martedì 14 gennaio 2020

Putin nel pantano

All’improvviso la “presenza” russa in Libia finisce nel nulla. Col rifiuto di Haftar, ma di più se Haftar dovesse vincere, imprevedibile, incontrollabile. Come già in Siria, dove Putin ha vinto la guerra per Assad, senza beneficio. L’exploit siriano ha spalancato a Mosca le porte nel mondo arabo, ma nello stesso tempo ha caratteristicamente drizzato molte antenne - in quel mondo la politica funziona così: il successo entusiasma, e allarma.
Ha fatto presto Putin a trovarsi impantanato nel deserto, non solo in Libia: non c’è politica di grande potenza con il mondo arabo, se non per attrazioni remote. E quelle, oggi come ieri, sono occidentali: l’attrazione è dei mercati ricchi e avanzati, di finanza facile.
Putin ha seguito passo passo la decisione di Obama e Hillary Clinton di retrenchment dal Medio Oriente, rafforzata da Trump. Sostituendosi in tutti gli spazi lasciati liberi. Dapprima in Turchia, poi in Siria, da ultimo in Libia. Ha tentato approcci anche verso l’Arabia Saudita e verso Israele. Una espansione diplomatica, che non costa. Forte se necessario di forniture militari avanzate, l’unico settore in cui la Russia è concorrente paritario con gli Usa – forniture che sono in realtà un mercato chiuso, di vendite senza concorrenti, e questo suscita risentimenti più che gratitudine (succedeva pure al tempo dell’Unione Sovietica: “ i compagni russi ci sfruttano”). Ma altro non ci trova.
La “presenza nel Mediterraneo” è residuo ottocentesco. Oggi solo costoso. E sul piano economico non ci sono prospettive, a parte la vendita di armi: su petrolio e gas i due mondi sono concorrenti, mentre la tecnologia e i bond il mondo arabo trova sempre oltre Atlantico.  

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