lunedì 6 gennaio 2020

Renatino

Aldo è professionista del poker, e per questo chiamato spesso a fare il quarto alle tavolate dei riccastri romani, un nobile editore, il direttore del “Messaggero”, anch’egli editore, e imprecisati uomini d’affari, il poker affratella – questo succedeva a Roma negli anni Settanta del Novecento. Ha cominciato presto, quando si preparavano le Olimpiadi, alla vigna del Cardinale fuori Ponte Milvio, in una bisca clandestina:
- Quelli erano delinquenti – ricorda aggrottando le ciglia, come se mettesse a fuoco sorpreso, o rimuovesse la rimozione: - Ricevevano nei saloni lussuosi al piano terra in smoking, tutti lustri. Ricevevano anche il questore, e un monsignore del Vaticano. Ma al piano di sopra, nelle sale da gioco, erano spietati. Quando giocavano tra di loro, questore compreso, no. Anzi facevano spedizioni col questore per divertirsi alla roulette, a Sanremo, a Montecarlo. – Sembra di capire che abbia fatto parte, in qualche modo, della banda, nomina sognante i casinò: - Ma quando capitava il pollo lo spennavano con calcolo. Avevano truccato anche lo chemin de fer. A un oculista di Latina proprietario di cliniche hanno preso tutto. Poi gli facevano recuperare qualcosa, a condizione che portasse un altro merlo. Il baro era il più giovane, Renatino, sembrava che le carte seguissero da sole i suoi ordini. Renatino non vinceva, naturalmente, faceva vincere gli altri del gruppo. – Da questa esperienza, dal gioco, Aldo deriva la disponibilità all’attesa, non si fa venire le ansie.
Ora è morto, Renatino. Aldo è morto da tempo: era amico di Amilcar Cabral, il fondatore e leader del Fronte di liberazione della Guinea-Bissau, e quando l’indipendenza è stata raggiunta è andato a Bissau per i festeggiamenti, ha preso una malattia tropicale che nessuno a Roma ha saputo curare, con le colonie si è perduta anche la profilassi, ed è morto. La vedova di Renatino, sotto pressione nei giornali e in tribunale, decide di mettersi dentro le sue visioni di onnipotenza. Non sapendo come presentarsi, non è neppure vera moglie, con le pubblicazioni di legge, decide di usare Vigna del Cardinale come lasciapassare. Amuleto, parola d’ordine. Non ha nulla da perdere. Era una bambina allora, abitavano l’alloggio del portiere e vedeva tutti quelli che entravano e uscivano, i vestiti bianchi, candidi, i mantelli, le scollature, le pellicce, i cappelli vistosi, le macchine grandi, lucide, silenziose, gli autisti con visiera e guanti bianchi. E funziona.

Per primo il Capo della Polizia. Poi due onorevoli, uno sottosegretario e uno ministro, alla Giustizia questo. Dei costruttori, degli editori, dei commercianti, quasi tutti peraltro falliti, non si sopravvive al gioco, non si cura, li ha cancellati per una sorta d’inavvertito automatismo, come se i soldi valessero meno del potere. Poi si reca dal Presidente del Banco. Infine dal cardinale. Che non la riceve ma la manda dal canonico. Che la colma, non in senso biblico, ma preveniente, sempre sorridente, sollecito, amorevole, obbediente, sembra che dipenda dalle sue labbra. E ha l’idea della tomba nella basilica, privilegio di principi e santi. L’unico rimpianto, l’unica mancanza che adesso sente, è anzi che il canonico non l’abbia impregnata, benché vecchio e secco, o il ministro, benché grasso, o il Capo della Polizia, con tutti i suoi denti gialli. Un desiderio urgente, una sorta di furore, la certezza che il potere l’avrebbe elettrizzata. Come un moto perpetuo, perché dopo è sempre vuoto. 


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