Il personaggio prova il
suicidio in una grotta, non ci riesce, e all’uscita trova il mondo disabitato,
disanimato. Nel suo villaggio, nella vicina città di Crisopolis (Zurigo), nel
mondo intero tra amici e conoscenti: tutti scomparsi.
È un racconto filosofico,
Morselli torna alla fine alla sua prima vocazione, gli studi di filosofia. Non
un racconto, se non per quel senso di deserto da cui il personaggio si sente
invaso. Della “stipsi affettiva” (p. 60) – “ciò che mi manca è il gusto di me
stesso” (67). Con A. Smith concordando a un certo punto che siamo tutti morti,
se la morte è insensibilità. Altre esperienze così liquidando: “Sino a
Ezechiele (dieci secoli dopo Mosè) nessun indizio di una vita ultraterrena”
(81).
La colpa è della Storia. “Gli
uomini hanno scatenato, in trenta secoli, circa 5.000 guerre. Hanno avuto il torto (la trovata risale a Albert Camus),
se non di cominciare la Storia, di proseguirla”
(65). Per esempio oggi (siamo a cinquant’anni fa): “La loro colpa peggiore, o più
recente”, è “l’Imbruttimento del mondo” – cui si sogliono “aggiungere altre imputazioni:
l’Inquinamento, l’Inferocimento (anzi, con eufemismo, la «violenza»). L’Inflazione.
(Senza eufemismo: la peste monetaria)” (ib.). Ma l’abbandono è esilarante all’irrealtà,
al nulla che circonda il personaggio. Cioè alla realtà. Con “Berdiaeff l’esistenzialista”
ipotizzando che “materialismo estremo avrebbe prodotto immaterialismo” (60).
Non conseguente, non molto. Con
la coscienza del solipsismo in agguato, della riflessione avulsa e
inconseguente. Quella che: “la società, dopotutto, è una cattiva abitudine”
(74). Giustificandosi con Nietzsche,”solipsista non confesso ma furioso” (67), “il
tremulo Marcel Proust, il belante Frédéric Amiel” – “pesi massimi (e noiosi
eroi) dell’introversione”, che però “non sapevano cosa significhi «voglio il
mondo per me solo»” (68). Non sapevano che l’uomo dice che l’uomo non esiste.
Un addio in forma di odio-di-sé. Un caso smisurato di autonientificazione: “La società, dopotutto,
era semplicemente una cattiva abitudine”. Incisivo: un riesame ribadito,
moltiplicato, dell’umano come aporia, dell’insignificanza della vita. Malgrado
il robusto sé che si vuole misura di tutto, la riflessione. O a causa di essa,
del rifiuto di essa – delle sue aporie. Che però solo si giustifica se dalla
riflessione si pretende troppo – per l’assolutizzazione dell’umano. Di cui il
personaggio è conscio, ma senza tranne le conseguenze: “Mi sto convertendo al realismo
più piatto”. Che “si può permettere il lusso di essere irrazionale e inspiegabile.
Anche pazzesco” (58).
Guido Morselli, Dissipatio H.G., Adelphi, pp.154 € 12
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