Non c’è gloria, la guerra è
uccidere. Qualcuno è morto sucida. Il tenente Sturm, cioè Jünger, procede alla sua solita routine, il passaggio da un bunker all’altro, più o meno raffazzonato
ingegnosamente, da una gavetta a un liquore, da un anno sempre nella stessa trincea,
dopo aver mirato al cannocchiale del fucile un soldato inglese che ha appena
dato il cambio di guardia, e forse lo ha ucciso. “Ci si scagliava verso la morte
senza vedere il nemico; si veniva colpiti senza sapere da che parte veniva lo
sparo”. Si combatteva anche alla baionetta, corpo a corpo, senza altro slancio che
della sopravvivenza.
Il secondo libro di Jünger,
1923 – poi dimenticato, da lui stesso recuperate nel 1960. Con gli stessi materiali
del primo, “Nelle tempeste d’acciaio”, che aveva fatto furore nella Germania
della sconfitta: i taccuini del giovane tenente, che, mentre studiava zoologia a
Heideberg, “improvvisamente, per una momentanea confusione dello spirito”, si
era trovato mobilitato. Ma non drammatizzati,
se non per la tensione interna alle considerazioni che vi si volgono. Che l’entomologo
futuro scrittore condivide con due compagni di trincea, al modo dei dialoghi platonici.
Con la nostalgia già di Parigi, ancora non conosciuta: di Baudelaire, del flâneur – come già di Stendhal nel primo
libro. Cioè dell’ipernemico.
Dialoghi-soliloqui platonici,
tristi. Ma qui si avvia l’entomologia dell’umano, singolo e in comunità (qui ristretta, nelle trincee al
fronte), che sarà la cifra di Jünger. Sovrastata già dalla tecnica, fredda.
Solo temperata dal cameratismo, dalla socievolezza. Dopo aver mirato alla
sentinella inglese, il tenente Sturm “continuava a chiedersi con insistenza:
era ancora lo stesso di un anno fa? L’uomo che ancora di recente stava scrivendo
una tesi di dottorato su «La riproduzione dell’ameba proteus per sezione artificiale»?” La guerra ha perduto
molti, oltre ad averne uccisi.
Ernst Jünger, Il tenente Sturm, Guanda, pp. 89 € 11
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