhi tiene uno specchietto con-vesso con il quale guarda all’indietro.
Melinda esce indispettita, sbattendo la porta. Leandro la insegue, l’abbranca per il petto, “te le sgonfierò, queste zinnone!”, lei si divincola, lui la placca sulle cosce, la butta giù sul pianerottolo, la prende a calci... No, Leandro la cerca diligente in ogni stanza, incolpa il vento e il gatto, raccatta le carte, rimette in ordine i vasetti e si appresta a fare la solita doccia per “lavare via il lavoro”.
Al cancello della scuola attende il figlio, lo vede venire prepotente, tormenta le ragazzine, obbedito dai ragazzini, un capo... No, il bambino è alle sue gambe e aspetta che lei se ne accorga. Succede quando una ragazzetta passa davanti e gli fa la linguaccia. Il bambino è magro, tranquillo, con i denti grandi e la voce di naso. Non si dicono nulla, in macchina fino a casa.
Leandro li aspetta al balconcino, con grandi saluti. Melinda accompagna il bambino all’ascensore e lo lascia:
- Sali, adesso arrivo.
Ora sono stanchi tutt’e due. Hanno letto il giornale, visto i cartoni animati:
- Ma quando torna la mamma?
- Non t’ha detto dove andava?
- No. Non credo.
Mangiano. Il padre dice:
- Sarà andata dal dottore.
Il bambino lo guarda:
- Da quale dottore? Mamma ha sempre un dottore.
È insolente anche la mamma di lei, cui lui si rivolge per avere notizie:
- Sarà andata al cinema. Che vuoi che ci facciamo noi? È adulta, siete adulti, datti una mossa.
Ma lei ha già telefonato alla madre che vuole tentare la sua strada, con i Sexy War:
- Voglio cantare, voglio ballare, sono una show-girl. Non posso sprecare la mia vita con un marito inetto e un bambino deficiente. – Lo ha detto mentre faceva l’amore furiosamente a un ragazzo barbuto.
Quando lei si calma, lui si fa una canna. Lei lamenta la situazione, il ragazzo la guarda perplesso. Lei ha deciso di andare via con loro:
- Farò la ragazza del gruppo. Il culo ce l’ho ancora. Le tette, tocca. - Si abbassa per eccitarlo di nuovo.
Il ragazzo ne parla con un altro membro del gruppo. Entrambi non sono contenti, ma l’amico infine conclude:
- Può servire. Lascia stare le spese.
Un anno è passato, i ragazzi ancora se la fanno a turno, ma di cantare non se ne parla. L’unica incombenza che le lasciano è portare la roba. Anche quella degli altri. E quando non è precisa prendere calci e pugni. Il capo lavora con la droga, ne è corriere per via delle tournées, ricattato con la fornitura della roba e con i debiti.
Il bambino è in collegio. Dove irrobustisce il carattere. Fa  dispetti alle madri che vengono a trovare i figli. Quando viene suo padre i giorni di festa si annoia:
- Come si sta qua dentro?
- Non si sta male.
- Ancora per poco, vedrai, poi ci sistemiamo.
- Non ti preoccupare per me.
– Poi, quando torna la mamma…
- Ma la mamma non c’è più. - Anche la madre di lei lo insolentisce, in quanto cornuto e incapace di tenersi una moglie.
Leandro vive solo. Per occupare il tempo vuoto si mette in politica. Non avendo idee, è accettato. E malgrado la musoneria è corteggiato. Ma l’attirano solo le donne decise e volgari. È stato testimone per strada di una scenata tra una puttana di colore, forse brasiliana, e un protettore, o cliente. Ne ha incamerato alcune espressioni, gesti e pose più che parole. Quando le ragazze, molto per bene, al lavoro o in società, gli fanno la corte, immancabile l’una o l’altra di quelle espressioni insorge, con sua sorpresa.
Alle elezioni Leandro appare in televisione. Lei mugola irridendo. Il capo ha all’istante un’idea: incastrarlo. Fa in modo che la roba consegnata alla donna risulti diminuita di peso. Poi la minaccia:
- Ci vogliono cinquanta milioni. Stronza! Ci fai ammazzare tutti. – E giù ceffoni e calci, la fa saltare come un cencio.
Il barbuto protesta. Il capo insiste:
- Quel linguetta ci può essere utile. Abbiamo bisogno di entrare in politica. Senza protezioni resteremo alle balere. Niente Rai, niente soldi.
- Perciò la vuoi ammazzare?
- Si è divertita? Faccia almeno una cosa, faccia qualcosa. Non le ho mica chiesto la luna, cinquanta milioni.
- Per lustrarti il culo.
- Ma è un modo come un altro per agganciarlo. Poi non potrà non fare tutto quello che ci serve. Che gli chiediamo? Quello che tutti hanno dando via il culo.
Lei l’aspetta al rientro al suo solito orario, coperti i lividi col cerone, dopo un tiro che la fa stare in palla. Lui la sorprende: risponde deciso, cattivo. Le parla come parlerebbe alla puttana brasiliana. Che è con lui, e la sgama. La chiama drogata e finisce in rissa, col barbuto e il capo che aspettavano all’angolo.
Il gruppo va dentro, lei in ospedale, in crisi di astinenza. Lui le è vicino. Lei lo vede che si fa l’infermiera. Non proprio, la palpeggia, ci prende appuntamento. E anche dopo, quando è in comunità per disintossicarsi. Lui viene in visita, per scherzare manesco con le altre ragazze e le assistenti sociali. Il figlio non c’è. Nessuno se ne occupa, né lui se ne preoccupa.

Dick e le vite bruciate sulla strada


 “Sulla strada” prima di Kerouac – che il romanzo aveva scritto ma pubblicherà tre anni dopo. E “Gioventù bruciata”, il film con James Dean, che verrà l’anno successivo, 1955. Tutto già scritto, ma rimasto inedito fino al recupero postumo, sulla cresta del successo deli Dick fantascientifico, con monumento di Emmanuel Carrère. Con una storia d’amore tradizionale al centro, tra un adulto che a ciqnuant’anni si ritiene vecchio, e una ventenne. Tradizionale ma cesellata con finezza, in un mare di disadattamento. La gioventù post-bellica, finito lo stato di necessità, negli anni di Eisenhower, non sa essere felice – non sa essere. È anche un’America sguarnita dentro le mura di casa, orripilante. Da cui bisogna solo scappare: da qui le avventure, minime, al caso. Qui non si “fuma” né si “tira”, ma si beve molto. Impressionante anche per l’anticipazione dello stato attuale della donna americana, all’ombra del #metoo, o troppo stupida  (furba, violenta) o troppo inviluppata.
Gli stessi giovani disorientati. Gli stessi fondi, be-bop quasi beat. La stessa scrittura, frammentata e semplice, di superficie. Un romanzo del 1954 – “Sulla strada” esce tre anni dopo – rimasto inedito (la prima pubblicazione è 1987) per il modo di fare di Dick, che non accettava correzioni – consigli redazionali – e non ritornava sul già scritto. Uno dei tanti insuccessi che lo indirizzerà alla fantascienza, come genere minore, e quindi più facile da pubblicare, e quindi da guadagnarci qualcosa. Dick non è nato scrittore di fantascienza. Vi si è adattato perché aveva bisogno di guadagnare e i romanzi seri (mainstream) non glieli pubblicavano. Questo fu a lungo discusso da una importante casa editrice, che propose anche adattamenti, ma poi restò inedito. Con una parte centrale piena di ottime conoscenze musicali, che ancora oggi fanno testo criticamente.
La “generazione perduta” in realtà era solo diversa: una generazione di giovani insolitamente maturi, in qualche modo più adulti deie genitori.  Schietti, senza pietà, non riuscivano a rispettare niente e nessuno. In cerca di un qualcosa di abbastanza reale in cui credere: di qualcosa di degno del loro rispetto”. Immaturi rispetto agli adulti, che avevano il diritto di giudicarli, in famiglia e nei media, ma non erano granché: ubriaconi, pieni di sé, violenti.
Due dotti saggi, l’introduzione di Carlo Pacetti e la postfazione di Tommaso Pincio, sistemano “Mary” nella biografia e nella produzione dickiana. Ma la metaviglia di questo “inedito” è la sua storicità, non si ripete abbastanza: Dick vi racconta per primo la gioventù”bruciata” dell’America anni 1950, comprensiva di Eisenhower, la Bomba e la Russia. In dialoghi svelti, di passioni fugaci. Quella centrale è di Mary, ventenne ragazzina quasi groupie, per un gigantesco cantante be-bop, tanto prestante quanto assente. Una ragazza che perciò passa da rapporto a rapporto, voluto o violento, senza piacere – dove lo prova, lo rifiuta - e senza costrutto. La prima delle tante vite “perdute” o “bruciate”, non sapendo dietro che cosa, solo per inquietudine.
Philip K. Dick, Mary e il gigante, Fanucci, pp. 263 € 6,90

lunedì 3 giugno 2019

Ombre - 465

Conte che minaccia una svolta o mi dimetto è più patetico o pericoloso? Un presidente del consiglio che annuncia le dimissioni del governo.

Bizzarro patrocinio il “Corriere della sera” offre a Jens Weidmann, il presidente merkeliano della Bundesbank, come successore di Draghi alla presidenza della Banca centrale europea. Di cui non può non ricordare la lunga serie di atti ostili contro la stessa Bce e contro l’euro – trascurando le pressioni contro il debito italiano, che tanto sono costate e costano al Tesoro, e la (non) unione bancaria europea. Quello che più di tutti ha usato gli assetti europei a pro della Germania. Una candidatura doppiamente peregrina, perché Weidmann non può essere e non sarà il nuovo presidente della Bce.

“Violenze, social, ecco la società senza genitori”: Massimo Ammaniti rivuole indietro la famiglia: “I figli sono considerati problemi, impegni, condizionamenti, in conflitto con la realizzazione dei propri desideri”. C’è, al più, il figlio unico, senza fratelli né sorelle, senza zii, senza cugini. Ma non si voleva la scomparsa della famiglia? Il postumano, la promiscuità, il sesso come trastullo. O è la filosofia in mano agli indotti – ai semplici(sti)?

“Trecento ragazzi” in un liceo a Palermo “e non uno che conoscesse Coppi e Bartali”, lamenta Cazzullo sul “Corriere della sera”. E non ha mai presenziato a un esame di Storia contemporanea, a Lettere o Scienze Politiche, dove non molti sanno di Garibaldi – per non dire di Mazzini. La memoria si va assottigliando, e forse non per colpa della scuola.

Cane non morde cane? Come no, forse in antico non c’erano i giudici, cattivi come nessun altro. Non delinquenti, perché loro sono dalla parte del giusto, ma cattivissimi. Ora, in pausa dopo le elezioni dall’attacco al mondo, si azzannano fra di loro. Accusandosi delle peggiori porcate. La fantasia non fa loro difetto, ma solo nel senso “piccolo, brutto e cattivo” – si vendono per un anello, o si accusano di vendersi per un anello.

Walter Veltroni, tourné  uomo di scena, intervista Pippo Baudo, tourné  memoria storica della nazione. Non c’è proprio più religione. Oppure: che si fa per apparire.
Dei due, lo statista tardo cronista, e il presentatore vegliardo, questo ne sa di più, anche di politica, fine. O: il democristiano è superiore.

Carlo Bonini e Marco Mensurati “documentano” su “la Repubblica”, sulla base di una mail di “un uomo di fiducia del presidente Pallotta”, che De Rossi, Dzeko, Manolas e Kolarov manovravano per cacciare dalla Roma Totti, il direttore sportivo, e l’allenatore De Francesco. Può essere tutto falso. Ma i tre sono finiti fuori della Roma: De Francesco, il direttore sportivo Monchi, e De Rossi – De Rossi invece di Totti. Forse l’“uomo di fiducia” di Pallotta voleva dire che Totti manovrava contro De Rossi? Giornalismo? Sì, non c’è altro.

Il giornalismo investigativo si trincera dietro fonti “confidenziali”. Ma qui si sa che “l’uomo  di fiducia” di Pallotta è Franco Baldini. Che non ha mai fatto vincere nulla alla Roma, di cui è stato direttore. E ora dice di stare a Londra ma continua a manovrare contro la Roma, che pure sarebbe la sua squadra – dopo avere manovrato felicemente contro Moggi e contro la Juventus. Le fonti sono importanti nel giornalismo, anche se non ci sono “pentiti”, fonti cioè tarate.

Gattuso si licenzia invece di farsi licenziare, per sgravare il Milan di due anni di ingaggio. Un gesto nobile più  che onesto – era onesto prendersi due anni di ingaggio senza lavorare, dopo tutto quello che Milan e Milano gli hanno buttato addosso. Ma Milano non se ne accorge: se non c’è guadagno non esiste. È la sola morale dell’Italia milanese.

Si fanno molti conteggi sulle Europee, in chiave di ring, Salvini-Di Maio. Sfugge che il centro-destra ha avuto quasi il 50 per cento dei voti – che se corresse unito in un’elezione politica, con la legge elettorale in vigore, gli darebbe una maggioranza del 60 per cento in Parlamento. Il paese è tornato a destra, dopo il quinquennio che Napolitano ha voluto Democratico, con l’appoggio dei berlusconiani. E dopo la breve fiammata grillina.

“I cosiddetti eurocrati”, spiega Ernesto Maria Ruffini su “L’Economia”, “in realtà sono meno dei dipendenti della Regione siciliana, e pesano sui conti europei meno di quelli del Comune di Roma sul bilancio della città (21 per cento)”.

Si assolve Chiara Rizzo Matacena, accusata sei anni fa di fuga di capitali o qualcosa del genere. Con arresto spettacolare in Francia a opera della Procuratrice capo di Aix-en-Povence, e traduzione  in carcere in Italia, sulla base di una notizia letta sui giornali, senza nemmeno una richiesta della Procura italiana che indagava. Forse perché è una bella donna e la Procuratrice di Aix non lo era. Però: poi si dice che l’Europa non esiste.

Si fa grande scandalo per una insegnante sospesa a Palermo per non avere sorvegliato (censurato) un video degli studenti in cui il decreto sicurezza del governo veniva equiparato alle leggi razziali di Mussolini. Come dire: il Parlamento della Repubblica è un Gran Consiglio, o  come si chiamava il finto Parlamento di Mussolini. Ma non si dice che la scuola della professoressa si intitola a Vittorio Emanuele III, quello delle leggi razziali.
 

Il giallo divertente

Una raccolta di gialli all’inglese, gradevolissimi - alcuni autori in antologia sono americani, ma la ricetta  è quella. Come i ricchi e ricchissimi truffano le assicurazioni. I delitti sempre impossibili. La colpevolezza individuata senza nessun indizio – il Novecento inglese si è molto esercitato contro Sherlock Holmes. Alcuni autori dell’antologia sono americani, ma la ricotta è quella.  
Il racconto del whodunit, chi è stato, funziona sempre. Perfino quando, come spesso in questi racconti, è alambiccato. Si fa sempre un po’ di confusione coi nomi, che non si sa a chi corrispondano, non ci sono veri personaggi, caratterizzati, ma il divertimento è assicurato. Perfino quando, come in molti di questi racconti, la regola di seminare strada facendo l’indizio decisivo, viene trascurata – si può farne la prova rileggendo: la chiave spesso manca. Ma è lo stesso il tipo di “giallo” che meglio si legge: neanch’esso lascia tracce ma almeno non mette di malumore.
Una raccolta originale di Polillo, cultore della materia. Una chicca le note d’autore. W.W.Jacobs, ex agente dell’intelligence militare, sposato con una femminista di vent’anni più giovane, è autore di “terribili personaggi femminili, vere e proprie virago”.

Delitti & Castighi, Polillo, remainders, pp. 300 € 7,96