Il
primo dei non-luoghi, benché abitato: i centri residenziali suburbani, pieni di
decoro ma senza vita e senza carattere. Dove si vive per una sola funzione, da pendolari
per il solito “lavoro più cretino che si possa immaginare”. Gli uomini. Mentre
le donne, che allora stavano in casa con i figli, scolorano in un grigio
bovarismo.
È
l’insoddisfazione di un’epoca, va ricordato, gli anni 1960, in cui si
contestava il lavoro – c’era questo privilegio, si contestava la cosiddetta
“integrazione”, col supporto del Marx riscoperto del lavoro alienante - o anche,
in America, senza Marx. Ma è alla lettura oggi una sorta di premonizione, benché remota,
del mondo socio-disintegrato che viviamo. In assenza di “valori forti”,
pubblici (politici) o anche personali, affettivi. In un mondo allora afflitto
da una urbanistica dissolutiva, dei suburbi disseminati attorno - a distanza –
ai centri produttivi. Dove ogni storia, personale, generazionale, sociale, è
inconsistente, e non può che finire male.
È
il primo racconto anche della “coppia chiusa”, benché con figli. Che rifiuta la tv in casa. Socializza molto, lascia i figli la sera in casa con la baby-sitter. Ma si macera e
si martoria. Non ancora al lancio di piatti e le altre nefandezze di un futuro
filone di successo al cinema, ma le premesse ci sono, da coatti a “dover viver
e fra tutte queste mediocrità suburbane”.
La
condizione suburbana è invisa agli esteti più che agli abitanti – l’urbanistica
dissentirebbe. Ma Yates, che ha scritto poco e si vuole ora riabilitare, riesce
a farne una lunga narrazione con leggerezza. È stato anche il primo di un filone
poi robusto , Styron, Mailer et al.
Pubblicato
nel 1961, il romanzo è stato riedito nel 2001, da Richard Ford che ne fa la
presentazione. L’edizione italiana è corredata di una biobibliografia a cura di
Andreina Lombardi Bom.
Richard
Yates, Revolutionary road, minimum
fax, remainders, pp. 459, ril. + dvd € 8,75
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