Aldo è professionista del poker, e per questo chiamato spesso a fare il
quarto alle tavolate dei riccastri romani, un nobile editore, il direttore del
“Messaggero”, anch’egli editore, e imprecisati uomini d’affari, il poker
affratella – questo succedeva a Roma negli anni Settanta del Novecento. Ha
cominciato presto, quando si preparavano le Olimpiadi, alla vigna del Cardinale
fuori Ponte Milvio, in una bisca clandestina:
- Quelli erano delinquenti – ricorda aggrottando le ciglia, come se
mettesse a fuoco sorpreso, o rimuovesse la rimozione: - Ricevevano nei saloni
lussuosi al piano terra in smoking, tutti lustri. Ricevevano anche
il questore, e un monsignore del Vaticano. Ma al piano di sopra, nelle sale da
gioco, erano spietati. Quando giocavano tra di loro, questore compreso, no.
Anzi facevano spedizioni col questore per divertirsi alla roulette, a Sanremo,
a Montecarlo. – Sembra di capire che abbia fatto parte, in qualche modo, della
banda, nomina sognante i casinò: - Ma quando capitava il pollo lo spennavano
con calcolo. Avevano truccato anche lo chemin de fer.
A un oculista di Latina proprietario di cliniche hanno preso tutto. Poi gli
facevano recuperare qualcosa, a condizione che portasse un altro merlo. Il baro
era il più giovane, Renatino, sembrava che le carte seguissero da sole i suoi
ordini. Renatino non vinceva, naturalmente, faceva vincere gli altri del
gruppo. – Da questa esperienza, dal gioco, Aldo deriva la disponibilità
all’attesa, non si fa venire le ansie.
Ora è morto, Renatino. Aldo è morto da tempo: era amico di Amilcar Cabral,
il fondatore e leader del Fronte di liberazione della Guinea-Bissau, e quando
l’indipendenza è stata raggiunta è andato a Bissau per i festeggiamenti, ha
preso una malattia tropicale che nessuno a Roma ha saputo curare, con le
colonie si è perduta anche la profilassi, ed è morto. La vedova di Renatino,
sotto pressione nei giornali e in tribunale, decide di mettersi dentro le sue
visioni di onnipotenza. Non sapendo come presentarsi, non è neppure vera
moglie, con le pubblicazioni di legge, decide di usare Vigna del Cardinale come
lasciapassare. Amuleto, parola d’ordine. Non ha nulla da perdere. Era una
bambina allora, abitavano l’alloggio del portiere e vedeva tutti quelli che
entravano e uscivano, i vestiti bianchi, candidi, i mantelli, le scollature, le
pellicce, i cappelli vistosi, le macchine grandi, lucide, silenziose, gli
autisti con visiera e guanti bianchi. E funziona.
Per primo il Capo della Polizia. Poi due onorevoli, uno sottosegretario e
uno ministro, alla Giustizia questo. Dei costruttori, degli editori, dei
commercianti, quasi tutti peraltro falliti, non si sopravvive al gioco, non si
cura, li ha cancellati per una sorta d’inavvertito automatismo, come se i soldi
valessero meno del potere. Poi si reca dal Presidente del Banco. Infine dal
cardinale. Che non la riceve ma la manda dal canonico. Che la colma, non in
senso biblico, ma preveniente, sempre sorridente, sollecito, amorevole,
obbediente, sembra che dipenda dalle sue labbra. E ha l’idea della tomba nella
basilica, privilegio di principi e santi. L’unico rimpianto, l’unica mancanza
che adesso sente, è anzi che il canonico non l’abbia impregnata, benché vecchio
e secco, o il ministro, benché grasso, o il Capo della Polizia, con tutti i
suoi denti gialli. Un desiderio urgente, una sorta di furore, la certezza che
il potere l’avrebbe elettrizzata. Come un moto perpetuo, perché dopo è sempre
vuoto.
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