Giuseppe Leuzzi
Fiammetta
Borsellino racconta su “7” che ha voluto
incontrate i fratelli Graviano, gli assassini di suo padre, in carcere. Senza
riscontrare particolare interesse, o emozione in loro. Solo ricorda che Giuseppe
si vantò di avere auto un figlio mentre era al “carcere duro” .
“Nel
paese siciliano di Ribera un cane di taglia media, che nessuno conosce e di cui
nessuno sa da dove viene, assiste a tutte le sepolture. Quando si avviano i
preparativi, in qualche parte del paese, per una cerimonia funebre, il cane, un
incrocio bruno chiaro di parecchie razze, arriva e aspetta che la bara sia
portata fuori dalla casa. Segue poi il carro funebre fino alla chiesa, presta
l’orecchio quando la banda paesana suona le marce funebri, e accompagna infine
il corteo fino alla tomba. Alla fine della cerimonia scompare, e non lo si
rivede a Ribera fino alla sepoltura successiva” – Elias Canetti, “Il libro
contro la morte”, 1981.
Si festeggia l’Olimpiade invernale a Milano-Cortina come se fosse un successo
dei siparietti di Goggia, Fontana e le altre ragazze dello sci in tacco dodici,
e non del “paziente”, “generoso” pressing
sulle delegazioni nazionali,
sudamericane, africane, asiatiche. Bisogna saper comprare, oltre che vendersi.
Un
po’ d’ipocrisia, anche, non fa male – l’ipocrisia non va disgiunta dagli
affari, come dal giustizialismo.
Chi
ha visto le Universiadi a Napoli? Nessuno. Crozza direbbe che tanto silenzio è
una congiura contro De Luca, il presidente della Campania, che si danna l’anima
perché Napoli è il sedicesimo sito turistico per numero di visite in Italia. In
effetti, è da ridere.
O nostos, il ritorno, è
tema ricorrente in questa stagione di romanzi di autori meridionali. Quello prevalente
tra i partecipanti al dibattito sul Sud nell’ultima narrativa che Alessia
Rastelli anima su “La Lettura”. Rosa Ventrella, da Cremona, torna a Copertino
(Lecce) per “La malalegna”. Nadia Terranova, “Addio fantasmi”, torna a Messina.
Claudia Durastanti, “La straniera”, in Basilicata.
Mariolina
Venezia, che da Matera ha preso casa a Roma e a Istanbul, non ha “ritorni” in
uscita, ma dice: “Io mi sento più vicina a Atene o alla Turchia che non a
Milano”. Non per caso, spiega: “L’elemento arcaico ritorna nei romanzi
meridionali perché è realmente radicato nelle nostre terre e si è conservato
fino a noi. Questo è un fatto: noi siamo stati la Magna Grecia”.
La mafia
dell’antimafia
“Il
cinema italiano oggi?”, Giuseppina Manin chiede a Liliana Cavani sul “Corriere
della sera”. Cavani, donna e regista di molta esperienza, 86 anni, risponde:
“Mah, mi pare che si occupi solo di mafia. Film, serie tv traboccanti di
malavitosi, violenti, volgari… Dicono che è denuncia. A me sembrano solo
pessimi modelli”.
È
un genere commerciale che tira. Ma anche, come ogni genere commerciale che
tira, un “prodotto” confezionato ad arte. Questo si confeziona nel nome
dell’antimafia. Mentre ne è una celebrazione, della mafia. Dal Buscetta di Enzo
Biagi, e oggi di Bellocchio, al “Padrino” di Puzo, Coppola e Marlon Brando.
Cavani non ha torto quando conclude: “Sono così contraria a questo genere di
film che, pur amandolo moltissimo come attore, non ho perdonato a Brando di
aver offerto il suo talento al Padrino”.
Che
sarebbe un film sul terrorismo che magnificasse i terroristi, o sull’Olocausto
che magnificasse gli aguzzini?
La mafia (non) è
invincibile
Sembra
irreale il ricordo delle stragi di mafia, della mafia palermitana, nei quindici
anni fino al 1993, ai Georgofili di Firenze a via Palestro a Milano. Di
personaggi di grande rilievo nella vita politica e nell’apparato repressivo,
oltre che di bande rivali: il capitano Basile, il procuratore capo Costa, il
giudice Chinnici, il generale dalla Chiesa, i commissari Montana e Cassarà, Cesare Terranova, Pio La Torre, Mattarella, Lima, e poi Falcone, Borsellino, le
stragi in “continente”. Senza che ci forse una reazione in qualche modo
adeguata. Da qui la mafia invincibile: nacque in quegli anni il mito delle
mafie, invasive e imbattibili, in tv, nei media, nella pubblicistica, che
tuttora dura.
Si
girava in quegli anni in tutta libertà, in solitario, a volontà, la Sicilia,
terra de sempre privilegiata dal turismo, di mare, di natura, di archeologia,
d’arte, che ora è impraticabile se non con prenotazioni di anno in anno. Non
mancava mai posto, alberghi vuoti, ristoranti pure, quando non chiudevano, con
la cucina limitata agli spaghetti bolognese e alla cotoletta milanese.
La
verità del crimine è che va combattuto, non magnificato. Le stragi erano opera
di Riina, un personaggio che più mediocre e anche stupido non si può pensare, a
parte la crudeltà. Tanti morti, e l’isola in ostaggio, di Riina.
Sudismi\sadismi
Martedì 2 il Tg 1 e gli altri a ruota mostrano
un grave scandalo nel business dell’accoglienza. Monopolizzato dalla ‘ndrangheta.
In una Lombardia che la Rai dice sotto la ferula della ‘ndrangheta. Sulla base
di un’inchiesta della giudice Boccassini. Il giorno dopo “Corriere della sera”
e “la Repubblica” hanno anch’essi grossi titoli e molto spazio sulla Lombardia
assoggettata dalla ‘ndrangheta. Che però
non c’entra, i sette milioni sono stati fregati da altri soggetti.
La vera storia il “Corriere della sera” la
confina, giovedì 4, alle pagine locali, milanesi.
Calabria
Giovedì
11 la tecnica e tattica del terzo settore – l’appalto dei servizi pubblici a organizzazioni
private – nel campo dell’accoglienza agli immigrati viene spiegata con semplicità
da un imprenditore al figlio nelle intercettazioni disposte dagli inquirenti: “Incassi
1.500, spendi 300, e ti tieni il resto”. Siccome l’imprenditore è calabrese,
Milano lo liquida come ‘ndranghetista, e la cosa finisce lì. Mentre l’affare è
di una ong torinese. Che non è specialmente colpevole, tutto il “terzo settore” è
malato, la stella del sottogoverno - i guadagni sono spropositati. Ma questo non interessa: la ‘ndrangheta
come cache-sex.
Un terzo dei ragazzi di terza media, uno
su tre, è semianalfabeta – sa leggere ma non capisce. In Calabria il 50 per
cento, uno su due.
Si dice che abbia il record del “deficit sanitario”. In
realtà è seconda, dietro la Campania – 440 milioni di saldo debitorio, fra
pazienti in fuga e avventurati di altre regioni che si fanno curare in
Campania: il deficit calabrese è di 274 milioni. Ma, curioso, il Lazio, che è la
regione dove i calabresi si fanno curare, spende fuori poco meno: 225 miliardi
– il saldo tra le spese fuori regione,
555 milioni, e le entrate per i pazienti provenienti dalle altre regioni
(Calabria), 330. I calabresi confidano in una sanità che non si fida di se stessa?
In realtà, il saldo negativo del Lazio è col Vaticano
(“Bambino Gesù”) e i Cavalieri di Malta, tutta roba “romana” di fatto. Anzi,
dedotti i due enti, il saldo è positivo, per 5 milioni.
Si arrestano alcune dozzine di ‘ndranghetisti,
tra Colombia, Olanda e Italia, che trafficavano cocaina dal Sud America. Gli
arresti si fanno col sequestro di vari quintali di cocaina, sbarcata o da
sbarcare a Rotterdam e Anversa. Scali nei quali evidentemente gli
‘ndranghetisti garantiscono sbarchi sicuri. Ma la tentazione è inevitabile nei
giornali calabresi di citare tra gli scali Gioia Tauro, benché scalo “no seguro”,
dicono gli intercettati, cioè controllato dai finanzieri.
Una banda di calabresi, o più bande, al controllo dei grandi
porti di Rotterdam e Anversa, bella storia
sarebbe. Ma non interessa. Se non c’è Gioia Tauro di mezzo non attizza, né la “Gazzetta
del Sud” né il “Quotidiano di Calabria”, né naturalmente i media nazionali.
Non si capisce perché il Sud, e al Sud la Calabria peggio di
tutti, vada indietro invece che avanti, ma la ragione non sarà questo
autolesionismo?
Volendo,
si può fare giornalismo di scoperta e di forte coloritura anche in Calabria,
perché no? Che sicuramente si farebbe leggere. Per esempio la Ntt Data
all’università di Cosenza. Uno dei tre centri di eccellenza, con Palo Alto in
California e Tokyo, del ramo elaborazione dati della Tim giapponese, l’ex
monopolista dei telefoni. Un settore che cresce ogni anno a doppia cifra, roba
da 19 miliardi di dollari per la sola Ntt Data, dalla cybersicurezza al
credito, e assume giovani, per la metà donne. Ma ai giornali locali non
interessa, se ne legge nei giornali angloamericani.
Scullino, Ioculano, l’uno a destra l’altro a sinistra,
sindaci di Ventimiglia, sono nomi familiari dell’infanzia e la prima giovinezza,
quando le famiglie emigrarono a Arma di Taggia a coltivare i garofani. Alla
terza generazione sono già sindaci della Riviera dei fiori – ma Gaetano Scullino
potrebbe essere della seconda, tanto è tosto: dimesso dal prefetto per
‘ndrangheta, come ogni calabrese che tiri la testa fuori dal collo, ha aspettato
l’assoluzione e si è fatto rieleggere.
Di qualcuno di loro si poteva scrivere
agli albori di questa rubrica:
“Moio,
Scullino, Arma di Taggia, Ventimiglia, il giornale riporta nomi familiari, di
successo lusinghiero in politica, vice sindaco, sindaco, e tuttavia finiti
nella cronaca nera. Nomi poco frequenti, i patronimici, che s’immaginano figli
o nipoti degli stessi con cui si facevano nell’infanzia le scorrerie per
agrumeti, valloni, fiumare, o per nidi di passeri sulle selle alte degli ulivi
- e infatti Rohlfs ne attesta i nomi a Castellace e Sitizano, circoscritti. Di
famiglie mitissime, emigrate anche per questo, per odiare la prepotenza.
“Il reato è il “voto di
scambio”: aver cercato voti presso i calabresi emigrati. L’origine li condanna
ancora alla terza generazione?”
Non ha requie la giudice Boccassini, la procuratrice
antimafia di Milano, dove vede un calabrese: subito partono avvisi e arresti
per ‘ndrangheta. Decine, centinaia. Per “voto di scambio”, il pacchetto dei
voti familiari, non esercitandosi in Lombardia “pizzi”, “protezioni” o altre
vessazioni. Qualche volta le è a andata bene, ha pescato giusto nel mucchio. Ma
questa è tutta la sua antimafia. Niente droga a Milano, che ne è la capitale. Niente
riciclaggi, di cui Milano è il centro. Niente combines negli appalti – a meno, certo, che uno dei sub-sub-appaltatori
sia calabrese.
Emigrato a Parigi a sessant’anni, su consiglio del papa
Urbano VIII per evitare l’estradizione a Napoli, Campanella vi progettò, tra le
tante sue iniziative, un collegio di missionari calabresi. Era ascoltato dal
cardinale Richelieu su molte questioni politiche, e dal re Luigi XIII. La
Calabria aveva già ottima reputazione a corte, per l’opera del taumaturgo
Francesco da Paola.
Campanella era temuto a Napoli, dove
aveva già vissuto ventisette anni in dura prigionia, per un sospetto di rivolta
antispagnola in Calabria, di un ennesimo complotto. La vicenda è così narrata
da Firpo, “I processi di Campanella”: il filosofo era perseguito per
“sospettata connivenza con la congiura di fra Tommaso Pignatelli”. Un giovane
domenicano calabrese, allievo di Campanella, che aveva ideato “un puerile
tentativo” di sopprimere il viceré di Napoli, per poi chiamare il popolo alla
rivolta e alla liberazione. Scoperto, era stato garotato (strozzato) in
carcere.
“Nel marzo 1597 un bandito calabrese,
nel salire il patibolo in Napoli, per differire l’esecuzione rilascia a carico
di Campanella dichiarazioni compromettenti in materia di fede”, Luigi Firpo,”I
processi di Campanella”, p. 7. Il filosofo viene imprigionato, per nove mesi, e
poi assolto ma con l’obbligo di risiedere in Calabria, cioè isolato.
leuzzi@antiit.eu