Giuseppe Leuzzi
La Corte Europea dei diritti umani dice
che l’ergastolo ai mafiosi non è umano. È un problema di lettura dei diritti
umani, che pure dovrebbero essere indivisibili. Di una civiltà giuridica
europea scesa a livelli da basso popolo, social.
Dice bene al contrario Rosaria Schifani, la vedova di una delle vittime delle
stragi di mafia: “Ci hanno condannato all’ergastolo del dolore”.
I giuristi europei non sono equanimi:
gente con cento omicidi esce dal carcere dopo venti e quindici anni, senza pentirsi.
Dice: è redenta. Da che cosa? I giudici non hanno senso del reale.
Il “papello” di Riina, che i giudici
tanto denunciano, non prevedeva esattamente quello che la Corte Europea dei
diritti umani impone, l’abolizione dell’ergastolo? Sì. Ma celebreremo mai un
processo alla Corte Europea per mafia? No, giudice non morde giudice.
Catanzaro ha il record della raccolta
differenziata, col 67 per cento. Bari ha fatto meglio in uno dei quartieri, con
l’80 per ceto. Cosenza è passata in sei ani dal 22 al 66 per cento. In paese,
si può testimoniare, la differenziata è stata al 100 per cento appena promossa,
senza nemmeno tante spiegazioni, dal Comune. Il Sud è legalitario Sarebbe, se i
Carabinieri gliene dessero lo spazio. Debellando la mafia, per esempio, invece
di coltivarla ingigantendola.
Ma il Sud ha un solo impianto per il
trattamento dei rifiuti, quello di Acerra in Campania. Voluto e realizzato peraltro
dal governo screditato di Berlusconi. Purtroppo il Sud è materia di
chiacchiere, nella chiacchiera generale che è la politica italiana.
Il Sud dovrebbe emanciparsi dall’Italia:
tutti i discorsi sull’unità sono terribili, e inutili, perché confluiscono sul
vincolo territoriale. No, il Sud deve liberarsi dalle chiacchiere italiane,
tornare fattivo.
Il
Cavazzoni mafioso
“C’è stata un’epoca in cui vincevo
continuamente dei premi (letterari) specie nel sud d’Italia, ho vinto a Palmi
in Calabria, a Cosenza, a Catania, a Roma, a Barletta, in Lucania, a Bari, e in
altri posti minori che non ricordo”: Ermanno Cavazzoni, “Quando vincevo i premi
letterari”, “Sole 24 Ore” di domenica. A
parte Roma confinata al Sud, il beffardo Cavazzoni non è contento di
essere confinato al Sud nella critica letteraria e non ha torto: al Sud non si
vendono libri, e se se ne vende qualcuno non lo si paga al distributore. Ma conferma che il cazzeggio ha corso al Sud, l’ironia dissolvente, e un po’
amara.
Lo scrittore emiliano approfitta delle
congiuntura, nel racconto che pubblica nella raccolta “Storie vere e verissime”,
per satireggiare l’illustrazione della mafia, l’esercizio prediletto
dell’Italia. “Mi sono convinto a posteriori che mi appoggiava la ‘ndrangheta:
frequentavo a quel tempo dei calabresi…”. Dev’essere così: “La mafia spazia,
ragiona in grande, usa a loro insaputa le grandi personalità della storia”. E
organizza premi letterari.
I premi letterari mafiosi non è male.
I penultimi che avevano “capito” il Sud e le mafie sono
Fruttero e Lucentini, che sono morti da tempo.
Gesuiti
e cappuccini
Due ordini di Cappuccini si sono formati
attorno al 1552, uno in Calabria e uno nelle Marche - Silvestro Morabito, “Cappuccini
calabresi nel mondo”. Il primo “movimento di riforma” fu calabrese, 1518, a
opera di due francescani di Reggio, Ludovico Comi e Bernardino Morlizzi, cui
furono confidati i conventi di Terranova, Cinquefrondi e Tropea per esercitarvi
con altri confratelli la “genuina” regola francescana. Matteo da Bascio, in Ancona,
seguiva. Ma nel 1525 richiese e ottenne da papa Clemente VII il placet per ritirarsi a vita eremitica.
Una iniziativa che altri due frati, i fratelli Ludovico e Raffaele da
Fossombrone, trasformarono in movimento di riforma. Ottenendo dallo stsso
Clemente VII il 3 luglio 1528 il breve “Religionis zelus” per il riconoscimento
di una nuova congregazione francescana, i Frati minori della vita eremitica.
Anche i frati calabresi, spiega padre
Morabito, avevano ottenuto nel 1525, in occasione del pellegrinaggio a Roma per
l’Anno Santo, un breve papale di riconoscimento, che consentiva loro, insieme
con altri dodici fratelli, di ritirarsi nell’eremo di Valletuccio. Ma questo
breve è andato perduto: nel 1544 arrivò in visita a Mileto, dove il documento
si conservava, il Generale del nuovo ordine, un marchigiano, padre Eusebio di
Ancona, che se lo prese per portarlo alla sede centrale a Roma, dove non si è più
trovato.
Padre Silvestro Morabito, nome arabo,
professione cappuccino, tratta nella sua storia dei Cappuccini missionari. Con
orgoglio. Ma c’erano missionari e missionari.
I
cappuccini, i barbadinhos, erano la
causa del ritardo dell’Angola, secondo José Eduardo dos Santos, scherzoso ma
non del tutto, un ingegnere di Mosca, incontrato ad Algeri, compagno di Agostinho
Neto nella guerra contro il Portogallo per l’indipendenza dell’allora colonia – di cui
poi sarà il “presidente” ininterrotto per quarant’anni, fino all’anno scorso.
Ma, poi, senza loro colpa.
Il fatto è narrato nel romanzo di Astolfo, “La gioia
del giorno”:
“È
scettico José Eduardo dos Santos, un ingegnere, coetaneo:
“- Tutta
l’Africa è indipendente, eccetto le colonie portoghesi: per quale peccato? – E si
risponde: - C’è chi ha avuto i francesi, chi gli inglesi, chi i gesuiti. Noi
abbiamo avuto i portoghesi e i cappuccini, i poveri di Europa, che dopo due
settimane montavano come conigli, insabbiati nella brousse. Siamo la
loro carne.
“I cappuccini
accatastano teschi in chiesa, a Palermo, a via Veneto, al Kreuzberg, ma fuori,
si vede, se la godono. Sono bizzarri i destini della storia. L’Africa
subì i cappuccini, ma i guaranì e gli altri nativi americani, che i gesuiti
protessero dalla stupidità coloniale, non ne furono salvati. Né si può dire
negativo l’ardore dei cappuccini. Il progressista marchese di Pombal, che
perseguitò i gesuiti, impose agli angolani l’emigrazione in Brasile. Ne
nacquero il samba e tanti brasiliani. Il marchese, riponendo la prosperità
nella demografia, fece del Brasile un fottisterio: “L’estrema voluttà dei
portoghesi li portava a integrarsi senza difficoltà ai tropici”, così Freyre
spiega il lusotropicalismo, prima della squalifica del negro, e delle negre.”
I
Versace carbonai
Se è vero quanto racconta Donatella
Versace a “Io Donna”il 14 settembre, i Versace vengono da una famiglia
importante di Reggio Calabria. Santo, il fratello maggiore, laureato (con 110 e
lode) in giurisprudenza a Messina. Donatella con studi universitari a Firenze.
La madre stilista, e non una sartina. Il padre un ricco proprietario terriero:
“Mia madre era una donna molto forte e autonoma. Veniva da una famiglia povera,
si era fatta da sola: aveva sposato un uomo ricco, perché i Versace possedevano
miniere di carbone, ma lei non gli ha ma chiesto un soldo. Aveva una grande
sartoria, lavorava tantissimo e io la vedevo davvero poco. Siamo cresciuti con
una specie di zia che stava con noi”
“Miniere
di carbone” è inesatto, non ce ne sono mai state, né in Calabria né in Italia.
Si produceva carbone di legna, che allora era richiesto, nelle carbonaie, in
primavera, nei grandi boschi dell’Aspromonte. E attorno a Carmelia, in
territorio del comune di Delianuova, di cui i Versace erano proprietari per
larghe superfici – la parte del Demanio che con l’Unità era sta ceduta ai
patrioti e agli amici degli amici.
Ercole
Versace, che per la famiglia curava gli interessi in montagna, fu il primo dei sequestrati
dell’Aspromonte, il 3 luglio del 1963.
Delocalizzazioni
Si
commissaria l’Asp di Reggio Calabra, con grave scandalo: ha accumulato 240 milioni
di deficit. E lo scandalo continua dopo tre mesi. A Massa, per una popolazione
che è un terzo della provincia calabrese, l’Asp ha fatto un crac di 400 milioni.
Non ora, dieci anni fa. E nulla: la Regione Toscana l’ha commissariata e
risanata senza storie. Con la pretesa di avere la migliore sanità d’Italia.
Anche se ha il record di morti quest’anno per il virus New Delhi, dopo avere
avuto per alcuni anni quello dei morti per meningite.
Avviene
di passare un mese in Toscana e un mese in Calabria, oltre a vari soggiorni
alternati nelle due regioni. Tra il più augusto compiacimento, cioè, e la
celebrazione costante, e il continuo disprezzo, una geremiade costante.
D’estate
il mare di Massa è molto celebrato, Riviera Apuana e Versilia. Molto caro. Con
molte bandiere blu - Legambiente è sempre legata alla Toscana, benché la Toscana
non sia più “rossa”. Anche se dopo ogni temporale, anche di pochi minuti, la
sporcizia galleggia sulle acque e l’Arpat deve dichiararle non balneabili, per
almeno 5-7 giorni - i torrenti che vanno a mare dalle Apuane sono neri di sporcizia. Come dire che si può passare la stagione senza mare. Nella
Costa Viola, tra Palmi e Scilla, il mare è trasparente in proporzione inversa,
nove giorni su dieci. Ma senza bandiere blu. E con titoli che campeggiano sui
giornali allarmistici per più giorni se una macchia qua o là appare.
Anche
i servizi lasciano a desiderare, a Massa e dintorni. Specie quelli essenziali, alla
“navigazione”. Il segnale è scarso in tutta la riviera, nelle residenze –
bisogna andare sulla spiaggia, dove i bagni si sono organizzati un wi-fi. Ed è
assente in molti paesi, anche popolosi, delle Alpi retrostanti - che pure sono
tutti vista mare, quindi sarebbero facili da servire, non fosse l’incuria. Si
telefona dovunque negli anfratti dell’“area metropolitana” di Reggio Calabria.
C’è
una evidente percezione diversa degli stessi fatti, in dipendenza dalla localizzazione.
È positiva e convinta a Nord, pessimista e perfino disfattista a Sud - anche a
Roma (a Roma si vede ogni giorno leggendo la cronaca di Milano sul “Corriere
della sera” e la cronaca di Roma sullo stesso giornale: semplice e osannante
quella, corrucciata e disperante questa).
Ma
è pur vero che la storia dice, nella fattispecie, che i Romani, per punitre gli
Apuani e i Sanniti, irriducibili, li delocalizzarono: gli Apiuanid deportarono
nel Sannio e i Sanniti nelle Apuane.
leuzzi@antiit.eu