Il
10 aprile 1938, domenica delle Palme dei buoni cattolici austriaci, “il giubilo
sembrava non conoscere confini”, all’Anschluss
con la Germania hitleriana. Comincia così, con una professione antinazista, il
racconto della madre morta, di quando era una ragazzetta: “«Eravamo molto
eccitati», raccontava la mamma”. E non si riprenderà: è una sciocca, e
perdente. Inafferrabile, una vita non vita.
Una
vita che è un pretesto per divagazioni dello scrittore sperimentale – diverso.
Poco significanti, non conseguenti: evocazioni. E una strana compassione, in
forma di rimbrotto. Costante, perenne. In qualsiasi istante di vita di una
donna che, in pochi anni, le aveva passate tutte, ragazza di campagna, Hitler,
l’emigrazione, un figlio con uno sposato, Berlino nella sconfitta, che presto
diventa Berlino Est, il ritorno al paesello in Austria, un marito presto
trascurato, due o tre altri figli, aborti, etilismo del marito, emicranie
soffocanti di lei, e botte, sue e del marito. Una storia non esemplare, e non
particolare. Sociale, sociologica. Finita la lettura, uno pensa: povera donna, avere
avuto un figlio scrittore, ammirato e premio Nobel, così anaffettivo – un pezzo
di legno, parlante, un pinocchietto, selvatico.
La
narrazione per estraniazione era, e sarà, il segno di Handke, e c’è poco da
dire, può non piacere ma gli ha meritato il Nobel. Il personaggio – la madre – è
ben definito e sicuramente resta nela memoria, ma per la freddezza che la
circonda. Donna avventurosa, che ha lasciato ragazza la campagna per Vienna e
la Germania, ha lavorato, si è sempre innamorata, anche se di uomini sbagliati,
ha fatto tre o quattro figli, che ha cresciuti, e finisce preda di nevralgie
indomabili. Non accudita dai figli, Handke è uno, che la ricorda senza un segno
di affetto. La storia si può riassumere così, in senso buono. Ma per rispetto.
Handke
è uno dei tanti austriaci grandi e grandissimi scrittori della finis
Austriae che non sono in pace con se stessi, Musil, Th. Bernhard, Jellinek,
Ransmayr – Bachmann si salva tedeschizzandosi, il compleso di colpa annegando nella storia (o
nel rapporto con Celan). Nella storia impietosa della madre Handke carica il
passato personale della donna, che tutto fa apparire coraggiosa, avventurosa, con
quello generazionale dell’Austria. La madre persona dice del resto di aver scoperto
solo poco prima che morisse, in una improvvisata estiva, quando la trova discinta
sul letto: “Come in uno zoo, giaceva lì davanti a me l’abbandono animalesco
fatto carne”. La madre che scopre – all’animalesco segue “l’idiozia della sua
vita”- è l’effetto di questa veduta, dell’occhio del figlio.
La
storia il racconto finisce per essere dell’insensibilità attorno a lei, del figlio
compreso: “Temeva di perdere la ragione. In fretta, prima che fosse troppo
tardi, scrisse ancora qualche lettera d’addio”. Senza risposta. È strana, ma
sa scrivere lunghe lettere. Senza eco.
Peter Handke, Infelicità senza desideri, Garzanti,
pp. 84 € 12
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