L’attesa, ogni volta che bisogna ricorrere al dottore di
famiglia, è sempre di oppressione per un motivo. La stanzetta dell’attesa
strapiena, quasi fumosa, di gente in piedi e in agitazione, vociante, rumorosa, di donne soprattutto che vanno di
fretta e in qualche modo vi passano davanti, per i buoni uffici di F., la segretaria tuttofare che
dirige il traffico. Che anche voi vi ha fatto venire di straforo, “tra un
appuntamento e l’altro”, ma inevitabilmente privilegia le conoscenze con cui ha
confidenza, per esso, età e pratica sociale, di linguaggio se non di mestiere.
Ora sembra un altro mondo. I pazienti non siamo diminuiti.
“Oh no, siete sempre in tanti”, sorride la segretaria: “Il dottore ha il
massimo dei pazienti consentiti, purtroppo dobbiamo dirottare le nuove
iscrizioni”. Forse ci ammaliamo di meno? Compriamo meno medicine? Sarà la
crisi: spendiamo di meno, ci curiamo anche di meno. Il dottore non sembra
convinto: “Le medicine le ordino io, non è che le ordino in base alla crisi!” E
azzarda: “È un problema di linguaggio”.
Il dottore aveva ambizioni, mantiene gli interessi, gli
piace divagare col paziente, s’immagina con ognuno secondo la sua specialità.
Il fatto è semplice: F. era in età e andava sostituita. Al suo posto c’è ora,
la mattina, la moglie dell’altro dottore, la sera una studentessa di medicina.
Due persone che, per motivi diversi, hanno cognizione delle tipologie e le
sigle degli accertamenti diagnostici, nonché dei medicinali caratteristici: con
loro si parla breve. Possono così essere inflessibili sugli orari: hanno
un’autorevolezza che dà fiducia e libera la sala d’attesa dalle ansie, che si
concentrano su quella di passare per primi – l’impazienza che crea gli ingorghi
e le code.
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