sabato 22 giugno 2019

Il Texas perderà Trump – il Muro


Un candidato democratico ben calibrato potrebbe battere l’anno prossimo Trump proprio nello Stato repubblicano per eccellenza, il Texas. Al voto di metà legislatura sette mesi fa il senatore repubblicano uscente Ted Cruz ha sconfitto il candidato democratico Beto O’ Rourke per soli 2 punti e mezzo. In uno Stato dove tradizionalmente il partito Repubblicano conta su sei voti su dieci – ed è arrivato anche, con Bush jr nel 2004, a tre su quattro.
La presidenza Trump si è messa in urto con una serie di interessi texani. I proprietari terrieri, e le aziende agricole e agropecuarie delle aree di confine in primo luogo, ostili al Muro che Trump vuole costruire. Che romperebbe gli equilibri ecosistemici, e deprezzerebbe comunque le aree. Tutto il Texas inoltre ha relazioni privilegiate con il Messico, suo primo e di gran lunga maggiore partner commerciale. 
Il Texas, 29 milioni di abitanti, è la seconda economia americana dopo la California, 39 milioni di abitanti. E dispone di 38 voti elettorali alle presidenziali, o Grandi Elettori, molto meno dei 58 della California, ma decisivi se diventasse uno Stato oscillante. È anche lo Stato americano che più esporta, 264 miliardi di dollari nel 2018, contro i 172 della California. Anche verso il Messico. È infatti il primo staio agroindustriale, e con la componente forse maggiore dei settori elettronica, automotive (fabbriche Toyota), e aerospaziale.
Alle primarie del 2016 tutti i giornali texani erano, benché schierati pro Repubbicani, contro Trump.

Neri e ispanici decidono il presidente Usa


Dal 2008, la prima elezione di Obama, la scelta delle minoranze nera e ispanica è decisiva negli Usa, alle primarie e al voto presidenziale. Sono il voto “marginale”, che fa oscillare la vittoria verso questo o quel blocco politico tradizionale.
Il voto minoritario non è però “strutturato”. La partecipazione al voto sia dei neri che degli ispanici oscilla fortemente. Per motivazioni non individuate. Il voto nero afroamericano si è mobilitato sempre per Obama, sia alle primarie 2008 che alle presidenziali 2008 e 2012. Ma non per Hillary Clinton. Non alle presidenziali (la percentuale di astensione è stata forte tra gli afroamericani al Nord), mentre era stato decisivo per lei alle primarie, contro Sanders che invece aveva solo il voto dei bianchi.
Alle presidenziali Hillary Clinton, dando per scontato il sostegno nero al Nord, si è mobilitata per gli ispanici, a New York e al Sud, Texas e stati limitrofi. Ma il voto nero si è astenuto. Le due minoranze, benché omogenee dal punto di vista socio-economico, sono in concorrenza su base etnica.
I deputati afroamericani sono decisivi per la maggioranza Democratica alla Camera dei Rappresentanti, 53 su 235 deputati – la maggioranza è di 218.

I figli al supermercato


Una novella tutta al femminile, su una clinca di lusso create da investitori ardimentosi e avidi  per la produzione di figli in surroga. Con molto razzismo sottostante. Quale si presume dell’avida finanza – Ramos è un’americana di origine filippina  ex redattrice di “The Economist” a Londra e poi banchiera d’investimento. Ma anche tra donne.
Me You, giovane imprenditrice cinese laureata alla Harvard Business School, gestisce la clinica in un’ottica di “sviluppo”: più nascite, più care. Con madri possibilmente “non nere”, che incentiva meglio. Non cattiva: alla fine prenderà una filippina, madre surrogata per bisogno che però non è riuscita a risolvere il suo problema, come bambinaia di suo figlio, fornendola di un alloggio dove potrà crescere la sua propria figlia senza doversi più “affittare”.
Un “caso” più che un racconto, anche se diversi destini femminili si intersecano. Di uno squallido supermercato della generazione umana, benché costoso. Proposto come un caso di “lotta di classe femminile”, nel ventre della donna. Ma attraente come una sorta di futuro tra noi, o di un’umanità comunque prossima futura, dei ricchi che si pagano i figli. Una “Guerra dei mondi” autogena, per disseccamento.  
Joanne Ramos, The Farm, Bloomsbury, pp. 336 € 14,55

venerdì 21 giugno 2019

La Lega dei prefetti


La bocciatura della Corte costituzionale rivela che il capo della Lega, Salvini, voleva delegare tutti i poteri ai prefetti. In deroga. Dalla stessa costituzione.
Salvini è il capo di un partito che era nato all’insegna del decentramento. Proprio contro il potere dei prefetti. Istituzione post-unitaria, di fine 1861, che sostituiva i governatori – autonomi, locali – delle province richiamandosi a Napoleone. Una funzione quindi virtuosa per definizione. Se non che il prefetto napoleonico è solo il braccio locale del potere, e l’istituzione finì male già a fine Ottocento, come braccio “armato” di Crispi e di Giolitti, i presidenti del consiglio più ambiziosi, poi sotto Mussolini, e infine con le Madonne alle prime elezioni repubblicane.
La Lega delle autonomie è di fatto quella del centralismo – del potere. Non è una novità: prima che con Salvini, aveva già privilegiato il ministero dell’Interno, cui i prefetti fanno capo, con Maroni. Il decentramento intendendo solo come una riserva di appalti, sanità, energia, ambiente, i settori ricchi. È un problema della Lega, anche se la coerenza qualche virtù in politica ce l’ha. Ma è una Lega che avalla e anzi patrocina una funzione autoreferente del corpo amministrativo: i prefetti lavorano per il potere delle prefetture. Sostituirli ai sindaci sarebbe stato un delitto doppio per questo. Più che per il Capo del dicastero, le prefetture lavorano per il proprio tornaconto: gli incarichi (sono commissari di tutto, dopo avere tutto commissariato), gli appalti (attraverso i non-appalti, arma totale), e i “non possumus”, “non licet”, e altri artifici burocratici – del fare attraverso il non-fare.  

La strada dei cattivi pensieri

“La spiaggia di Falesà non esiste. Quella di Campo di Mare sì”. Ai settanta verso gli ottanta non ci si può più illudere. E Pecoraro, che di professione e mente è architetto, anzi no, storico dell’arte, lo spiega in dettaglio sotto forma di progetto, “avendo tempo libero, di ricostruzione/restituzione, storica e non” del suo quartiere romano, “lo Stradone” che sale dal Vaticano.
Una “storia geografica”, del “Quadrante”, detto anche Valle Aurelia o dell’Inferno, su per il monte di Argilla, nella parte denominata la Sacca, abitata da uomini  e donne che “veramente credevano in un mondo diverso e comunista”,  che ha fabbricato Roma, antica e moderna, per lo più a opera di architetti e artigiani ticinesi, con le sue fornaci, toponimo ancora resistente anche se il forno Hoffmann & Lich , “tra la fine del Diciannovesimo Secolo e l’inizio del Ventesimo, quando giù tra le colline di argilla si erano insediate una cinquantina di fornaci”, le mise fuori gioco. Poi anche Hoffmann è finito abbandonato, il foratino avendo preso il posto del mattone. Nella “grande macchia d’olio che chiamano la Città di Dio” – di olio esausto?
Una storia edilizia? Un (lungo) sbocco di malumore. Al tempo dei bilanci, ma non saggi, non rassegnati cioè, anzi piuttosto incattiviti: “Ho fallito anche nella carriera impiegatizia, oltre che nei rapporti affettivi, nel riprodurmi, nel convivere, nel matrimonio, nel tradire, nell’essere tradito, nella lotta alla blattella germanica, in tutto. Adesso sono in pensione. Faccio un cazzo”. È l’occupazione  del “tempo libero” del pensionato, che ne ha molto, il racconto “dell’osservazione diretta dei fenomeni esodomestici, della micro-storia evenemenziale sotto casa”. Opera di “uno dei tanti piccolo borghesi intellettuali falliti”. Cioè scontento di sé? Statisticamente è tutta piccolo borghese l’umanità urbana - e anche quella di paese, iperconessa anch’essa. Intervallata da sapide annotazioni alla Verdone di cose viste\sentite.
Una costruzione originale. Seppure in selfie, col grand’angolo, col fisheye e tutto. Politicamente ipercorretto. Con la nostalgia\rivendicazione dell’essere comunista – la deriva socialista essendo finita in “un mesetto di carcere”, per essere passato contemporaneamente al ministero tra “quelli che prendono i soldi”. Anche quando il Partito vuole il borgo distrutto con le ruspe per costruirci i palazzoni popolari. Con Lenin onnipresente, di fronte, di profilo, e anche di dietro, guardandone la nuca - con masse di anarchici che nelle papaline fornaci lo attendono, anche se non lo conoscono, nelle due ore che il futuro bolscevico ha passato a Roma, fra un treno e l’altro. Ma poi non si capisce: di Lenin si ricorda che il “socialista Mussolini” definì “come «l’unico capace di fare una rivoluzione in Italia», previsione avveratasi”, due cose non vere. E dello Stradone si pone il dubbio se non sia “l’allestimento scenico di un reality a bassa intensità”, la solita vita che imita l’arte.
Una storia in agrodolce, si sorride – anche di Lenin, che il nemico Bogdanov ha battuto agli scacchi, ai bagni di Tiberio, a Capri. Con alcuni repertori. Il “falso” iniziale – che  farebbe crollare di like la stessa facebook, patria dei falsi. Roma “città di turisti”, eccetera. L’essere anziano. Un po' di voyeurismo, con la storia immancabile del rapporto in chat - che in chat viene meglio. E brevi incisi d’autore. La “mistica” dello sfasciacarrozze, delle micro-macro ammaccature. Il trotto rallentato del pensionato “con microcane”. Il figlio mancato, altra  sintesi svetoniana del presente a futura memoria (“prima avevo da lavorare, poi Clara aveva da lavorare, poi ero depresso, poi non avevo una lira, poi ho divorziato, poi ero ancora depresso, poi avevo ancora da lavorare, poi non avevo fidanzate, poi la galera….” – qui si sarebbe voluto sapere di più). La chimica del tramezzino, che rimanda a “diner con distributore di benzina a margine di strada americana che corre su prateria sconfinata”. Passando per il caffè di palazzata, “privo di qualità”, anche il luogo, oltre che la miscela, “come moltissimi bar della Città di Dio”. Aspettando che sulla via Olimpica passi - la domenica pomeriggio? il sabato sera? -  ‘a Squadaa, sul torpedone lampeggiante, sotto scorta vigile.
Una filippica piana, ma senza vie di fuga. Senza risparmiarsi-ci nulla: l’università come intrigo, il Maestro, il naufragio “nella stanza di un Ministero”, ai Lavori Pubblici, vincitore di concorso, addetto ai contatti con le Belle Arti, “con le dottoresse della Soprintendenza – tra le persone più ottuse del Pianeta”. Hombre del Partido, anti-americano il giusto.
Tutto vero, probabilmente. Eccetto che per la sabbia - ma è un errore comune: quella che la pioggia lascia sulle macchine non è “del grande deserto africano”, è della nube o fungo di polveri e gas che da decenni sovrasta immobile la Città di Dio – arrivandoci dal Sud all’imbrunire, all’altezza di Monte Porzio, quando si comincia a scendere, la nuvola di smog si vede immota sulla città, di cui segue con precisione millimetrica i contorni.
Notevole la fascetta editoriale: “La descrizione del nostro tempo più acuta, impietosa ed esilarante che avrete forse mai letto”. Eccetto che per il “nostro”: di chi? Il day-to-day del pensionato è una scommessa, rischiosa, rasentando le lettere dei romani (pensionati) a Paolo Conti o al “Messaggero”. Di una vita facile che si fa difficile, uscendo ogni mattina a confrontarsi con tutte le cose che non vanno, che sono tutte. Ce n’è anche per se stesso. Se non nelle forme del razzismo, sessismo e conformismo, in quelle del disincanto. Tutto vero, perché no, ma con un appunto, anche qui: chi è conformista? Lo scrittore no, è combattivo – o: si fa sempre in tempo a disperare. Specie Pecoraro, che fatti i settant’anni vuole raccontare un altro racconto, inedito anche come genere, anomalo, sulla scia del primo, “La vita in tempo di pace”.
La breve nota rimanda a una bibliografia tecno-storica-architettonica. Un epilogo la precede per dire che nei cinque anni di stesura del libro il terreno vago “attorno al rudere del vecchio Hoffmann è entrato in una fase di intense modificazione: costruiscono una singolarità commerciale”. Costruiscono un centro commerciale – naturalmente con restauro del vecchio Hoffmann, che sarà “centro culturale”, eccetera. E lo studioso dell’arte riemerge dalla pensione: “I centri commerciali sono la nuova agorà della città”.

Francesco Pecoraro, Lo stradone, Ponte alle Grazie, pp. 446 € 18  

giovedì 20 giugno 2019

Problemi di base culturali - 490

spock


Con la cultura non si mangia, non molto?

Non bene?

Ma senza cultura si mangia?

Le bacche per esempio?

E il pane?

La paura del nuovo non sarà un nuovo che fa paura?

spock@antiit.eu

Cronache dell’altro mondo (36)

Il gruppo editoriale Condé Nast (“Vogue”, “Vanity Fair, “Glamour” e altre riviste di svago) dà lezioni di socialismo: quale è buono e quale no. Dal punto di vista del socialismo.
Crolla il consenso ai Repubblicani nell’ultraconservatore Texas. A causa del Muro di Trump, contro gli immigrati e a difesa dal Messico. Sono contro il Muro i proprietari terrieri lungo il confine col Messico, di fattorie, di allevamenti, e anche gli sceriffi. Mentre il Messico è considerato ed è il maggiore mercato per tutto il Texas.
Ogni dodici minuti si uccide un americano – 48 mila sarebbero i suicidi nel 2018. Non è la cifra più alta, in percentuale della popolazione, altri paesi detengono questo record. Ma il tasso d’incremento annuo è molto elevato nel Millennio. Ed è un numero di morti, in un solo anno, più grande dei soldati americani morti in guerra nel Medio oriente tra il 2001 e il 2018, in Afghanistan e in Iraq. I morti per suicidio sono ora due volte e mezzo il numero degli omicidi, che pure negli Usa è elevato. I suicidi aumentano dappertutto – eccetto che in Nevada, che però aveva già un tasso di suicidi elevato, fuori e attorno alle case da gioco. 

Lou con Dio, senza Nietzsche

“L’esperienza di Dio” è la prima “esperienza di vita” di questo “schizzo di alcuni ricordi”, che Lou Andreas-Salomé ha redatto frettolosamente sui settant’anni, poco prima della morte – legandoli a Ernst Pfeiffer, l’amico che l’accudiva. Che partono dunque seriosi. È una storia personale che la psicoanalista Lou crea di se stessa. Alla “perdita” di Dio – non della divinità o del senso religioso delle cose -  ci arriva a ritroso, per “la difficoltà che provavo a sentirmi a mio agio nel reale – nell’ «assenza di Dio»”, ma senza mai perdersi.
Una serie di ricordi tutti targati “esperienza”. Assortiti da un lungo testo su Rilke, e memorie ricorrenti della loro “storia”, in Russia, a Worpspede, Duino, Vienna, Berlino, Parigi. Da uno breve su Andreas, il marito. Da due scritti altrimenti noti sui rapporti con Freud. E da un ricordo di vita famigliare, prima e dopo la guerra, sullo sfondo ancora il professor Andreas, l’uomo con cui aveva concluso il matrimonio “bianco”.
“L’esperienza di Dio” che apre la raccolta viene legata a “una forte regressione infantile e a un desiderio di attardarsi nell’infanzia”. Una “esperienza” che però l’ha segnata e la segna. Ad essa è legato il suo primo grande amore, prima che per Rilke: per il pastore olandese, luterano riformato, sposato, Gillot. Lei stessa lo ribadisce, con l’aneddoto del versetto delle Scritture, I.Thess., 4,11, “Fatevi un impegno di vivere in pace, di occuparvi delle cose vostre e lavorare con le vostre mani”. Uno dei 52 versetti, uno a settimana, appesi a calendario in un telaio di legno sopra il suo letto di bambina, che l’hanno seguita tutta la vita, con tutto il calendario e il telaio. Vanamente modificato da Nietzsche, che “volle sostituirlo on la frase di Goethe, «Perdere l’abitudine della mezza misura per vivere risolutamente nella totalità, nella pienezza e nella bellezza»”.
Non sono ricordi innocenti, Lou Andreas-Salomé andrebbe riletta, alla luce della “esperienza di Dio”. Filosofa e teologa si dice in queste tarde note, non psicoanalista, e le due passioni lega alla “esperienza di Dio”: “Ciò che mi ha più attirato verso gli esseri – i morti come i vivi – che si sono intieramete consacrati a questo genere di riflessioni, sono gli esseri stessi. Avevano voglia di esprimerlo con una moderazione tutta filosofica, si vedeva bene che, in un senso per così dire dinamico, Dio era stata la loro prima e ultima esperienza”. Che sembra abusivo, e lo è di Democrito, per esempio, di Lucrezio. Ma di Nietzsche è certamente vero.
È Dio, divenuto “invisibile”, “scomparso”, che determina tutte le “esperienze” nelle quali Lou Andreas-Salomé espone i capitoli del vero e proprio “sguardo” o ricordo: “esperienza di Dio”, “dell’amore” (per Gillot), “della famiglia”, “della Russia” (Rilke), “dell’amicizia”. Una “forma di fede” che Lou chiama “rispetto”: “Contro ogni logica, devo confessare che qualsiasi forma di fede, anche la più assurda, sarebbe preferibile al fatto che l’umanità perda ogni rispetto”.
Lo stile è diretto, la scrittura conversativa, quasi rispondesse a interlocuzioni, a domande che essa stessa si pone. Nietzsche si segnala per la quasi assenza.
Molto c’è anche il rapporto intimo con Paul Rée, benché non “matrimoniale” – Rée era detto dagli amici, non senza perfidia, “la demoiselle d’honneur”, di Lou bentinteso: vissero alcuni anni insieme, tendendo circolo, specie a Berlino, e a Monaco e Vienna. Di “grande taglia” dice di sé - anche chi l’ha vista con Rilke lo nota. Promiscua. A Parigi ha una storia con un emigrato russo implicato nell’assassinio dello zar Alessandro I, che la introduce nella comunità russa espatriata: con lui passa una vacanza in Svizzera. Vive anche con Frieda Von Bülow, a Monaco. Dove poi, incontrando Rilke, presentatole da Wassermann, la abbandona senza spiegazioni per convivere col giovane poeta. Con Rilke conviverà anche a casa, col marito dottor Andreas.
Molti i personaggi di cui abbozza ritratti: Max Reinhardt, Stanislavsky, etc. Rilke è il grande amore. Lei si fa vanto di avere ispirato anche molta sua poesia, “Il libro delle ore” e altri componimenti – vanto che Pfeiffer fonda con i riferimenti epistolari: molta poesia di Rilke è versificazione di lettere a Lou. La religiosità pervade, perfino pesante, anche il lungo saggio-colloquio post mortem con Rilke, “Con Rainer”. Di cui ricorda di averne fatto un personaggio del racconto “La casa”, col suo accordo, di un ragazzo che vive felice coi genitori.
L’edizione francese ricalca quella originale di Ernst Pfeiffer, molto più estesa dell’edizione italiana. Con un ricchissimo apparato di note, le prefazioni dello stesso Pafeiffer alle prime tre edizioni, che si sono venute arricchendo di nuovi materiali, e l’inclusione di altri scritti correlati, per il rapporto con Rilke e per quello con Freud.

Andreas-Salomé,  Sguardo sulla mia vita, SE, pp. 204 € 22
Ma vie. Esquisse de quelques souvenirs, Puf, pp. 315 € 13

mercoledì 19 giugno 2019

Ombre - 467

Fa impressione il concorso per “navigator” non tanto per il numero dei partecipanti o per le rinunce dopo la domanda di ammissione, che sono normali nei “concorsoni”, ma per l’inadeguatezza dei candidati: quasi nessuno sa che cosa va o andrebbe a fare - ci provano.

I “navigator”, che dovranno gestire gli uffici di ricollocamento al lavoro, dovranno essi stessi essere addestrati, con studi e tirocini. Si introduce una professione, il “navigator”, per la quale non esiste una preparazione specifica, andrà inventata. Un processo da incubo.

“Conversando di Bibbia e di fede con il cardinal Ravasi ho avuto l’impressione che padroneggiasse la materia più di Salvini” – Cazzullo ai suoi lettori. Però.


Trump critica Draghi per la riduzione dei tassi, che dice concorrenziale, per indebolire l’euro sul dollaro. Scandalo: come si permette? Ma solo in Italia. Altrove si capisce e si dice che Trump critica Draghi per avere dalla Fed una riduzione, piuttosto che un aumento come è in programma, dei tassi -  di fatto sproporzionati, a 0 sull’euro, al 2,50 sul dollaro. Per alimentare il boom su cui si basa la sua politica, mentre si apre la corsa alla rielezione. Informazione?

“A fine partita, vedere alcuni giocatori che ridono quando perdono…”, rivela Totti nello sfogo contro la proprietà della Roma. In effetti il calcio, che pure è sport di squadra, è diventato di primedonne e ballerine, anche senza piedi buoni: ognuno insegue il suo interesse personale, o immagine.

Nelle regole di Maastricht c’è anche l’obbligo di non superare il 6 per cento di surplus nelle partite correnti con l’estero, l’ex-import di beni e servizi. Questo vincolo, a differenza degli altri (il 3 per cento del deficit di bilancio, etc.), non si applica perché ogni anno lo viola la Germania, col satellite Olanda. Di tanto in tanto, ma in “brevi”, poche righe, ne fa cenno il “Corriere della sera”, per l’insistenza di Ivo Caizzi, fra tutti i corrispondenti d Bruxelles.

Quest’anno lo sforamento tedesco del vincolo del 6 per cento del partite correnti è stato lamentato da Christine Lagarde, cioè dal Fondo monetario internazionale. Ma solo perché Lagarde è candidata alla presidenza della Banca centrale europea, in concorrenza col candidato tedesco.
Nell’occasione il vincolo è stato scoperto anche dal commissario Ue per gli Affari Economici, Moscovici, lo stesso che finora lo aveva trascurato: anche lui è francese come Lagarde.

“Un investimento di diecimila euro nel decennale tedesco (Bund) oggi comporta una spesa di 300 euro” – “L’Economia”. Non è esatto: comporta una perdita di 300 euro. Più le spese (commissioni,custodia, eccetera), che in dieci anni possono superare i mille euro. Sembra una truffa, e lo è. Nella “banca obbligatoria”, con la scusa del riciclaggio eccetera, bisogna pagare, e caro, se si vuole risparmiare.

L’economia bancaria distrugge il reddito – il risparmio – invece di incrementarlo. Come ha fatto per secoli, forse millenni. È la novità che si trascura della cosiddetta globalizzazione: tenere i soldi in banca non più remunerati – in quanto si favorisce il credito, e quindi gli investimenti - ma a un costo, per di più obbligato.

“Migranti, il trucco tedesco. Sedati e spediti in Italia” ha annunciato “la Repubblica” a tutta pagina in  prima. Rispediti indietro dall’angelica Merkel. “la Repubblica” non sa quanti, comunque li dice  molti, duemila, tremila, forse diecimila. Ma niente scandalo, dice ancora il giornale dei De Benedetti: è tutta colpa di Salvini. che si è fatto truffare. Falla come la vuoi, sempre è cocuzza, diceva un proverbio meridionale. Ma la cocuzza Salvini già prende il voto di un italiano du tre, e forse di due su cinque.

Le tre stazioni principali della metro a Roma, dopo Termini, e cioè Spagna, Barberini e Repubblica, sono chiuse da mesi per l’inagibilità delle scale mobili. La cui gestione è stata data in appalto dai 5 Stelle appena insediati al Campidoglio – una delle loro prime preoccupazioni fu dare quell’appalto. Ma la Procura di Roma non si muove. Sarà che il nuovo capo della Procura dovrà essere, via Perugia e lo scandalo delle “correnti” dei giudici, uno “nuovo”? Cioè 5 Stelle, col placito di Davigo, il giudice che rivoltava i calzini.

Roma è una città piena di verde, che da anni non viene più curato – il Servizio Giardini essendo praticamente smantellato. Alcune ville sono curate, in qualche modo dai volontari di quartiere – la raccolta periodica delle immondizie, qualche riparazione minima. Poi ci sono “associazioni di volontari”, che si fanno pagare per operazioni quali l’apertura e la chiusura dei cancelli. Si fanno  pagare per la benzina, anche se ci vanno a piedi, i cancelli non sono molti. E per le uniformi:, l’apertura e chiusura essendo un atto formale, da “pubblico ufficiale”, o comunque riconosciuto. .

Quattro cantieri pubblici su dieci non partono, sono bloccati prima dell’avvio dei lavori, subito dopo l’appalto. La “concorrenza” apre subito una vertenza, per i motivi più diversi, basta bloccare il concorrente che l’ha avuta vinta, contando sui ritardi dei giudici per fare comunque vendetta. Nel nome della lotta alla corruzione, Che invece così si premia.
Gli appalti pubblici sono fatti nell’interesse pubblico, ma questo ai giudici non interessa, amministrativi o civili.

È diverso il peso dei partiti in rapporto agli aventi diritto al voto invece che ai votanti. In rapporto ai 51 milioni di elettori la Lega non raccoglie alle Europee il 34,3 per cento ma il 18. Si spiega la strana sensazione che si ha di non incontrare mai un leghista, o raramente, mentre dovrebbe essere uno su tre - su dieci avventori al bar, in coda al supermercato, alla Posta, tre o quattro dovrebbero essere leghisti. O di non incontrare mai un 5 Stelle - la sensazione è che non siano carne e ossa, solo social: ma perché sono solo il 9 per cento, meno di uno su dieci.

La felicità di Camilleri

La raccolta “a futura memoria” nella quale l’editore aveva radunato sei anni fa molti dei testi dispersi di Camilleri, fra giornali, riviste, convegni, prolusioni, lectio magistralia per le lauree honoris causa”, riedita in economica – la raccolta più indicativa e di miglior livello. Ricordi, riflessioni, anche in forma di saggio, specie le spericolate escursioni linguistiche, in occasione delle lauree, spunti, polemici e non, e qualche invenzione. Ma poi sempre il sottofondo di Camilleri è favolistico – “un contastorie”, come Carlo Bo lo definì, ricorda con orgoglio.
Di aneddotica inevitabilmente egocentrica, ma va bene lo stesso. Anche nel name dropping, gli accenni a grandi personaggi in qualche modo accostati, Robert Capa, Savinio, William Wyler. Un po’ meno professando il genere simpaticone, alla Montanelli. Capace di scrivere 25 pagine di contumelie sull’“italiano”. Escludendosi. Senza sofferenza. Senza consistenza – il suo è un “italiano” forgiato da Berlusconi, “sotto il mantello protettore di Craxi”. Ma in molte pagine non tutto può essere oro.
Talvolta non è indulgente, anche con se stesso. Molto ritorna il fascismo, la memoria di gioventù. Molto anche Pirandello, compaesano. Il rapporto con Sciascia, un’amicizia si direbbe di secondo grado, non intima, Camilleri non è fra quelli che lo chiamavano Nanà, dice molto sullo scrittore di Racalmuto. Con la “storia” del separatismo siciliano. Sempre irrispettoso con i Carabinieri. Con l’elogio, raro, di Guglielmo Petroni. E con alcune pagine “geniali”, sui colori cangianti di Roma, sulla Sicilia che era e non è più.
Al solito contestabile in tante certezze. La rivoluzione è giovane, dice sull’onda delle primavere arabe, ma è furibondo con la gioventù che governa l’Italia. Sempre felice, che non è poco.

Andrea Camilleri, Come la penso, chiarelettere, pp. 340 € 12


martedì 18 giugno 2019

Letture - 387

letterautore


Brexit – Gesumino Pedullà, fratello maggiore di Walter, antichista, confinato dal fascismo ad Alatri, alla Liberazione incontra in qualità di fiduciario del Cln gli inglesi di Montgomery. Che erano “inglesi, scozzesi, polacchi, indiani”. Il fiduciario del Comitato di Liberazione doveva trattare con due ufficiali in gonnellino. I quali però non erano scozzesi ma indiani, e un problema di lingua di creò, risolto provando il sanscrito, “che Gesumino aveva studiato con Tucci”. È uno dei racconti di W.Pedullà, “Quadrare il cerchio”, pp. 229-230.

Campanella –I 450 anni della nascita l’anno scorso sono passati inosservati. Nessun contributo, nemmeno di maniera. Su un personaggio che è stato autore “di più di cento lavori, qualcosa come trentamila pagine”, notava Luigi Firpo nel 1968, per i 400 anni. O per questo è inclassificabile? Firpo, che molto su Campanella ha lavorato, lo trovava al contrario ben lucido. E anche di buon carattere, scriveva sempre nel 1968: “Al di là del suo pensiero e dell’opera tanto ricca e varia, egli resta per l’Italia un raro esempio di tempra morale, un ruvido carattere inflessibile”. Insomma, se non altro per il carattere, avrebbe meritato - o è il carattere che esclude?
Naturalmente non c’entra il leghismo trionfante, Campanella avrebbe potuto benissimo essere ricordato a Napoli o in Calabria o altrove, magari dalla stessa chiesa che per quarant’anni ha perseguitato il suo geniale fedele domenicano.     

Catania-Milano – Un folto gruppo di catanesi puntò direttamente, con l’unità, su Milano. Un’attrazione perpetuata negli affari - con la farmaceutica prima, ora con le micro e nanotecnologie – ma agli inizi letteraria: Verga, Capuana, De Roberto saltarono Roma per Milano. Anche Brancati, poi romanizzato, aveva puntato prima della guerra su Milano, fino al “Corriere della sera”. Vittorini era di poco distante, di Siracusa. L’asse si è interrotto dopo la guerra ma perché Catania, già prolifica, non ha più generato scrittori.
Per primo era partito Bellini, il primo e maggiore catanese, da Napoli dove aveva fatto il conservatorio: il genio dei direttori artistici, Barbaja, lo scritturò a venticinque anni per la Scala, dove debuttò l’anno dopo, nel 1827, con “Il Pirata”, seguito nel 18289 da “La Straniera”, due gran di successi. I primi di otto anni proficui, che culmineranno nel 1831 con “La sonnambula” e “Norma”.

Cocaina da Vienna – Un gigolò ricattatore gira nel racconto “Il rubacuori” di Edgar Wallace armato di due revolver “acquistati al Cairo da un uomo che contrabbandava cocaina da Vienna”. Si direbbe l’inverso, che a Vienna si contrabbandi cocaina dal Cairo.  Ma all’epoca del racconto,1930, evidentemente no, la fama poteva essere quella - Freud viveva di cocaina, e molti suoi corrispondenti.

D’Arrigo “Narratore analitico che scrive in una lingua popolare che non è parlata da nessun popolo”: il dimenticato autore di “Horcynus Orca”, il capolavoro che Arnoldo Mondadori volle, e di cui finanziò a lungo la stesura, caso unico nell’editoria italiana, è così detto da W. Pedullà, suo primo e durevole sostenitore – in “Alberto Savinio, scrittore ipocrita…”, 84.

Euripide – Un tragico suo malgrado? Si sentono commenti delusi al teatro Greco di Siracusa per la sua “Elena: gli appassionati non ci hanno trovato il pathos che se ne aspettavano. “Elena” in effetti non è una tragedia e nemmeno un dramma, è una commedia. All’italiana – triste, e con una morale – e non aristofanesca, ma è un seguito di situazioni comiche, ironiche, satiriche. Se non che: tragedia e commedia non sono due facce della stessa moneta? L’epica se ne distingue, ma Euripide non vuole assolutamente essere epico, è piuttosto un social scientist.
La tragedia è (Savinio) “rappresentazione di uomini moralmente superiori”. È evidente che Euripide non è – non vuole esserlo - un tragico; è un drammaturgo moderno, “borghese”, incredulo.

Leghismo – Sembra aver messo a tacere la letteratura, quella che si potrebbe in qualche modo definire leghista, a partire da Dionisotti, “Geografia e storia della letteratura”. Domina ormai da quarant’anni, ma non ci sono opere “leghiste” - particolari, locali, campanilistiche. E i dialetti, che prima si privilegiavano, specie in poesia, ma anche nella narrativa, sono scomparsi – le dialettizzazioni di “L’infinito” di Leopardi, che il “Corriere della sera” si compiace di pubblicare, si segnalano per la freddezza. Resistono i dialetti negli sceneggiati, “Gomorra”, “Montalbano” ma come sottolineature di colore.
Un Dionisotti di oggi farebbe fatica a distillare umori regionali, specie al Nord, nelle lettere: modi di dire, tematiche, architetture verbali.  

Padri – Un problema del primo Novecento, lo rileva Walter Pedullà, “Alberto Savinio, scrittore ipocrita e privo di scopo”. Di Savinio come di Svevo, Gadda e Tozzi.

Postumano – Sarà durato solo cinque anni? Sembra scaduto con l’Intelligenza Artificiale, di cui non è d’uso nominarla postumana, anche se rientra in pieno nel concetto. Quasi che il taglio inferto alla storia cinque anni fa da Rosi Braidotti si voglia esorcizzarlo, comunque anestetizzarlo.
Il postumano di Braidotti era derivato dalle nozioni di cyborg – l’umanoide trapiantato – sul territorio infido delle biotecnologie. La nostra seconda vita negli universi digitali”, poteva spiegare la teorica di genere - del femminismo post-femminista - a Leida, Olanda, “il cibo geneticamente modificato, le protesi di nuova generazione, le tecnologie riproduttive sono gli aspetti ormai familiari di una condizione postumana”. Ma arrivati al dunque, al cervello artificiale in qualche misura autonomo, l’asticella dell’umano viene ora  innalzata: con l’Intelligenza Artificiale, pure self-confident e sofisticata, sembra molto più difficile superarla.

Sciascia - È un rondista? “Sciascia ha manifestato sempre un’acuta nostalgia dei rondisti”, nota Walter Pedullà, di passaggio in “Alberto Savinio, scrittore ipocrita …”, 84, un critico che non si è (quasi) mai occupato di Sciascia, su cui ha però poche righe fulminanti: “Sulla loro prosa aveva imparato a scrivere in un italiano terso e puntuale come quello di un classico”. Gli piacevano Savarese, Cecchi e altri “venuti dopo le avanguardie storiche”, e in antagonismo a esse. “Sciascia non potrebbe essere più sintetico, un avaro che regala parole che valgono oro anche quando non luccicano”. Uomo di verità: “Sciascia prima trova la verità e poi la racconta, con lo stile di chi ha il dovere di essere chiaro e semplice: la verità è più vicina all’essenziale che al molteplice”.


letterautore@antiit.eu

Il mito del muliebrismo

Una donna felina, non una novità. Neanche la storia, di duelli, amori fuggevoli, amori non corrisposti, tradimenti, nell’eccitazione dell’amour fou, che nel secondo Ottocento faceva testo, era la lettura preferita. Verga voleva ripetere il successo di “Eva”, e subito scrisse questa storia, proponendo anche un altro titolo, “Tigre reale”. L’editore Treves lo sconsigliò: “Stampiamolo pure, ma dopo un altro migliore. Io venderei certamente il vostro libro, dopo il successo dell’«Eva»,  ma la vostra riputazione ci scapiterebbe, perché amici e nemici vostri stanno aspettandovi alla seconda prova con garndi aspettative”. Verga ritirò il manoscritto e lo dimenticò. Col titolo di “Tigre reale” scrisse invece un altro romanzo, che in qualche modo andò.
Una storia come tante. Che però, sebbene dimenticata o rifiutata, nel suo genere funziona: Verga cominciò a scrivere alla Dumas jr, e ci sapeva fare – di “coraggioso cattivo gusto” dirà Luigi Russo. Più interessante della novella è il paratesto, della filologa verghiana Rita Verdirame, che l’ha scovata la tre le carte e riproposta. A proposito del “mito del muliebrismo”, dela donna cacciatrice crudele. Della “narrativa mondana” postunitaria. Di Verga trentenne già verista acuminato, che su felis mulier annotava tra gli appunti preparatori mezza pagina col cipiglio del paleontologo. Prima di prodursi sveltamente nell’ennesima storia d’amore, scandita ogni poche pagine da una sospensione, per la pubblicazione a puntate sul “Corriere della sera”.  
Curiosamente inalterati, un secolo e mezzo dopo, i costumi. Si duellava allora come oggi si fa a bottigliate o si accoltella, per un presunto sgarbo alla donna amata – cioè no, con cui ci si accompagna.
Giovanni Verga, Felis-Mulier, Sellerio, remainders, pp. 136 € 2,71


lunedì 17 giugno 2019

La scomparsa del monopolio, all’era dei monopoli


Singolarmente inerte è l’antimonopolio a fronte del monopolio del commercio e della pubblicità – dell’opinione pubblica. Google e Facebook, per quanto brillanti e generosi, Amazon e Apple, per quanto opere d’ingegno, sono monopoli a tutti gli effetti. Fino all’inclusione;: quando la concorrenza cresce e può dare ombra loro subito la comprano a prezzi estremamente generosi. Hanno trasformato il commercio al dettaglio non solo, con le tecniche d’immgazzinaggio digitale, la promozione  surrettizia (le pin-up influencer, la pubblicità redazionale), e le tecniche di comunicazione, ma la comunicazione stessa, fino all’informazione e allo stesso giornalismo, e quindi la politica e i governi.
Il  Russiagate, se non è una combine fra Trump e Putin, come il rapporto Nueller sembra avere accertato, è pur semrpe un’invasione della tecnologia online, anonima nel caso per di più, nei processi decisionali politici. Ma la legislazione antimonopolio, che era il vangelo degli Stati Uniti quando non erano padroni del mondo, ed è comunque il perno di un mercato propriamente detto, anche dell’opinione pubblica, oggi si direbbe fuori mercato – il “mercato” non la tollera? Si multano – a Bruxelles ni multano, non negli Usa né in molti dei paesi europei, e comunque di poco - i quattro monopoli, o qualcuno di essi, ma per motivi fiscali, non per posizione monopolistica.
L’antimonopolio è fermo all’industria del petrolio, cent’anni fa. All’applicazione, nel 1911, della prima e unica legge antimonopolio, lo Sherman Act americano, del 1890. Contro i Rockefeller principalmente, allora i re del petrolio – e contro anche l’American Tobacco, il monopolio della nicotina.
Si parla di antimonopolio negli Usa, che sono gli unici a occuparsene, dal punto di vista della teoria economica, e dell’attività politica – dell’“autonomia del politico”. L’Europa se ne occupa, ma al suo solito -  come è di tutte le autorità antitrust dei paesi europei, tutte modellate su quella della Germania, e tutte pro forma - sulle quisquilie, e sulla base delle convenienze politiche: quanti sportelli bancari può avere un banca, quali dimensioni deve avere un’acciaieria, o quali fusioni accettare e quali respingere. Per es, è monopolio l’acquisizione di una banca tedesca se la Germania non vuole. 

Problemi di base animaleschi - 489

spock


Soffrire come un cane?

Bere come un ciuco?

E mangiare come un lupo – o come un maiale (o come un re)?

Dormire come un ghiro?

Godere come un mandrillo?

O è come un riccio?

Menando il can per l’aia?

spock@antiit.eu

L’Europa è un’idea.


Siamo tutti europeisti oggi, e chi lo è stato quando era sospetto esserlo (Altiero Spinelli non era una “spia della Cia”?) si trova a disagio. Non per la primazia abortita o rubata, ma per l’approssimazione e la confusione : oggi l’Europa non funziona, un europeista questo dovrebbe dire. Come e perché? Come si dice altrove, in Germania per esempio da Enzensberger, in Francia da Carrère – e da Houellebecq, certo, che non finge. Bisogna dire le cose come stanno. Invece si fanno evocazioni, di miti e glorie. Spesso da chi, come in questo volume, ha voluto una costituzione europea senz’anima – subito rigettata, come la difesa europea, e domani forse l’euro, dalla Francia, che è nazionalista e non lo nasconde. Siamo ancora all’“Europa, storia di un’idea”, i due volumi propedeutici di Carlo Curcio che più non si ristampano, e che invece fotograferebbero fedeli l’attualità - quando è al meglio: europeista nelle intenzioni.
L’opera, una sorta di enciclopedia europea, prefata da Franco Gallo, il presidente in carica dell’Istituto, ha tutta l’aria di essere stata avviata da Giuliano Amato quando presidente era lui.  Da uno dei costituenti, cioè, della “Costituzione dei senza” – quella che la Francia bocciò. Dell’Europa senza radici e senza identità: senza religione, senza storia, senza democrazia, senza comunismo, senza sindacati. Piena di buona volontà, come è d’obbligo professarsi oggi, per evitare di pensarsi. Che è poi un’Europa denucleata  in mano al mercato, cioè oggi a Google, Facebook e Xi Jinping - dopo quello delle banche.
Un’enciclopedia. Come è d’uso costruirle oggi, cioè alla moda del Settecento, della primissima Enclopedia,: un luogo dove si pubblicano delle “voci”, dei saggi monotematici, d’autore. In abbondanza e in dettaglio vi si trovano le istituzioni della U, la ricerca scientifica come motore unificante, e un terzo volume sul niente, cioè sull’Europa quale  è oggi, subalterna per essere succube. Ai flussi migratori e ai mercati che non governa, in nessuna misura. Alle espressioni artistiche e alle identità religiose alle quali ai acconcia, come alle mode. Unita sulle tradizioni e il turismo: un’Europa di osti e camerieri.
AA.VV., Europa, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, in 3 voll., pp. 730 per vol., ill. s.i.p.

domenica 16 giugno 2019

Di che parliamo quando parliamo di Europa

“Migranti, il trucco tedesco. Sedati e spediti in Italia” è l’apertura a tutta pagina oggi di “la Repubblica”. Che ne fa uno scandalo grave: duemila, tremila, diecimila, non si sa quanti sono stati rispediti con questo trucco in Italia dall’angelica Merkel.
“La Repubblica” curva la sua scoperta contro Salvini, in linea con la sua propria linea. Non sa privarsi della scoperta del “trucco tedesco”. Ma poi dice che è tutta colpa della politica restrittiva di Salvini: che i rimpatri costano, che i rimpatri non si possono fare (ci vogliono molti aerei, gli pseudo-rifugiati fanno causa), che gli altri paesi europei non si prendono i rifugiati, e quando proprio devono poi li cacciano. E quindi niente, bisogna solo prendersi tutti gli africani che sbarcano?
Forse “la Repubblica” vuole solo alzare una palla a Salvini – non sarebbe una novità nella storia di questo giornale, lo scandalismo non è fine a se stesso. Una palla molto utile nel momento in cui la tedesca Sea Watch si ripresenta a Lampedusa a sfidare il capo della Lega, che già due italiani su cinque votano. Ma non è una bella faccia dell’Europa che si presenta. Nel momento in cui più se ne avrebbe bisogno. Non da veri europeisti, invece che da amici del giaguaro – speculatori, catastrofisti.

È morto Zeffirelli, l’ipocrisia no


Condoglianze di massa per la morte di Zeffirelli, che pure non era ingombrante ed è morto come sempre discreto, a 96 anni. Molti non sapevano nemmeno che ancora vivesse, ma molte lacrime si son o esibite e perfino “speciali”, sui giornali e in tv. Sulla vita e le opere. Cioè le sue messe in scena. Di santi e di Shakespeare. E una vita castigata, che non faceva pesare la sua omosessualità – di grande discrezione insomma, oltre che di ingegno. Con un solo neo: il cruccio di “non essere amato dalla critica”, “l’incomprensione della critica”, “il rimprovero di essere fuori del proprio tempo”. Mentre non è questa la verità, poiché i suoi spettacoli funzionavano, avevano pubblico - a qualcuno non piacevano, è pure ovvio, a molti sì.
La verità è che Zeffirelli non era e non si fingeva Pci, come era d’obbligo – a differenza per esempio del suo pigmalione Visconti. Anzi si dichiarava piuttosto anti. E questo è ancora imperdonabile. Mezza letteratura, mezzo mondo del cinema e dell’arte ha vissuto la Repubblica sotto questo stigma, il mancato allineamento, la piccola Gleichshaltung togliattiana, e l’anatema ancora dura.

Fermi tutti, c'è la Correzione


Nell’ultimo Montalbano, “Il cuoco dell’Alcyon”, Camilleri ha ua stupenda ragazza americana, una “buttana” ma non importa, che si presenta in commissariato, bloccando il traffico, per denunciare uno scippo. Ma non lo scippo, dei documenti, i valori, la borsa sottratti, vuple denunciare lo scippatore perché le ha sfiorato il sedere: la bellissima prostituta d’alto bordo a Vigata si vuole solo vittima di molestie. Camilleri lo racconta per ridere, ma non si ride.
Il maestro Dudamel alla fine del terzo e ultimo Beethoven ieri a Santa Cecilia a Roma, tornando sul podio per ringraziare dell’applauso, a ogni rientro invitava l’orchestra a condividere l’omaggio, in piedi, sollevando una bella viola bionda sul suo passaggio. Una, due, tre volte, forse quattro - il successo era travolgente, l’orchestra ha suonato il quarto tempo della Settima in trance, il pubblico è rimasto in piedi attonito, plaudendo poi per impulso meccanico, affascinato, che non capita mai a Roma, la gente alla fine scappa. La cosa è stata messa sullo scherzo dalla stessa orchestra, mentre la viola sollevata a questo punto arrossiva. Un’altra viola, altrettanto bella, mora, ha rimproverato il maestro per essere stata trascurata nelle entrate. Dudamel ha allora rimediato abbracciando insieme una viola donna, in età, e una maschio insieme. Ne avremmo sentite in America, dove Dudamel è direttore stabile della Los Angeles Philarmonic, con corteo di avvocati, a percentuale.
A Parigi due mesi fa una rappresentazione didascalica delle “Supplici” di Eschilo è stata impedita alla Sorbona da tre leghe antirazziste, la Ligue de défense noire africaine (LDNA), la Brigade anti-négrophobie (Ban), e il Conseil représentatif des associations noires (Cran). Tre organizzazioni anche in competizione tra di loro, che poi si sono disputate il successo della censura: l’ultima organizzazione si è accreditato il successo dicendo il dramma di Euripide “propaganda afrofoba, colonialista e razzista”. L’ellenista che organizzava la rappresentazione, delle “Supplici” come di altre tragedie greche, Philipe Brunet, si è giustificato con un lungo comunicato, che così terminava: “Ho fatto rappresentare i Persiani a Niamey da nigeriani (è nell’ultimo film di Jean Rouch). La mia ultima regina persiana era nera di pelle e portava una maschera bianca”.
“Le supplici” è reputato uno dei drammi più “repubblicani” e democratici di Euripide, oltre che molto femminista. Le organizzazioni antirazziste africane di Parigi, non altrimenti note, protestavano perché le Danaidi, in fuga dall’Egitto per cercare la libertà in Grecia, si caratterizzavano in scena per le maschere nere, per distinguersi dai greci, in maschera bianca.  
L’altra settimana il governo Macron ha voluto “Le supplici” alla Sorbona a titolo di risarcimento per la censura subita. Una rappresentazione controllata da un forte schieramento di polizia, a inviti, altrettanto controllati. Brunet ha cambiato il colore delle maschere, in oro e argento. Senza trucco sottostante, se non un colore mattone ai piedi e le mani. 
Avevamo lInquisizione, avremo la Correzione?

L’Europa ubriaca

L’Europa è una da tempo, e quindi è inutile che stiamo qui ad almanaccare. Ce lo ha spiegato Victor Hugo un secolo e mezzo fa. Ce lo ha rispiegato Churchill appena settant’anni fa, altro che Brexit, e quindi è inutile discutere se e quando e come. Col suo brio – le conversazioni sono reali, non figurate, quelle tenute in inverno a Milano, al teatro Carcano – Daverio spiega che l’Europa è la “penisola occidentale del continente asiatico fondata sul vino”. Parola e cosa che trova con sorpresa tal quale in tutte le lingue europee: latine, germaniche e slave.
Ha provato col sanscrito? Non è la sola perplessità. Anche il vino viene dall’Asia, pare dalla Persia. Ma, soprattutto, il vino non divide l’Europa? Quella superiore, britannica dapprima poi tedesca, si è voluta superiore in nome della birra.
Ora, anche la birra è asiatica. Bisognerebbe allora fare una correzione: l’Europa che non trova radici ne avrebbe due consolidate, per mentalità e linguaggi, l’area del vino e quella della birra.
Questo si vede, sia consentita una parentesi, girando per la Germania, il cuore dell’Europa. Treviri, al cuore della Mosella, e quindi del vino, la seconda Roma, è roccia solida. Anche a Zell, che coltivava il lattucario, che ha l’effetto dell’oppio, la vite ha prevalso - il vino che accende la lettura: “lasciva est nobis pagina, vita proba”, canta Ausonio, il poeta di Bordeaux che poetò la Mosella. La Mosella è la Germania più romanizzata, col Sud Tirolo ora italiano: ci facevano il vino.
Che dirne: si fa poesia col vino, si filosofa con la birra? Vandelberto, abate di Prün, sempre area del vino, versificò il calendario, come Francis Jammes. Valfredo Strabone, abate di Fulda, in anni calamitosi si dilettò all’elogio della cucurbita scrivendone a Grimaldo, abate di San Gallo. Si passavano un tempo le frontiere ignari: prima degli Stati la vite univa Francia e Germania.
Però, che sia la coda dell’Asia, questo all’Europa non lo può togliere nessuno.
Philippe Daverio, Quattro conversazioni sull’Europa, Mondadori Electa, pp. 155, ill. € 18, 90