Albinati – Su “La Lettura” confessa l’autore
de “La scuola cattolica”, pagine 1.294: “La traduzione inglese del mio romanzo mi
ha indotto a ricominciarlo. A pagina 600 volevo mollarlo, poi ho provato
orgoglio”. È il parere, curiosamente, pubblicato lo stesso giorno, del critico del
“New Yorker” Paul Elie, che recensisce la traduzione: “Il romanzo gratuitamente
lungo di Edoardo Albinati ….”. Elie ne fa peraltro un test di genere, così cominciando
la critica: “Un lunghissimo romanzo come quello di Edoardo Albinati ci complica
il senso di cosa sia un romanzo. Oltre mille pagine, qualcosa come un milione
di parole: un romanzo così fa sembrare “Ulisse” poca cosa” – Elie non è ben
disposto e continua con le contestazioni, tra le quali una spesso dimenticata: “Il
romanzo lunghissimo è ancora più gratuito in italiano che in inglese” - la nota
tesi di Jumpha Lahiri (e di Calvino) che l’italiano ha adottato l’arte del racconto
(“no Cervantes, no Richardson or Fielding, no Dumas or Hugo”.
Mitteleuropa – Una nostalgia
controversa, almeno fra trentini e triestini. Quinto Antonelli, “I dimenticati
della Grande Guerra”, che al Museo storico del Trentino tiene l’archivio della
scrittura popolare, sa di che si trattava: c’era l’istruzione obbligatoria ma
nel Trentino dominava la pellagra, e l’età meda era di 33 anni. In Galizia,
area non piccola, c’erano solo ignoranza e miseria. Ognuno aveva diritto ai
documenti nella sua lingua, ma la lingua era un ghetto: comandavano austriaci e
ungheresi. E comandavano duro. C’era la censura politica. C’era il
clericalismo. C’era un razzismo pronunciato, specie nell’esercito, contro gli
italianofoni, e anche contro i boemi e gli sloveni.
Paolo Rumiz, che in “Come cavali che dormono
in piedi”, soccombe anch’egli al mito, ne ha una nostalgia anch’essa
ambivalente. C’erano i grandi treni, per Vienna, per Budapest, che adesso non
ci sono più – non sono grandi capitali, non attraggono traffico. Ma sa che era
un mondo diviso, e gerarchico. Viaggiando col “berretto di foggia militare
austriaca, buono per la pioggia”, sa “che non è facile da portare. In patria
già mi guardano come un «austriacante» anti-italiano. In Francia mi
prenderebbero per un filotedesco e in Germania per un italiano originale. In
Ucraina rischierò di essere preso per un nazionalista antirusso, una testa
calda pronta a menar le mani, e in Serbia, se ci andrò, potrei anche diventare
un nazista e sollecitare reazioni «partigiane»”. A Divača (Divaccia), “la porta
dell’Europa”, dove è salito commosso per prendere il treno da Capodistria, “non
c’è niente e nessuno”.
Randaccio - È nome non raro – Livia
Randaccio è giornalista, Roberto Randaccio pittore, etc. È anche il nome di un
“pittore italiano” di uno dei racconti di Miss Marple di Agatha Christie. Che
potrebbe averlo mediato da D’Annunzio: “Gabriele D’Annunzio porge omaggio
alla salma dell’eroico Maggiore Randaccio” è la copertina della “Domenica del
Corriere dell’1 giugno 1917. Giovane irrendetista, morto in guerra con l’esercito
italiano. Per Rumiz, “Come cavalli che dormono in piedi”, è “uno che D’Annunzio
manda a morire per tesserci su un elzeviro”.
Scrivere – È solitudine, e follia per
Marguerite Duras, “Scrivere”. Che si rifà a Blanchot: “Ha la follia che gira
attorno a lui. La follia che è anche la morte” – mentre Bataille “ne è al
riparo” (“perché Bataille era al riparo del pensiero libero, folle? Non
saprei”).
Ungheria – Terra di poeti, morti. Si
direbbe leggendo Gianni Toti, il saggio che premette a Miklós Radnóti. “Ero
fiore sono diventato radice”. Morti prematuramente, cioè, spesso di morte
violenta. Lo stesso Radnóti è morto a 35 anni, fucilato nella ritirata del
settembre 1944 dai tedeschi per i quali faceva il lavoro forzato in un lager. “Una fine tragica è sorte comune
a molti poeti, scrittori e artisti ungheresi”, premette Toti. Attila József è
morto suicida, a 32 anni. “Il primo martire intellettuale, l’italiano San
Gherardo, vescovo di Csanad, diffusore della prima poesia ungherese, fu
trucidato dai pagani ungheresi. Il poeta umanista Janus Pannonius morì fuggendo
davanti ai mercenari di Mattia Corvino. Balint Balassi, il primo grande poeta
in lingua nazionale, morì da soldato sotto le mura di Esztergom alla fine del
Cinquecento”. E così via: Miklós Zrinyi nel Seicento. “Nel Settecento il poeta
giacobino Lázlo Szentjóby Szabó morì in carcere”, mentre altri, Ferenc Kazinczy
e Jànos Batsány, furono carcerati, nello Spielberg e a Kufstein. “Il poeta
nazionale Sándor Petófi morì sul campo di battaglia trafitto dalla lancia di un
cosacco; il grande prosatore riformatore István Széchenyi si suicidò nel 1860
in un manicomio austriaco”. Morirono giovani nel secondo Ottocento “il primo
scrittore populista, il contadino Mihály Tácsics”, di fame, e di malattia o
suicidio Gyula Reviczky, Jenó Komjathy, Endre Ady, Árpad Tóth, Gyula Juhász,
Attila József, Arthur Elek. Della seconda guerra mondiale furono vittime Miklós
Randnóti, e “un’intera generazione di poeti e scrittori ungheresi, da György
Bálint ad Antal Szerb, da Gábor Halázs a György Saközy”.
Yiddish - È nato come lingua delle
comunità ebraiche centro-orientali, è divenuto la lingua degli ebrei orientali,
dell’aallora Galizia e Lodomiria, capitale Leopoli, oggi Polonia e Ucraina, e
della Russia. Una lingua tedesca, il segno più tangibile dell’integrazione
delle stesse comunità nella nazione germanica. Nel “Viaggio in Polonia”, che
effettuò nel 1925, come inchiesta giornalistica tra gli ebrei polacchi, una
comunità da cui lui stesso era originario, Alfred Döblin rimarca in più punti
l’attaccamento allo yiddish. A Lublino racconta di una rivolta di piazza quando
il governo della ricostituita Polonia, dopo due secoli di dominio tedesco-russo,
chiede che almeno il presidente della comunità ebraica parli il polacco: gli
ebrei ortodossi rivendicarono il diritto di parlare soltanto yiddish, cioè
tedesco, e per questo interruppero i rapporti con i rappresentanti del governo
di Varsavia, come se fossero una comunità allogena.
“Viaggio in Polonia” è, più che un reportage
sul nuovo Stato, un viaggio di studio sugli ebrei in Polonia, che non piacque.
È il libro di un medico, rivoluzionario, scrittore pienamente e solidamente
tedesco. Dell’ebraismo polacco solo apprezza le comunità chassidiche, come una
sorta di anticipazione della società rivoluzionaria.
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