mercoledì 5 febbraio 2020

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (415)

Giuseppe Leuzzi
“Guardare le cose dal fondo, con leggerezza, può riservare sorprese. È un modo per risolvere problemi complicati, a volte perfino per trovare la felicità”. La citazione è di un non-personaggio, non autorevole, Serena Malabrocca. Ma una che se ne intende: suo nonno era Luigi Malabrocca, ciclista al tempo di Coppi e Bartali. Famoso per farsi un’arte di arrivare ultimo al Giro d’Italia, nella leggenda della “maglia nera” trovando una miniera, di tifosi e sponsor.
Essere maglia nera non è una soluzione, e non può dare felicità. Ma guardare con distacco sì.

Il populismo è nato a Milano
Si producono studi, convegni, talk-show, enciclopedie sul populismo. Sulla riduzione della politica alla lagna, ammantata di rivoluzione, che ammorba l’Italia. Senza rilevare che è nato, elaborato, diffuso, imposto a Milano e da Milano. Dalla Lega, che diventò subito la beniamina di Milano 1, la circoscrizione elettorale dei più ricchi e intelligenti d’Italia, e il secondo partito lombardo così, per l’uzzolo, quando ancora non si sapeva di che razza era. E da Mani Pulite, imbroglio populista dichiaratamente bieco (“giustizialista”)”, che è stata elaborata e gestita da giudici meridionali, Borrelli, Di Pietro, Davigo, D’Ambrosio, De Pasquale, Ielo, Ilda Boccassini, la nemica di Berlusconi, ma è pur sempre un fenomeno milanese – ben lombardo era il giudice esecutivo, quel’Italo Ghitti non abbastanza celebrato, che emetteva ordini di carcerazione in fotocopia.
È stata Milano per prima e con più costanza a volersi “liberare dalla politica”. Anche di milanesi eminenti, di Craxi prima e di Berlusconi poi, altrove non odiati. Che ha voluto pedinati, intercettati, indagati, condannati, senza appello. Con la pretesa di una rivoluzione. Che è il populismo.
Si deve a Milan anche il fascismo.
Anche il socialismo, ma fino a un certo punto, condiviso con Genova, Napoli, l’Emilia.

Era borbonico il colera in Sicilia
“È stata la monarchia sabauda, subito dopo l’unità nazionale, a creare l’idea di un’omogenea  geografia economica e sociale del Sud, dal Molise alla Sicilia”, Maria Attanasio, “Le colonne scellerate” (in “Cinquanta in blu”). Vero. E la Repubblica no?
 “Nella prima metà dell’Ottocento la parola napoletano nell’isola (la Sicilia, n.d.r.) era sinonimo di un odioso accentramento politico e di un monopolio economico che, privilegiando le manifatture della Campania, danneggiava tute le classi sociali”, id.
Da qui anche una certa paranoia, o idea del complotto. A giugno del 1837 ci fu un’epidemia di colera, anche allora asiatico. “In Sicilia”, racconta Attanasio, “il colera asiatico diventò borbonico, Per sciagurata credenza, ma anche per politica malizia di un’élite di liberali ideologicamente variegata. Costituzionalisti, sparuti simpatizzanti della ancora neonata e repubblicana Giovane Italia, e soprattutto indipendentisti, trovarono nel colera veleno un’unitaria e populistica parola d’ordine: sua maestà il re delle Due Sicilie il mandante, che attraverso occulti diffusori avvelenava cibi, acque, aria”. La casa dunque nasceva male da entrambi i pizzi.

La Lega eletta in Calabria
Non c’è solo Salvini senatore della Calabria: la Lega ha radici solide nella regione più disastrata e disprezzata. Vincenzo Sofo, bello e famoso già come fidanzato di Marion Le Pen, e oggi come uno dei tre italiani che subentrano agli europarlamentari britannici dopo la Brexit, è un calabrese di Milano che si è fatto eleggere per la Lega. In Calabria.
Sofo è in realtà un milanese, che ha riscoperto la Calabria dei genitori per farsi eleggere a Strasburgo, d’accordo con Salvini. Spendendo in Calabria un solo mese, ha raccolto 20 mila preferenze. Miracolo di Milano.
Però, sempre Sofo, conosce la Calabria – l’avrà imparata dai suoi. A Concetto Vecchio spiega su “la Repubblica”:  “In Calabria tutti ti chiedono «chi sei?» e «a chi appartieni?» Una sospettosità ingiustificata?
In realtà il Sud non ha difese.
Forse è anche vero quello che “la Repubblica” fa dire a Sofo nei titoli: “Sono un talebano, sovranista e calabrese”. La confusione c’entra pure: nel 1861 non ci fu plebiscito unitario più ampio di quello della Calabria, il 99,99 pe cento.

Aspromonte
Grazie alla “Chanson d’Aspremont” che l’ha tenuto a battesimo, adattamento normanno del ciclo provenzale poi volgarizzato, col “Guérin Mesclin”, da Andrea di Barberino e sicuramente nota a Ariosto, era terra di eroismo, nobiltà, sacrificio, e non di vendette, rapimenti, ferocia, mafie.

Notevolmente, anche pericolosamente, imbruttito dalla protezione dei Forestali. Piantumati gli alpeggi, con cui la montagna respirava. Di specie non autotoctone, canadesi, nordiche. Infittite e mai ripulite le pinete, tutte malate. Rifugi sbarrati, o devastati da decenni.

I film ne hanno sempre trattato come di un luogo inaccessibile, tenebroso. Mentre il suo bello è di essere una montagna aperta, dall’orizzonte libero, guardando da tutti i pizzi verso il mare.
Gli ultimi due, “Anime nere” di Munzi e “Aspromonte – la terra degli ultimi” di Calopresti, che pure dovrebbe conoscere la Montagna, se è nato a Polistena, ai suoi piedi, ne fanno un mondo buio, di gente immiserita, abbandonata, sporca, disperata. Mentre è piena di luce. 

Succede di passare, rifacendo il sentiero di ritorno, accanto a una pozza del torrente ancora bianca di calce. Ieri sera, nel passaggio di andata, s’incrociava nello stesso posto, sotto il sentiero, una jeep dei Forestali. 

La montagna su tre mari – in realtà due, Jonio e Tirreno, ma dal Montalto se ne vedono tre. La montagna d’estate senza pioggia – giusto quanto serve ai funghi.
Col mare e la Magna Grecia a mezzora di macchina. 

I luoghi parlano, si sa. E hanno un’anima, anche se non si sa che cosa l’anima sia – è cosa complessa, multistrato, in espansione. Hanno personalità tanto forte che alcuni muoiono se ne sono separati, della stessa malinconia che si vive per un essere umano molto amato che sia svanito oppure lontano. E di personalità tanto varia che basta il diletto della loro compagnia per un tempo anche limitato, il ricordo permanendo durevole, e vivace.  Con espressioni anche diverse per ogni parte del luogo, o per ore differenti o stagioni: un luogo si fa amare in tutte le ore e in tutte le congiunture, anche nelle disgrazie. Malgrado - nel caso - terremoti, venti, tempeste, nebbie, e altri inconvenienti geoclimatici. Si è ricostruito dopo terremoti catastrofici. 

Si passa dai luoghi dei giganti, pinete a perdita d’occhio, al bosco delle ombre, i faggi di Orazio, che a novembre si tingono di rosso, alle abetaie aperte. Ma con un senso di continuità. Di una vegetazione, anche fitta, che unisce e non isola.

Il pastore (padrone di greggi) Nazzareno conosce della Montagna ogni piega e ne sente l’aria, i venti, gli odori. Venendo dalla modernità, con la Panda-Jeep, il giornale sotto il braccio, seppure d’ieri, la giacca di acetato, lavabile, ingualcibile, la mungitura, il rito mattutino dell’impanata, il trasporto del latte, la contrattazione, l’ananke quotidiana, si tiene fuori dal mondo. La calpesta con lo stesso passo, stabile, come levitasse sulle asperità. Ne è padrone, della natura, come un antico dio. Parla all’arbusto, all’albero, al fiore, al lupo che lascia le tracce e si nasconde, all’aquila, che forse è una pojana.
Vagando per la montagna, la anima in ogni piega delle avventure di Guerrin Meschino, lì è il castello, lì la fata, lì la strega. Che potrebbe avere appreso in carcere. Pare che abbia avuto da ragazzo un omicidio.

Antonio il destino avverso, che gli ha impedito il mestiere del carpentiere, lo ha obbligato al suo sogno di sempre, la guida nel parco. Il suo liquido amniotico. Anche in senso proprio, è il maggiore esperto delle sue acque, ne conosce ogni rivolo. E si può dire che nella Montagna navighi. Tra i monti e le valli chiuse, e improvvise, aperte radure, sul cielo e sul mare, lontano, laggiù lungo la linea della costa. Dove procede solo, sempre, anche in gruppo, anche in camionetta. Dentro l’aria, gli odori, la luce mutevole e parlante. Come uno degli antichi dei, che ha letto erano nell’arbusto, nella foglia, nel fiore, nell’albero, negli animali del bosco che si nascondono. Nel falco, nella pojana, o è il pecchiaiolo, che ha nidificato sul costone, inaccessibile, e vola lungo le pareti a lente ampie volute, e si fa scambiare per l’aquila.


Effetto anche dell’amanita muscaria, “sbucciata”, tagliata a strisce sottili, per evitare un effetto ingombrante, devastante?

leuzzi@antiit.eu

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