sabato 16 novembre 2019

Shopping - l’acquisto prolunga la vita


Più andava avanti con gli anni, più libri comprava. Illudendosi forse di avere più tempo per leggerli, tempo libero dalle incombenze, dalla ananke. Gli scaffali riempiendo anche a doppia fila, col problema di rendere i libri stessi irreperibili, se non con spreco di ore e giorni, in ricerche anche vane. Accumulando cioè libri non letti, il tempo è fisso,  non è elastico. 
Si comprano libri anche per vizio, ci sarà una bibliopatia, al di là della bibliomania, come c’è una ludopatia, una dipendenza fra le tante. Ma il piacere è forte con cognizione di causa, sapendo cioè che è uno spreco. Sapendo che, morto il de cujuus, è già avvenuto col padre e gli zii, gli eredi non sanno che farsene dei libri: sono ingombranti e valgono poco, se ne liberano perfino a un costo. È un investimento non a futura memoria, come può essere una casa, un quadro d’autore, un deposito titoli, ma a proprio piacere. A un dialogo compiacente – certo, muto. Una (piccola) offerta sacrificale, a chi tanto ha faticato e bene prodotto, l’autore è un benefattore dell’umanità. Un prolungamento della vivenza, il certificato che le Poste richiedevano per pagare la pensione ai nonni. Non della memoria ma del sentirsi vivi – a un certo puto acquistare è inutile, lui stesso lo sapeva benissimo, ma è un piacere.


La definita indefinitezza

Si parte dalle domande: che cos’è concetto, che cos’è fondamento? “Comprendere concettualmente il fondamento significa raggiungere il fondamento di tutto in un conoscere che non si limita a prendere atto di qualcosa ma che – in quanto è un sapere - è al tempo stesso uno stare che mantiene un preciso atteggiamento”. È cioè condizionato, da un pregiudizio. Di cui bisogna liberarsi. Nel caso, è il vezzo di dirsi conoscitori della “grecità”. Vezzo che Heidegger si propone di smantellare. “Concetti fondamentali” sono in realtà i “concetti del fondamento”, del principio.
Questo è il corso del semestre estivo del 1941. Una serie di lezioni che si doppieranno poi nel voluminoso “I concetti fondamentali della filosofia antica”. Antica, cioè greca. E greca delle “origini”. Concetti che poi rimangono imprecisi, fluidi: il procedimento è che ogni definizione apre una serie di altre.
Una sorta di ermeneutica volgare, interminabile. In mezzo a una rilettura del mondo e della storia innovative e antitetica rispetto al senso comune, e perciò attraente. “Il più remoto” non è necessariamente “il più obsoleto”: “Il più remoto può anche essere il primo per rango e ricchezza, per la sua originarietà e per il carattere vincolante che assume per la nostra storia”. 
Ma, poi, “il nostro elemento primordiale” è “per noi la Grecità”. E cos’è la “grecità”. Quella di Heidegger: tra i cultori della “grecità” “non c’è una sola persona che abbia una minima idea del fatto che nella Grecità vi sia un inizio e di come esso sia”. Eccetto Heidegger: lui solo ne ha scoperto l’inizio e ne possiede la chiave. Che non svela.
Si penserebbe a delle definizioni. Che però anche qui vengono eluse. Con rinvii a significati al limite dell’esoterico. In linguaggi apparentemente complessi, ma per ciò stesso che le parole e i concetti restano indefinite - e in traduzione ancora peggio: indefinibili. Una matricola digiuna di filosofia che riterrebbe del corso? Che la grecita è un rompicapo.
Il curatore dell’edizione italiana, Franco Camera, deve prendere le distanze in avvertenza, come tutti i curatori, dalla sua stessa traduzione. In rapporto a un originale che non si sa o non si lascia definire – e non è colpa del tedesco, quello si impara.
Tutto è problema di lessico, Heidegger è lessico. Col vizio per di più di parlare tra virgolette: dell’indovinate che, o del qui lo dico qui lo nego. Parla pregnante, che si vuole e si intende più ricco, più coinvolgente, e il lettore o studente erige a pensatore, ma alla fine dell’esercizio lascia perplessi. Troppa avena alla mangiatoia, o una esercitazione in bianco, un facciamo finta di? Sin dall’inizio: che cos’è concetto, che cos’è fondamento.
Martin Heidegger, Concetti fondamentali, il melangolo, pp. 159 € 14,50

venerdì 15 novembre 2019

Cronache dell’altro mondo (44)


Keanu Reeves si fa un dovere di non sfiorare le ragazze che insistono per i selfie: non nasconde le mani, né le lascia inerti, le mostra lontane.
Lo stesso attore è idealizzato perché la sua nuova compagna, artista visiva, peraltro celebre di suo, Alexandra Gant, va in giro a cinquant’anni con i capelli grigi. Lei non conta, nella coppia Reeves-Grant. Anzi è assomigliata, per complimento, alla “settantaquatrenne Helen Mirren”. L’America è un paese governato dalle donne, ma antifemminista.
Un pensionato dell’esercito americano, ufficiale di artiglieria, scrive in un saggio sulla rivista “The Atlantic”, “My Army service made me believe in universal health care”: “Prima di arruolarmi non capivo la sanità pubblica, né alcuna forma di assistenza sanitaria pubblica. La sanità pubblica in qualsiasi forma mi sembrava oppressiva, un limite alla mia libertà”.
È sulla riforma sanitaria di Obama che il partito Democratico ha perso le elezioni già vinte del 2016. E ora pensa di limitarla, cioè di ripudiarla.
Si processa il presidente eletto, Trump, per abuso dei poteri presidenziali. Ma non su fatti - illegalità o procedure  anticostituzionali: su testimonianze, di avversari, qualcuna anonima.
Non si fa il processo a Trump in un tribunale, con giudici, accusa e difesa, ma come uno show televisivo, nel quale alcuni personaggi si esibiscono, più o meno convincenti. La berlina, nata per ridere, come massima forma democratica – un processo non è uno scherzo. 
Il rifiuto del presidente – la mancata accettazione del voto – in America non è nuovo, determinato dal personaggio Trump. I necrologi per il 41mo presidente George Bush sono unanimi nel dirlo l’ultimo presidente accettato, non rifiutato cioè dagli oppositori. Dopo Bush padre ci sarà solo l’esercizio irriflesso della passione politica, da destra e da sinistra, contro Clinton, Bush jr., Obama, Trump.

Non buttare niente, è una fortuna

L’economia della conservazione e del riciclo - della sostenibilità- trattata in dettaglio, nelle tante sua articolazioni, e nelle opportunità che offre, anche nel quadro della nuova economia green. Nonché della sua articolazione, con relativi finanziamenti, in sede europea.
“Città, imprese e modelli produttivi, l’Italia che cambia” è il sottotitolo. L’Italia è il paese in Europa, e a questo riguardo nel mondo, che più è cambiato – forse in subordine o alla pari con la Germania. Eccetto che per alcuni pregiudizi o resistenze conservatrici, specie sulla termovalorizzazione dei rifiuti, che pure consente di ricavarne ottimi beni: concimi naturali e potenza elettrica. L’economia del recupero o riciclo (restauro, riuso, ricostruzione) nasce con “I limiti allo sviluppo”, che il club di Roma elaborò ne 1970, e la crisi petrolifera tre anni dopo in qualche misura impose. Di pari passo con le politiche anti-inquinamento o ambientali, che la presidenza Nixon aveva varato in America nel 1969.
Molti passi sono stati da allora fatti, e sopratutto molte tecniche nuove elaborate in questa ottica. E oggi l’economia circolare è una parte già consistente della struttura produttiva, e quella che cresce più rapidamente – insieme con le ultime applicazioni dell’elettronica, l’intelligenza artificiale. Si è già al riutilizzo delle batterie esauste da auto elettrica.
Di fatto nessun riciclo è impossibile. Eccetto che per le scorie delle centrali nucleari. E questo è l’esito di un’utopia – o di una politica industriale surettizia – affrettata negli anni 1970. Quando i “limiti allo sviluppo” si imposero non per la preservazione del pianeta ma per una previsione sbagliata di esaurimento prossimo venturo delle fonti di energia fossili. Con esiti però anche qui positivi: Exxon, allora potentissima compagnia petrolifera, la più grande al mondo, e il gruppo che più capitalizzava nelle Borse, varò il programma meglio finanziato e più spedito nella ricerca sulla trazione elettrica.  
Start Magazine, Economia circolare, pp. 116 sip

giovedì 14 novembre 2019

Appalti, fisco, abusi (161)


Arriva a Roma in pompa e in festa Angela Merkel per sovvertire la politica bancaria europea: dal bail-in, a carico degli azionisti, e anche dei depositanti, imposto quando le banche italiane erano in difficoltà, al fondo assicurativo europeo a garanzia dei correntisti, a cui l’Italia dovrà pagare il suo 12-13 per cento, ora che in difficoltà è Deutsche Bank, con i suoi milioni di correntisti. Così funziona l’Europa.

L’istituzione del Fondo europeo di garanzia dei depositi è presentato – oggi - come un favore alle richieste italiane - di quattro anni fa. In “cambio”, a ringraziamento?, la Germania vuole il divieto per le banche europee, compresa la Bce, la banca centrale, di acquisto dei titoli di Stato.
Si presenta il divieto come una forma di riduzione del rischio. Ma cosa c’è di meno rischioso dei titoli di Stato? No, è una mossa contro le banche italiane, che prosperano con i Bot. Così funziona l’Europa.  

Sky ha imposto l’HD, l’alta definizione, a un costo, Mediaset vi ha ristretto le sue reti generaliste, Canale 5, Italia 1 e Retequattro. Ma al primo fulmine del primo temporale l’immagine si degrada e il segnale normalmente poi scompare.

Dopo tre anni, quasi, di inattività, l’assessore alla Mobilità della sindaca Raggi a Roma vara il suo “piano verde”: allunga la Ztl dalle 18 alle 20 e aumenta il parcheggio orario da € 1 a €1,50. Del 50 per cento. Non incrementa il trasporto pubblico, raddoppia le tasse (aumenta anche il ticket annuo per l’ingresso nella Ztl) ai disperati della circolazione obbligatoria – la gente, in genere, che lavora.

Parigi capitale della pittura

Molti quadri “invisibili”, anche di collezionisti italiani. Di tutti i pittori che vanno sotto la stessa etichetta, Cézanne, Monet, Renoir, Manet, Pissarro, Gauguin, Sisley, Berthe Morizot, che poco si vede. Col primo Gauguin, l’amico di Van Gogh, che si tagliò l’orecchio quando ne fu abbandonato. Con tanti Caillebotte, per l’Italia una novità. Con ottime didascalie, svelte e informative.
Sullo sfondo, che oggi appare miracoloso, di una città, Parigi, che aveva saputo diventare la capitale mondiale dell’arte, dell’amore e dei Rothschild. Nel segno della rivoluzione, in regime più o meno costante di controrivoluzione. Faro di attrazione per italiani, spagnoli, belgi, olandesi, russi. Negli anni della massima sfortuna politica forse della Francia, facendola diventare, scriveva Nietzsche, “la sede della più spirituale e raffinata cultura europea e dell’alta scuola del gusto” – massimamente per le arti, per “la facoltà di provare apssioni artistiche. È l’Ottocento francese, che culminerà col ballo Excelsior, del Progresso e la Pace immutabili: un guizzo di luce sull’orlo del baratro.  
Un mostra-recupero organizzata in Italia, da Arthemisia, per la cura delle due maggiori esperte, Claire Durand-Ruel e Marianne Mathieu. Nel palazzo che Paolina Bonaparte, la madre, abitò negli ultimi anni, nel culto del figlio, restaurato da Generali e aperto al pubblico.
Impressionisti segreti, Palazzo Bonaparte, Roma

mercoledì 13 novembre 2019

Ombre - 487

Viene Merkel a Roma in pompa e in festa per candidarsi alla presidenza della Ue fra un anno, dopo aver messo alla Commissione la sua donna, Von der Leyen, col contributo determinante di Roma, e rilancia l’unione bancaria, che finora ha boicottato, “fondamentale per garantire la stabilità dell’euro”. Ora che ne ha bisogno per salvare Deutsche Bank dall’insolvenza (sic).

Brache calate di Conte a Merkel, come alla vecchie feste democristiane immortalate da Sciascia in “Todo modo”. Questi “europeisti” fanno di tutto per alimentare e accreditare il sovranismo.
Sono peraltro intramontabili: si sono impadroniti dell’Europa e non la mollano.

Si discute se rimettere lo scudo penale per le infrazioni pregresse agli attuali proprietari dell’Ilva di Taranto, quando gli attuali proprietari si sono già avvalsi della cancellazione dello scudo per sottrarsi alla proprietà dello stabilimento pugliese. Come se non si sapesse che la protezione penale è stata levata, per decreto, proprio per consentire agli attuali proprietari di scaricare l’impianto, pentiti dell’acquisto, senza pagare pegno.

A capo dell’Ilva di Taranto ArcelorMittal aveva messo per questo tre settimane prima, a sorpresa, la manager di più lungo e solido pedigree presso i 5 Stelle, e di maggior credito, Lucia Morselli. Una nomina “incomprensibile” per i sindacati. Ma non per i 5 Stelle, che le procuravano con la revoca dello scudo penale l’occasione avvocatesca per sfilarsi dall’Ilva. Morselli era nota per aver messo in ginocchio le Acciaierie di Terni, per conto del gruppo Thyssen, malgrado 40 giorni di sciopero. 

L’abolizione dello scudo penale è contraria ai patti di acquisizione dell’Ilva fra lo Stato e ArcelorMittal, e contraria alle leggi – non si è responsabili per atti o misfatti commessi da altri. Se questo non è un pretesto.
Si può ipotizzare fra i “nuovi” e “nuovissimi” parlamentari l’ignoranza dei principi del diritto, ma non per il presidente del consiglio che l’abolizione ha decretato, l’avvocato Conte.

Laura Laurenzi invita sul “Venerdì” a mangiare pasta. Come dieta: “Evviva la dieta della0 pasta (salse escluse)”. Laura, ma ci hai provato? La pasta senza la salsa?

Pensoso, nostalgico, il commentatore principe Michele Serra evoca su “la Repubblica” “un bel governo, silenzioso e laborioso, di soli Lamorgese, di soli prefetti, e funzionari di Bankitalia, e grand commis dello Stato”. Cioè il fascismo, puro e duro.
Carlo De Benedetti, se mai riguadagnerà il controllo di “la Repubblica”, perché non vi apre una scuola di democrazia?

Serra non è radicale e non è chic. È semplicemente fascista. Non di Mussolini naturalmente, quello è morto.

È difficile concepite tanta antisportività quanta se ne è vista da parte dei calciatori inglesi in Atalanta-Manchester City e dello stesso allenatore Guardiola. È vero che nella squadra inglese non c’era nessun inglese – a parte uno chiamato a fare il portiere di riserva della riserva, che sé divertito un sacco. Ma l’arbitro bielorusso non li ha temuti e anzi li ha ben regolati, con eleganza.
Un arbitro bielorusso? Non c’è più religione.

L’arbitro italiano fa la partita. In trenta secondi Rocchi espelle due dell’Ajax e dà un rigore, che non c’è, lo vedono tutti, al Chelsea. L’Ajax che vinceva con merito 4-1, con un  Chelsea inconsistente, si accontenta di pareggiare 4-4. È finita in “glorious farce” – “The Independent”, giornale londinese, pro Chelsea.
È Abramovic che bisogna accontentare, il boiardo russo padrone del Chelsea? È possibile: queste Champions League di Čeferin sono tutte addomesticate dagli arbitri, a favore dei più potenti in federazione, che solitamente sono i più ricchi personalmente. Arbitri mandati da designatori italiani, Collina prima Rizzoli ora. La giustizia italiana fa paura.

“Trentamila euro di multa con diffida” alla Roma, la squadra di calcio, informa “la Repubblica”, “per i cori di matrice territoriale intonati più volte contro Napoli”. Di matrice? Territoriale? Tipo Est contro Ovest? O viceversa.

Un signore di settant’anni è fermato dai Carabinieri a Trastevere perché è ben vestito, e ha in tasca 250 euro. Il prelievo solitamente del bancomat. Gli viene perquisita la casa e viene mandato a giudizio. I Carabinieri non hanno nient’altro da fare? A Trastevere?

Pound, l’americano di Joyce

Pound al suo meglio. Acuto e attivo con tutti i fermenti nuovi in lingua inglese negli anni di Londra, i 1910. Sempre agitato, e tuttavia di giudizio (quasi) sempre giusto. Provvidenziale: quello di cui Joyce aveva bisogno “per tenersi su non solo materialmente ma anche emotivamente”, nota Forrest Read, il curatore della raccolta.
È la vecchia raccolta di lettere e saggi a e su Joyce di Ezra Pound, grande promotore, se non inventore, dell’autore dell’“Ulisse”, a cura di Forrest Read, irlandese di Belfast, apronata presumibilmente negli anni 1940 – Read è morto nel 1947. Pubblicata da New Directions nel 1967, tradotta per Rizzoli da Ruggero Bianchi nel 1969, riproposta da SE nel 1989. Con una nuova traduzione, di Antonio Bibbò, e una introduzione di Terrinoni, il joyciano animatore della riscrittura di “Finnegans Wake” in italiano.
Lettere formidabilmente vivaci. Piene di consigli editoriali e tagli per l’“Ulisse”. L’amicizia fu particolarmemte stretta negli anni 1910 e i primi 1920, della “nascita” di Joyce narratore e poi dell’“Ulisse”. Tra due giocherelloni che si divertono e divertono con la lingua, anche per dimenticare le difficoltà pratiche. Pound fa tutto, una sorta di letteratissimo super-agente letterario: promuove Joyce, lo fa pubblicare, lo recensisce, lo consiglia, lo stimola. Una relazione sempre a distanza, seppure intima. Fino a diagnosticare a Joyce il “mal d’occhi” che poi sarà accertato clinicamente – e a prescrivergli, da londra a Trieste, i colliri giusti… Una storia di amicizia, che poi finisce. Ma piena di riferimenti per la stria della letteratura, qualora ritornasse in vita. 
Nell’inverrno del 1913 Pound, segretario di Yeats, confinato quindi nel Sussex, compilava un’antologia di “imagisti”, la corrente poetica che, col “vortisicmo”, lui stesso aveva ispirato, per rinnovare la sonnolenta scena inglese, ancora post-vittoriana – un “movimento” che annovera tra I tanti T.S .Eliot (altro beneficiario illustre vdei “consigli” e “tagli” di Pound, al quale però, lui, resterà grato). Chiese al suo principale se aveva dimenticato qualcuno e Yeats fece il nome di Joyce, “un irlandese che ha scritto alcune buone poesie e ora vive a Trieste”. Pound scrisse a Trieste per avere il permesso di antologizzare qualche poesia, e il rapporto si stabilì stretto per una decina d’anni. Fra due stravaganti che però facevano sul serio. Joyce ebbe da Pound incoraggiamenti costanti, la pubblicazione di tutti i lavori che veniva via via producendo, presentazioni e recensioni promozionali, aiuti finanziari, perfino l’assistenza medica. E il lancio alla fine, sul mercato letterario di Parigi, dopo Joyce finì per stabilirsi dopo la guerra, come il romanziere geniale della nuova generazione. Con il difficile, anzi difficilissimo, “Ulisse” – un aborto senza Pound? non si può sapere ma non si può escludere, e anzi è probabile. 
L‘opinione prevalente è che Pound è stato determinante nell’elaborazione, la presentazione e l’affermazione dell’“Ulisse”. Dopodiché il rapporto, tanto intenso nei dieci anni fino all’uscita del romanzo, non poté che degradarsi. In una serie di reserve da parte di Pound. Mentre Joyce taceva. Una ragione fra le tante per cui Pound lascia Parigi, dove aveva invitato e imposto Joyce, per l’Italia.
Non c’è molto di Joyce nella raccolta, a parte un paio di scherzi. Al confronto dell’esuberanza e la generosità di Pound, Joyce appare anzi riservato. Nessun interesse per l’opera di Pound, poca rispondenza ai suoi entusiasmi, anche se riguardavano per lo più i suoi scritti, quelli di Joyce. Joyce stave bene a Roma e a Trieste, esuberante, benché se ne dichiarasse insoddisfatto, e poi a Parigi, in Europa, ma aveva estraneo l’americano, benché fosse stato lui a invitarlo e imporlo a Parigi, e malgrado la lingua comune e la comune spinta all’invenzione.
Ezra Pound, Lettere a James Joyce, Il Saggiatore, pp. 474 € 45

martedì 12 novembre 2019

Problemi di base - 521

spock


L’uovo non va più fresco?

L’eterno, l’effimero?

C’è la velocità della luce, e quella del buio?

O la luce viaggia invasiva, oltre che istantanea?

“Sterminare i contadini, come bestie feroci e cani rabbiosi” (Lutero)?

Amare perdutamente?

La bellezza si paga - c’è un tariffario?


spock@antiit.eu

Ecobusiness - Verde marcio

Si annuncia la fine dell’acqua, che non può finire, per farla pagare il doppio. Da parte di Comuni e Acquedotti consortili che mediamente sprecano metà dell’acqua catturata agli invasi.
Si specula sulla fine del petrolio, che invece è strabbondante, per farlo pagare cone l’oro.
La Tesla Model 3 “L’Economia” dà per il modello più venduto a settembre – una macchina da 51 mila euro in su. Anche in Europa. Tra i primi dieci modelli più venduti. Non è vero. È tra i primi dieci modelli più venduti fra le auto elettriche.
La lobby elettrica è dominante. Che è tutto il contrario dell’ecologia o protezione dell’ambiente.
Nulla si sa dell’auto elettrica, se non che è un must. Sulla durata delle batterie, in condizioni di tempo variabili, per un uso intensivo. Sugli sbalzi di tensione. Sulla rete di rifornimento. Sugli investimenti nella rete – un doppione rafforzato delle reti esistenti per illuminazione e forza motrice.
L’Italia è al primo posto in Europa - dati Aea, Agenzia europea per l’ambiente - per morti premature da biossido di azoto, prodotto principalmente dai motori diesel: 14.600 nel 2018.
L’Italia ha anche il più alto numero – dopo la Germania, che ha però una popolazione di 82 milioni – di decessi prematuri causati dal particolato fine  PM2,5, le polveri sottili: 58.600 nel 2018. L’Italia muore di particolato pur avendo un clima relativamente mite: due quinti del particolato, il 38 per cento, è l’effetto del riscaldamento. Il 22 per cento è prodotto in campagna, dagli allevamenti e le colture. Il 16 per cento è l’effetto della circolazione stradale, compresi i carichi pesanti.
Legambiente ha censito a metà ottobre 20 città capoluogo fuorilegge per il superamento del limite annuale previsto per le polveri sottili.
Una bistecca inquina più di un’automobile – non è vero (i dati non sono comparabili) ma è suggestivo: per ogni chilo di manzo si producono nella filiera a partire dall’allevamento “fino a 60 kg di CO2”, equivalenti a venti litri di benzina bruciati da una macchine di media cilindrata.
E l’acqua? Per arrivare a un kg. di carne dal macellaio si utilizzano fino a 15 mila litri di acqua.
Per un kg. di riso 2.500 litri. Per uno di patate 500. Per un rotolo di carta da cucina 1.500. 
Non c’è salvezza – è il  secolo della paura? Con la paura si governa meglio.

L’Orfeo Manganelli

La raccolta del titolo è il libro di esordio di Alda Merini, pubblicato a gennaio del 1953 da Schwarz, a Torino, dove Merini, sfollata nel 1943, aveva fatto gli studi per tre anni in casa dello zio tenente colonnello. Ventunenne ma già riconosciuta, poetessa prodigio a quindici anni, quando una sua composizione era stata letta da Agnelo Romanò, che la indirizzò a Giacinto Spagnoletti, che sarà suo pigmalione attento, mentre Manganelli se ne incapricciava, e poi Quasimodo.
Orfeo è Manganelli: “Orfeo, novello amico dell’assenza,\ modulerai di nuovo dalla cetra\ la figura nascente di me stessa”. Ma sono composizioni rarefatte. Di gergo ermetico, la stagione dell’epoca. E di oscuro, sinistro, ripensamento, se non pentimento: tra i tanti fiori e colori della raccolta, il discorso è soprattutto di spine.
Il volume riproduce la raccolta Scheiwiller del 1993. Con la plaquette del titolo ne fanno parte altre precedenti pubblicazioni: “Paura di Dio”, Scheiwiller, 1955, “Nozze romane”, Schwarz, sempre 1955, e “Tu sei Pietro”, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1962. In nota alla riproposta Alda Merini dirà la raccolta del titolo, 1953, “il primo balzo verso la felicità della menzogna e verso la notorietà”. Realistica anche sugli affetti: “L’amore a quindici anni è circoscritto”, “estremamente attento” ma “fragile”: “L’adolescenza, periodo mitico e burrascoso, è sempre alla ricerca disperata di un vertice (di un verso) che la possa oltraggiare e al tempo stesso difendere”. Nel suo caso da succube: “L’amicizia co Maria Luisa Spaziani e gli amori anche discutibili con noti letterati del tempo” (Manganelli e Quasimodo, n.d.r.) “hanno influenzato la mia prima produzione letteraria”.
Merini insiste anche sulla poesia come dono, che lei avrebbe avuto contro ogni handicap: la madre filistea, la scarsa fortuna e quasi indigenza familiare, gli studi professionali. La grazia avrebbe fatto miracoli: confinata all’avviamento professionale dalla famiglia, un suo componimento, “nel quale avevo fatto un poco il verso a Caducci”, viene letto da una insegnante di latino, e quindi “con unanime assenso dei professori” viene iscritta “agli studi classici superiori e preparata alla maturità”. Di fatto, tornata a Miano nel 1946, suscita l’attenzione di Romanò e Spagnoletti, e di Manganelli, ma è rifiutata all’esame d’ammissione al liceo Manzoni, bocciata in italiano.
Con una postfazione di Vivian Lamarque.
Alda Merini, La presenza di Orfeo, Corriere della sera, pp. 138 € 7,90

lunedì 11 novembre 2019

Secondi pensieri - 400

zeulig


Durata – È concetto che perde credito con rapidità, da quando è stato risistemato da Bergson, innovando sulla durata aristotelica, del ciclo vitale di ogni cosa, del periodo di tempo che è l’esistenza della cosa. Con la durata reale o pura. Una forma di consistenza, contrapposta al tempo volatile, come successione di stati di coscienza, composizione di molteplici stati qualitativi. Si può pensarla sempre come intreccio melodico, ma allora di dissonanze.
Ora si privilegia l’inconsistenza, l’irrilevanza anche, degli stati di coscienza compresi. Esclusi perfino dal linguaggio, che si vuole “corretto”, non discriminante. E per effetto dell’accelerazione, del cambiamento ritenuto o imposto come stato, se non progetto, del vivente. Si prospetta l’attivismo, l’innovazione, la costruzione come moltiplicazione dell’essenza, con esclusione della durata-durevole. Nell’abitazione come nell’abbigliamento, nei modi di vita. Nella coesione sociale e familiare, quindi personale. La migrazione prevale sula stanzialità. Essere è una relativizzazione temporale e valutativa. Niente è più importante – da preservare, durevole. Il cambiamento si privilegia su tutto. Anche se a rafforzamento come sempre nell’attività umana degli interessi. Degli agenti, dei soggetti attivi. Interessi personali, materiali. Costituiti, cioè dominanti, oppure no, start-up, nuovo, che comunque come sempre tira i fili o a questo bisogno (fine, scopo) si predispone.  

Ecologia - La difesa dell’ambiente, che Nixon ha lanciato nel ‘68, è l’industria a crescita più rapida, e senza confini: la felicità ha bisogni sterminati, tutti necessari e urgenti. Riprendersi l’aria, il mare, l’acqua, la vita, è un piano che non ha obiezioni, dalla villetta a schiera al viaggio a Malindi, dalla fitness all’acqua minerale. Mentre una vera protezione del’ambiente imporrebbe una compressione dei consumi e della mobilità.
È diventata pensiero dominante per accompagnare un processo industriale mosso dagli interessi che puntano a sostituire il motore a scoppio con quello elettrico nella circolazione stradale. Un passaggio che imporrà la sostituzione del parco autoveicoli esistente, attorno a un miliardo di autovetture. Interessi soprattutto cinesi, che trovano una sponda sensibile nelle utilities di tutto il mondo che forniscono l’energia elettrica. La natura si protegge da sé, la protezione della natura è un’industria. Quanto bene indirizzata?
Non con l’elettrico. La mobilità non fa comunque bene all’ambiente, e quando non lo distrugge lo inquina. Anche con l’auto elettrica. Che la produzione lascia inalterata di polveri sottili o particolato, il vero agente patogeno. Mentre moltiplica gli inquinanti sia nella fabbrica delle batterie motrici sia nel loro trattamento una volta esauste. E moltiplica le centrali elettriche, di produzione dell’elettricità.
Per contenere i consumi (sprechi) e la mobilità non si ipotizza una catastrofe. La catastrofe si fa incombente se non si procede con la nuova industrializzazione.

Ideologia – È superata dal pensiero “liquido”, “debole”, dall’informazione diffusa, dai social. Si dice ed è vero. In realtà “vive diffusa”: se non come sistema di valori, come ripostiglio mentale. Non sistematica, non coerente, non riflessa o ripensata, e anzi improvvisata e casuale, e quasi un riflesso condizionato, elementare, epidermico. Ma con piglio e pretesa all’assolutezza che è dell’ideologia, della compiutezza in se stessa: come programma di azione che è anche filosofia di vita. Si direbbe: l’ideologia o dell’inconcludenza.

Marx Unheimlich, perturbante, è per Derrida ancora nel 1993, “Spettri di Marx”. Per un bisogno etico e non strettamente politico - anche se Derrida, che non era stato e non era un ideologo, e non si era mai occupato di Marx prima, intitolava il suo intervento “per una nuova Internazionale”. Ma più per i suoi “fantasmi”, i fantasmi di Marx. Il titolo essendo da intendere “spettri agitati da Marx” - il comunismo - e “spettri che agitano Marx”. Volendolo “consegnarlo alla posterità”, cioè esumarlo dalle macerie del Diamat, il materialismo dialettico di salsa sovietica, come spettro tra gli spettri, e come teorico della spettralità. Che Derrida non definisce ma bene si intendono quali esigenze della giustizia, nella libertà. O almeno come insofferenza al nuovo trionfalismo, al nuovo ordine del mondo, che si accredita egemonico col solo sancire la morte di Marx. Una spettralità che sa di esorcismo è scongiuro - una affermazione in negativo, Marx non è più quello.

Postumano – Era in Montale, in un elzeviro, “Sul filo della corrente”, del 1963? Ma con altro esito. In forma critica, una critica in anteprima, ma proprio alla concezione di un ruolo provvisorio e artificiale dell’umanità nella storia, di un equivoco, se non un’ideologia artatamente costruita, dell’Umanesimo: “La innaturalità, dicono, è appunto il destino dell’uomo, uscito dallo stato di natura per entrare nella sua fase artificiale. Nell’uomo sapiente c’era ancora qualcosa di naturale, di scimmiesco, che ora deve estinguersi in vista di un’altra epifania. Avremo un giorno un uomo totalmente selfmade”. Loro, quelli che “dicono”, erano per Montale i marxisti, ma in quanto materialisti.
Il poeta sapeva anche come la cosa si sarebbe prodotta. Il passaggio, “il travaglio”, all’uomo artificiale dovendo durare “secoli”, prevedeva che “in questi secoli di anticamera – supponendo che una catastrofe bellica o geologica non riduca i superstiti alle condizioni dell’uomo di Rousseau – avranno buon lavoro gli psicanalisti, gli psichiatri e i cultori dell’arte autre”.    

Umiltà – È virtù sconosciuta – anche a papa Francesco, che si professa umile. È non fare caso di sé. Che è anche una forza – gli umili Montale, il poeta, dice “forse i soli per i quali si può parlare di successo nella vita”.
È non professarsi umili. Né diminuirsi: è non imporsi e non pretendersi.

Verità - È di difficile configurazione, e anche di difficile accesso, presso gli stessi filosofi, e ognuno di essi in particolare: che cosa hanno voluto dire. L’interpretazione è la regola, l’ermeneutica, ma allora, senza un obbligo di chiarezza-coerenza, sofistico.
L’ermeneutica configura una verità per tutte le stagione, cioè un filosofare per tutte le stagioni. E questo non è filosofico. Non è scientifico: non c’è un scienza, anche solo teorica, buona per tutto.

zeulig@antiit.eu

La guerra viene meglio raccontata


Un “viaggio” giovanile, ma avventuroso. Tra rossi e e bianchi, rivoluzioni e controrivoluzioni, politiche, militari e linguistiche, non esclusa qualche tenzone amorosa. Šklovskij è già a ventiquattro anni il maturo linguista che sarà, autore nello stesso 1917 del saggio-manifesto “L’arte come artificio”, nonché fondatore e animatore di una Società per lo studio della lingua poetica”. Ed è rosso, è un vice-commissario del Popolo. Ma non trinariciuto: soprattutto è curioso, e perplesso. “Viaggio” intitola le sue note come il mentore che si è scelto, Laurence Sterne.
Il viaggio va esattamente da febbraio 1917 a maggio 1922, dalla rivolta degli operai e soldati di Pietroburgo all’esilio dello stesso Šklovskij in Germania, imposto dalla Cekà, la polizia segreta sovietica, con l’accusa di “socialismo rivoluzionario”, uno dei tanti deviazionismi - rientrerà, e vivrà in pace, ma non in accordo.
“Prima  della rivoluzione ero istruttore in un battaglione corazzato di riserva”, comincia così il “Viaggio”. Dopo è vice-commissario politico. “E adesso vivo in mezzo agli émigrés, e anche io mi vado trasformando in un’ombra tra le ombre”. Ma il viaggio non è politico, se non nello sfondo – il suo vuole il viaggio di “un ago senza filo, che passa attraverso il tessuto senza lasciare traccia”, di una zattera nel mare in tempesta, della pietra che si muove cadendo, per la gravità. Uno che non può non vedere le atrocità che le masse contadine commettono all’Est nel nome del bolscevismo. O il massacro dei curdi, anche allora, dei curdi di Persia.
Uno straordinario viaggio negli anni della rivoluzione attraverso tutto l’impero zarista, eccettuata la  Siberia, e le zone d’influenza: il bacino del Dnepr e quello della Volga, il Caucaso, il Caspio, la Persia, e dall’altro lato l’Ucraina, la Galizia. Non tratteggia personaggi né storie esemplari ma dà bene il tono di quegli anni di fronti in continuo rovesciamento. Le macchine sono Fiat. Tra gli incontri occasionali c’è un ingegnere Kalashnikoff – che sarà generale – persona modesta. Storie, imperi, motori, psicologie, morti, feriti, compreso se stesso. Conscio, come dice a un certo punto, che le uniche descrizioni verosimili della guerra sono quelle di Stendhal e di Tolstòj –la guerra raccontata è letteratura.
Un “come si vive nella rivoluzione”. Di scrittura cubista-futurista, di piani sorprendenti, benché ordinata, all’apparenza anzi classica – da futuro autore della “Teoria della prosa”. E un ribaltamento pratico della teorica de “L’arte come artificio”.
La nuova edizione rifà la traduzione di Maria Olsoufieva nel 1967, a opera di Mario Caramitti, ma il risultato è lo stesso. Un occhio disincantato, un linguaggio asciutto. Un narratore sacrificato alla passione linguistica.
Viktor Šklovskij, Viaggio sentimentale 1917-1922, Adelphi, pp. 360 € 22


domenica 10 novembre 2019

Letture - 402

letterautore


Carducci - “Una poesia insieme culturale e ingenua”, Montale, “Auto da fé”, 144.

Francia – Non è più la patria del libro, anche se mantiene l’editoria più vivace e stimolante. L’anno scorso, certifica Vigini su “La Lettura”, ha pubblicato ben 107 mila titoli, contro i 79 mila italiani, ma ne ha venduti solo per 2,6 miliardi, contro i 3,1 del mercato librario italiano. Che pure non brilla in Europa, né per vendite totali né per vendite pro capite, rispetto per esempio alla Germania, alla Gran Bretagna (e alla Russia).

Furio Colombo   È “l’ecolalico Furio X” di una invettiva di Montale, poi raccolta in “Auto da fé”, 309, a proposito dei “casi di conforto o di sconforto, ignoti a chi li produce”. L’ecolalico Furio X, dice Montale, “se un giorno Parise scriverà un capolavoro, ne sarà parzialmente l’autore”. Perché, ha spiegato, “il mio amico Goffredo Parise cade in uno stato di nera depressione tutte le volte che gli capita sott’occhio un articolo dell’ecolalico Furio “. Aggiungendo con la nota perfidia. “Non ho letto nulla di lui, ma pare che questo Furio sia uno di quegli agguerriti tecnocrati che sanno e prevedono tutto, infallibili mostri dei futuri stati provvidenziali”.

Germania – “Dio misericordioso!\ Chi crede che io agogni a tornare\ al caldo tedesco afoso,\ alla felicità da camera del tedesco ottuso!” – Nietzsche, “Risposta”, 1884.

Lettore – È quello che fa l’autore – non c’è autore senza lettore. Ogni opera, anche poetica, argomenta Montale in “Variazioni V” (“Auto da fé”), è in realtà una “traduzione”, a opera dello spettatore della messa in scena, del lettore, dell’esecutore: “Non esiste l’arte ma solo l’esperienza estetica, la quale non ha bisogno di assoluti ma di rapporti”.

Montale – Si faceva scrivere recensioni, “parecchie” dice Soldati, di libri nuovi inglesi e americani da Henry Furst, il critico di italianistica del “New York Times”, stabilito da molti anni in Italia, dapprima tra Camogli e Recco poi a San Bartolomeo di La   Spzia, che presentava ai giornali cui collaborava come sue. Ne “scrisse” molte nel dopoguerra, affannato, dapprima perché sprovvisto di un  impiego e di una rendita, poi perché il “Corriere della sera” gliene chiedeva in gran numero, “cinque al mese” adduceva, “per contratto”. Mentre lui si confessava incapace di leggere, di concentrarsi sulla lettura, di farla spedita.
Il fatto è notorio (e consueto: non solo a Furst Montale chiese recensioni, anche a Maria Luisa Spaziani, successivamente, sua nuova fiamma, e si sospetta a Lucia Rodocanachi, con la quale aveva avuto una breve storia). Confermato - pochi giorni dopo Soldati e il “Corriere della sera” con un’anticipazione di “Rami secchi”, la raccolta di varia di Soldati - da Marcello Staglieno, che decise di pubblicare le lettere di Montale con le richieste, a lui confidate da Orsola Nemi, vedova di Furst, e ne dava anticipazione al “Giornale”. Ma Soldati, che di Furst fu sempre grande amico, anche nell’isolamento, pre- e post-bellico,  fino alla morte, a Ferragosto del 1967, racconta in “Rami secchi” di una viltà di Montale verso l’amico nel 1956, quando, redattore del “Corriere della sera”, non aveva più bisogno del suo aiuto “alimentare”. Dalla raccolta “La bufera e altro”, pubblicata in quell’anno, espunse un poemetto in prosa che aveva scritto, a memoria, nel 1943, su un soggiorno che l’amico gli aveva offerto qualche tempo prima – pubblicandolo, va aggiunto, in “Lettere d’oggi”, bimestrale a scarsa circolazione di Roma, nel numero di marzo-aprile dello stesso anno.  Lo rese noto riesumandolo per intero sul “Corriere della sera” due anni dopo la morte di Furst, il 18 maggio 1969, e spiegandone l’origine. L’esclusione addebitando a ragioni stilistiche: “Fino a quel tempo io non ero autore di nulla che potesse dirsi narrativo e non avevo intenzione di iscrivermi sotto quel’etichetta”. Soldati dice che non è una ragione valida. Soprattutto a fronte della gioia immensa che il poemetto avrebbe dato a Furst, uno che sopra a tutto privilegiava l’amicizia. E attribuisce l’esclusione al rapporto un po’ truffaldino che Montale aveva intrattenuto con l’amico.
Ma un’altra ragione è (anche) probabile: Furst era diventato un innominabile. Era personaggio rispettato, in Italia e in Europa, ma non comodo. Rispettato da Moravia, Mauriac e Henry Miller, oltre che da Soldati, ma pure da Pound, Drieu La Rochelle e Ernst Jünger. “Sgradito ai fascisti”, lo dice Soldati, perché americano e presunto omosessuale, era diventato nel dopoguerra collaboratore del “Borghese”, il settimanale anti-sinistra. Dal tempo di Longanesi, che “Il Borghese” aveva fondato, vi era rimasto confinato, peraltro assiduo, anche quando il settimanale era diventato organico all’Msi.
In un lungo memoir su Montale al “Corriere della sera”, pubblicato sul quotidiano il 12 novembre 1989 dopo l’anticipazione di Soldati, Gaetano Afeltra, redattore capo al giornale poi, da direttore del “Corriere” pomeridiano, inventore del Montale critico musicale, incarico che terrà per tutta la permanenza al giornale,  spiega che il futuro Nobel era molto ben trattato al giornale, da subito, con una stanza propria di fronte a quella del direttore, ma che i primi tempi era intimidito e innervosito dalla novità, il trasferimento a Milano, la stanza d’albergo, la redazione, e non aveva capito che i “cinque articoli al mese” contrattuali erano una formula ragionieristica per pagargli un certo ammontare di spettanze. Aggiunge anche, a proposito di Furst, avendo avuto accesso alla corrispondenza che Montale aveva indirizzato ai vari direttori e redattori influenti del giornale per farsi assumere, che lo chiamava “il pazzo”. Così scrivendo, “il 5 dicembre 1946, a Silvio Negro, il famoso «vaticanista» del giornale: «Caro Negro, tu sei, nel giornalismo, una rara avis, l’avevo già intuito parlando col ‘pazzo’…»”. Il “pazzo”, spiega Afeltra, “era lo scrittore americano Henry Furst”, di cui tratteggia la biografia. A Padova nel 1919 per la storia dell’arte di cui era specialista, fraternizzò con Silvio Negro. Che lo introdusse fra i suoi amici letterati, di cui “ottenne le simpatie per intelligenza vivacità e cultura”. “Uomo estroso e generosissimo” lo dice ancora Afeltra, raccogliendo l’aneddoto di Furst a Fiume, che una notte in un bar, sentendo di una prostituta che va ad abortire, la prega di non farlo. E all’obiezione della donna: “E già, me lo mantieni tu?, risponde: “Te lo mantengo io”. “Nacque una bambina”, prosegue Afeltra, “e la mantenne davvero. L’amico Negro le fece da padrino. Oggi è sposa e madre”.  A Fiume Furst era con D’Annunzio, di cui divenne il segretario.
Curiosamente, tra le lettere al Corriere della sera” che Afeltra menziona, una indirizzata a Filippo Sacchi nel novembre del 1945 vanta una speciale sensibilità di Montale per le recensioni: “Le mie vecchie recensioni a libri di racconti, romanzi ecc., tutte fatte con stile da croniqueur, mi erano state chiese da Croce per Laterza!”. Ma in precedenza lo stesso Afeltra, intervenendo il 25 ottobre sul “caso Furst”, testimoniava la scarsa propensione di Montale alla lettura: “Si annoiava di leggere i libri e io lo vedevo sfogliarli sospirando e leggendo i risvolti di copertina. I libri li annusava”, scusandolo, “ma è quello che fanno molti recensori”.
In un racconto del 1949, “La gazza ladra” (in “Accoppiamenti giudiziosi”), Gadda ironizza sull’amicizia Montale-Furst parodiando un episodio avvenuto l’anno prima. Drusilla Tanzi, la “Mosca” che Montale dopo qualche tempo sposerà, accuso Furst di averle rubato un anello. Non era vero, ma Montale non incontrò più Furst in presenza di Drusilla – erano gli anni in cui gli chiedeva le recensioni.

Nabokov – “Un meraviglioso comparatista”, quale in effetti era, Montale scova Nabokov alla lettura di “Lolita” nel 1959 (“Variazioni IV”, in “Auto da fé”): “Il russo Nabokov non ha uno stile inglese suo, e ne è perfettamente consapevole: scrive come oggi si deve scrivere in America per avere lettori e per poter vendere”.
Ma è farina del sacco di Montale – v. sopra? La notazione sembra caratteristica di Furst.

Nazionalismo – Non fa bene alle nazioni? È il caso di Barcellona, che col nazionalismo catalano ha perduto in due anni lo status di città simbolo del cosmopolitismo, meta privilegiata del nomadismo turistico e giovanile. È il caso anche degli Stati Uniti, dove il numero dei visitatori esteri è rimasto praticamente stabile nei tre anni di Trump, dopo il 2016 – mentre è aumentato del 5-7 per cento altrove, in America Latina, in Europa, in Asia.

 Occidentale – Suona strano in tedesco. È politico, quasi polemico, il titolo del primo volume dell’ultimo fluviale Habermas (millesettecento pagine in due volumi), “Anche una storia della filosofia”: “Die okzidentale Konstellation von Glauben und Wissen”.

Russia – È il paese europeo dove si legge di più (tra libri e giornali): 7,5 ore mediamente a settimana, secondo i rilevamenti a campione del settore. Al secondo posto, in Europa, viene la Germania, con 5,7 medie settimanali, tallonata dall’Italia, 5,6 – al di sotto della media mondiale, 6,5 ore settimanali.

“Il Sole 24 Ore” illustra oggi la recensione di Šklovskij, “Viaggio sentimentale”, con la foto di una manifestazione di protesta a Pietrogrado, l’attuale San Pietroburgo, il 18 giugno 1917, prima del colpo di mano bolscevico, con una folla in posa molto ben vestita e molto “occidentalizzata”.

Übersetzerstreit, contesa dei traduttori – Se ne fanno periodicamente in Germania, di contese, la più recente e famosa è quella degli storici, a proposito del nazismo, e una dei traduttori non sarebbe male, dei traduttori di Heidegger. Non uno dei quali collima con un altro anche nei “concetti fondamentali”, anzi soprattutto in quelli. E così abbiamo tanti Heidegger quanti sono i traduttori.
Heidegger stesso aveva posto molta cura, articolando nei suoi ultimi anni la colossale opera omnia in 120 e passa volumi, in quelli che chiama i suoi “concetti fondamentali”. Ma con definizioni non univoche, o comunque non ali da prestarsi a essere rese in traduzione con esattezza – si direbbe Heidegger talmente basico da restare indefinibile, sia pure per essere pregnante.
Al Book City milanese, la fiera libraria, l’editrice NN può proporre trenta racconti dello stesso autore tradotti da trenta traduttori diversi (l’autore è Robert Coover).
La traduzione è una gara, fra i traduttori. C’è chi vuole meglio, cioè significante, in lingua il testo. Chi vuole restare fedele all’originale. Chi lo interpreta. E, nel caso di una scienza, come la filosofia, di renderlo “aderente” all’originale. Questo, contrariamente alle apparenze, è il metodo più insidioso: da qui la traduzione come Streit, piccola guerra.


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Il corpo floscio della Grande Caterina

Una storiaccia. Digitale poi, cioè di cartapesta, si sarebbe detto una volta – un’imagine dal vivo non c’è, neppure del mare di Crimea: si vede come in una crosta napoletana, costava così tanto? Sceneggiata su un romanzaccio, invece che sulla storia. Ma i caratteri forti fanno racconto, e fanno                                            cinema - da qualche tempo meglio se donne: Elisabetta I, Elisabetta II, Anna. Anche se di vero in queste sei ore ci sono solo i costumi. La stessa coppia protagonista, che fa tre quarti delle pose, Helen Mirren e Jason Clark, sembra posticcia. Lei, Caterina, non ha l’allure dei ritratti, né il fisico della battuta imperiosa, della logica fulminante, con la quale domina la riottosa corte, nonché degli incapricciamenti di una notte. Né, naturalmente a settant’anni, degli amplessi di cui dovrebbe darci illustrazione. Di Potëmkine, pronunciato nella miniserie in vetero-italiano Potiemkin, un bel cavaliere e un abile diplomatico-politico, oltre che un amante amato, si fa un simpatico zotico, forse per accentuare il lato fisico della relazione con l’imperatrice – è vero che il vero Potiëmkine aveva la pancetta.   
Una produzione anglo-americana, ideata, sceneggiata (da Nigel Williams) e girata a Londra, regista e attori inglesi. Ma tirata via, non nella tradizione inglese degli sceneggiati.
Philip Martin, Caterina la Grande, Sky-Atlantic