Giuseppe Leuzzi
La Lombardia come paradiso terrestre –
la stessa che ora fugge venerdì a pranzo, in Provenza e in Riviera, in Toscana,
a Panarea o Pantelleria. Così la vedeva, senza dirlo, Stendhal nella sua
stagione felice. Così la dice Soldati in “La messa dei villeggianti”. Il
Ticino, l’Ossola e la Valsesia, ora ricordate solo per i terroristi, e i laghi,
Maggiore, d’Orta, etc., servirono a Butler per “Erewhon”, luoghi della utopia.
Anche questo fa la differenza.
Raccontando a suo modo “I promessi
sposi” per “La Lettura” domenica scorsa, Francesco Piccolo ci trova molta
camorra. Nel modo di essere e di parlare di don Rodrigo, e nel suo rapporto con
l’Innominato: “Dalle prime pagine si deduce subito che oggi don Rodrigo sarebbe
un camorrista - e la scena dei bravi che fermano e minacciano don Abbondio
sembra essere una scena della serie tv Gomorra”.
Era così: i “bravi” erano decine di
migliaia a metà Seicento, e infestavano i lombardi di soprusi di ogni genere.
Nello scandalo delle ammissioni truccate
alle migliori università americane, si è scoperto che a Chicago molte famiglie
ricche davano i figli in affido a famiglie povere al momento dell’iscrizione,
per farli rientrare nelle quote riservate. Ovunque era diffusa la pratica di
iscrivere i figli ai test di ammissione per disabili, anche solo per dislessia
o altra “disabilità invisibile” (deficit di attenzione, iperattività), che
hanno più tempo e prove semplificate.
Napoli perde anche questo primato.
Il
Gattopardo antisemita
Carlo Ginzburg premiato a Santa Maria
Belice, luogo di Tomasi di Lampedusa, col premio intestato all’autore del “Gattopardo”, per l’ultimo suo libro, “Nondimanco”, nel
discorso celebrativo taccia Tomasi di antisemitismo. “Nelle
lettere ai cugini, riporta alcune agghiaccianti stereotipi antisemiti”, dice. Inoltre,
accusa, ebbe e mantenne un rapporto stretto col giurista Giuseppe Maggiore, di
cui utilizzò tra le fonti del “Gattopardo” il romanzo “Sette e mezzo”, sulla
rivolta a Palermo nel 1866, autore a suo tempo di “un saggio spregevole: «Razza
e fascismo»”.
Maggiore fu uno dei tanti professori
universitari che considerarono peccato veniale il sostegno al fascismo e si
riciclarono agevolmente nella Repubblica. Lui però con più difficoltà: fu
reintegrato solo nel 1952, due anni prima della morte, a 72 anni. Era stato l’ultimo
presidente, nei primi mesi del 1943, dell’Istituto Nazionale di Cultura
Fascista. Rettore di Palermo nel 1938-39. Collaboratore de “La difesa della
razza”, uno dei 360 professori universitari che nel 1938 sottoscrissero il “Manifesto
della razza”, in preparazione alle leggi antiebraiche. Allievo di Croce, poi di
Gentile, magistrato, Procuratore del Re a Palermo nel 1922, dal 1924 professore
universitario, prima a Siena poi a Palermo. Fu reintegrato nel 1952 quale fondatore
della “scuola penalistica palermitana”. I familiari istituirono un borsa di
studio a suo nome.
Nel libro premiato col Tomasi di Lampedusa, una raccolta di
saggi su Machiavelli, sulle sue radici aristotelico-scolastiche e sulla sua
ricezione nel Seicento (Pascal, Galileo, Campanella), Ginzburg aveva aggiunto un’appendice
complice, perfino affettuosa, sul “Gattopardo”. In omaggio a Francesco Orlando:
l’italianista che era stato allievo di Tomasi di Lampedusa aveva ipotizzato
Machiavelli come probabile radice del messaggio gattopardesco, “se vogliamo che
tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Ginzburg ne dava le coordinate,
nei “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”, I, XXV, mostrando i tanti
passi in cui Lampedusa si rifà a Machiavelli.
Un volta in Sicilia, ha cambiato registro: l’isola non si
ama.
La
rivincita del Sud, letteraria
“Di solito si sente dire che i romanzi
italiani che gli stranieri leggono più volentieri sono quelli d’ambiente molto
caratterizzati localmente, specialmente d’ambiente meridionale” - Italo
Calvino. “Tradurre è il vero modo di leggere un testo”, una conferenza del
1982. Uno pensa a Sciascia, “Ferrante”, Camilleri. Ma Calvino non è d’accordo:
“Credo può darsi che questo sia stato vero ma non lo è più oggi”, anni 1980.
Calvino aveva abbandonato il primitivo
rifiuto, 1956, del “localismo, “regionalismo”, provincialismo e della
“tradizione dialettale”, contro Verga e gli epigoni, con la scoperta qualche
anno dopo del mondo delle fiabe, localissimo. Ma non aveva rinunciato al
pregiudizio – “il romanzo non può essere geografico”. Per due motivi: “Primo,
perché un romanzo locale implica un insieme di conoscenze dettagliate che il
lettore straniero non sempre può captare, e secondo perché una certa immagine
dell’Italia come paese «esotico» è ormai
lontana dalla realtà e dagli interessi del pubblico”.
Un ragionamento evidentemente sbagliato.
Come se non si leggessero con interesse i romanzi “inglesi”, anche non gialli,
o americani del Sud, o della California, della California meridionale e di
quella settentrionale, come una volta del New England, e ora di Brooklyn, anche
non ebraici – o di “Macondo”, o della “contea di Yoknapatawpha”.
O come se uno di Montebelluna dovesse sapere
di più della Calabria, o della stessa Roma, di uno della Cornovaglia. In
più, non c’è la domanda di nipoti e bisnipoti degli emigrati, curiosi di
sapere, specie quelli del Nord America, i meglio integrati, con le scuole cioè
e le professioni, e del Centro Europa?
Le
migrazioni hanno un senso
Pasquale
Villari, che più non si ricorda, fu autore nel 1862, subito dopo l’unità, di
“Lettere meridionali”
che ne rilevavano i guasti. E a fine secolo di “Scritti sull’emigrazione” che
ancora oggi
si rileggono con interesse. A lui Pascoli, fra i tanti, dedicava un panegirico
in nota ai “Nuovi poemetti”
di Castelvecchio: “Un gran vecchio”. E: “Quanto tempo è che egli segna la via,
e indica il male
e mostra i rimedi! Di lui si può ripetere ciò che di Mazzini disse Garibaldi:
quando tutti dormivano,
egli solo vegliava. Il gran vecchio che parla alto nel silenzio di tutti”.
Villari
analizzava le cause dell’emigrazione di massa, dal Nord e dal Sud dell’Italia.
E indagava sui problemi del ritorno. Sull’incapacità dell’emigrato che fosse
riuscito a risparmiare, di mettere a frutto il suo piccolo capitale. Il motivo
trovava semplice: l’ignoranza. “Il suo desiderio di possedere la terra è così
ardente, così febbrile; la fiducia che egli ha di poterla fecondare con le sue
braccia è tale , che la paga il doppio, più spesso il triplo del suo valore”.
Al vecchio padrone, dal quale era fuggito.
Villari
ne faceva una colpa al villico, non al Sud: “Questo è un fatto generale,
notissimo, che segue su larga scala così nel Nord come nel Sud”. Ma al Sud la
pratica durava ancora un secolo dopo, come testimonia Carmine Abate in tanti
suoi racconti del marchesato di Crotone, e nello studio “I Germanesi”, sui
migranti di ritorno dalla Germania.
Che fare
In
uno degli scritti, “L' emigrazione italiana giudicata da un cittadino
americano”, Villari mostrava come si affrontavano allora i problemi, pur in
presenza di un‘ondata immigratoria molto più massiccia di quella attuale in
Europa. Anche se controllata e controllabile, per i visti d’ingresso necessari
– l’Atlantico è largo. Ma non si faceva finta di nulla, una volta che “le
braccia” erano assicurate ai campi o alle fabbriche.
“Il
problema della emigrazione, specie della nostra emigrazione meridionale negli
Stati Uniti d'America, che va così vertiginosamente crescendo, comincia a
richiamare l’attenzione di tutti, ad essere studiato sotto i suoi molteplici
aspetti. Né solo in Italia, ma anche in America. Se infatti a noi importa assai
conoscere quali possano essere fra di noi le possibili conseguenze di questo
strano movimento delle popolazioni agricole del Mezzogiorno, che abbandonano in
massa il loro paese nativo, e lasciano i campi senza braccia per coltivarli, un
altro e non meno grave problema si presenta agli Americani. Quali saranno cioè
fra loro le possibili conseguenze di questa crescente immigrazione? Una volta
immigravano principalmente popolazioni della Germania, della Scandinavia, della
Gran Bretagna, che erano omogenee ed assai facilmente venivano assimilate.
Oggi la immigrazione non solo è stranamente cresciuta, ma si compone in
prevalenza di sangue latino, sopra tutto d'Italiani del Sud. Quali saranno le
conseguenze di questa larga infusione di sangue eterogeneo in un paese che ha
già nel suo seno da nove a dieci milioni di negri, che non potrà mai
interamente assimilare? Per rispondere ad una tale domanda, dicono gli
Americani, è necessario, innanzi tutto, sapere che cosa veramente sono questi
uomini che continuamente a diecine di migliaia sbarcano a Nuova York. E però la
Confederazione inviava quest' anno una Commissione a studiare il problema in
Italia. Ed oltre di ciò anche alcuni privati si mossero e vennero fra di noi
allo stesso fine. Nello scorso maggio io seppi che una Rivista filantropica
americana (Charities) aveva mandato un suo redattore nell’Italia meridionale a
fare le stesse indagini. E ciò anche con lo scopo di meglio conoscere che cosa
poteva utilmente farsi per aiutare materialmente e moralmente gl’Italiani
arrivati in America.
New York
italianizzata
Un
amico, che ha grande esperienza della nostra emigrazione negli Stati Uniti, mi
scrive: “Vedo con piacere che finalmente in Italia vi occupate del vasto
problema della emigrazione. Mi sembra però che lo esaminiate sotto l’aspetto
economico, trascurando troppo il lato morale della questione, che è gravissimo.
Se Voi pensate che nella sola Nuova York sono agglomerati più di 400.000
Italiani, gran parte dei quali contadini del Mezzogiorno, che vivono insieme,
separati dal resto della popolazione americana, voi capirete facilmente che qui
si forma un mondo, una società sui generis, che merita di essere studiata.
Anche le altre centinaia di migliaia che arrivano ogni anno a Nuova York, e si
diffondono negli Stati Uniti, sono in maggioranza contadini del Mezzogiorno;
vivono a gruppi, e fino a che non riescono, dopo due o tre generazioni, ad
essere americanizzati, formano più o meno parte di quella stessa società.
Bisogna tener presente che questo nostro emigrato, quando sbarca negli Stati
Uniti, è generalmente un uomo robusto, lavoratore, affezionato alla famiglia ed
al suo paese, dotato di una certa bontà elementare, soggetto però a scatti
impetuosi di gelosia o d’ira, che possono facilmente condurlo a delitti di
sangue. Ma, quello che soprattutto bisogna tener presente, egli è privo di ogni
vera istruzione, di ogni educazione, di ogni saldo principio, che possa
difenderlo dall’azione corruttrice del nuovo ambiente in cui si troverà.
I compari e lo
sfruttamento
Quando
una volta s'è imbarcato, tutti i consigli che ha ricevuti in Italia, tutti
quelli che può ricevere sul battello, per metterlo in guardia contro i pericoli
cui va incontro, contro le persone che possono ingannarlo, non valgono a nulla.
Egli ha già deciso a chi si deve rivolgere, appena arrivato a Nuova York. Sarà
il parente, l’amico, sopra tutto il banchiere compaesano, che egli preferirà al
Banco di Napoli. Per esso, mediante retribuzione, avranno già fatto propaganda,
nel paese stesso dell’emigrato, il prete, il segretario comunale, il segretario
della Camera di lavoro, un altro agente qualunque. Anche le associazioni,
fondate a suo benefìzio, in Italia o fuori, non possono far molto per lui.
Appena sbarcato, l’emigrato è circondato da gente che tenta sfruttarlo in tutti
i modi”.
leuzzi@antiit.eu