“Io del resto
sono di quelli che se avessero visto un manoscritto di Svevo non si sarebbero
accorti d’avere a che fare con uno scrittore”. Calvino è – forse
patologicamente - scostante, alieno alla confidenza, ma brillante. E gran
lavoratore - il complesso del primo della classe: legge, chiosa, scheda,
consiglia, nel mentre che svolge il lavoro di fatica redazionale. E onesto, anche
generoso. Con una vena, al fondo, gogoliana. Ma la raccolta è a rileggerla
chiusa, grigia.
Più
animata nei pregiudizi. Contro il bildungsroman
in particolare - oggi Calvino impazzirebbe, tra tutti i selfie ¸e gli Schopenhauer
teen-ager. O Anatole France, “scrittore che detesto”. Henry Miller, “odio
H. Miller”. “Kerouac lo trovo retorico, non mi piace”. Bachelard, “vacuità
spiritualistica, truccata da materialismo”. Contro il toscano: “A me la parola
fattore dà ai nervi, perché mi
ricorda la Toscana e le Veglie di Neri”. Contro i francesi: “Il mio odio verso
la critica francese sta diventando viscerale” - salvo riconoscersi entusiasta
in una paginetta di François Wahl che presenta nel 1960 il racconto “L’avventura
d’un poeta” in traduzione. Contro Camilo Cela, il futuro Nobel - in effetti
misterioso: “Una delle persone più vacue e insopportabili della letteratura
internazionale”. Nel 1965 è reduce una “una lunga campagna contro le
«presentazioni» nella Liberia di Roma, come tipo di manifestazione ormai logoro
e stracco” – altro impazzimento oggi.
Un Calvino
perfino umorale, per quanto controllato. Anche negli errori. Tonino Guerra
scambiato per scrittore “sociale”. Malerba per uno che “racconta contadini”... A
p. 441 loda alla “gentile signorina” Antonella Santacroce le riviste
letterarie, il porto dei giovani. A p. 442 scrive alla traduttrice tedesca:
“Non leggo nessuna rivista perché trovo che è tempo perso”. Contro i “romani”:
“Come ci ha tarpato le ali”, scrive il 14 gennaio 1964 a Parise, “(a te, a me,
a tutti), il trionfo del verismo romano-piccoloborghese” – “(ma sono stati
tutti fregati, Moravia per primo, anche se non se ne rendono conto)”. Ma sempre
come di chiesa, in odore di sacrestia.
L’indaffaratissimo
scrittore-redattore-dirigente è partecipe ma castrante - perfezionista. Un po’
ipocrita, ma il giusto. Di poche parole, lo dice Fruttero nela presentazione,
ma espansivo sulla carta.
Con una
certa platea, almeno in questa raccolta: provvido di anamnesi circostanziate,
di lunghe pagine, con corrispondenti sconosciuti ma familiari, con i quali si
dà il tu. Cioè di parrocchia, anche dopo l’abiura del 1956? Quelli che non ne fanno
parte sono tollerati di mal’animo, Bassani, Cassola, perfino Gadda, e Ortese, giusto
perché fanno vendere. Del centinaio di corrispondenti qui registrati non resta
nessuno, tranne, per una o due lettere, Domenico Rea. Presto peraltro stanco,
dopo il matrimonio, della “vita letteraria”: “Da un po’ di tempo in qua leggo
solo libri di astronomia”, scrive il 13 maggio 1965 a Rea, “la vita letteraria
è come la vita militare. Finché si è giovani si può sopportare”.
Forse
vittima, si direbbe con lui, della mediocrità imperante. Aii Wahl, che a Parigi
fa l’editore, spiega nel 1962: “Cerchiamo di pubblicare il meno possible, roba
buona in giro non ce n’è”. Ma quell’anno uscivano altrove Arbasino, Tobino, “Il
clandestino”, premio Strega, Arpino, “Una nuvola d’ira”, Bianciardi, Bassani,
“Il giardino dei Finzi Contini”, Volponi, “Memoriale”, Dacia Maraini, alcuni
passati inutilmente da Einaudi.
Vittima,
più probabile, dell’aria di sacrestia. Ma: per un falso scopo? Calvino non era
un trinariciuto. A un certo punto lo dice anche: “La nostra generazione”,
scrive l’11 gennaio 1965 al compagno De Jaco, “si è ritrovata vecchia da un
momento all’altro”, al momento della verità disvelata nel 1956, e sorpassata in “questo nostro tipo di letteratura con
tutti i suoi piani morali e politici e lirici e di osservazione oggettiva
d’interiorità”. Forse l’abito resta sacramentale, seppure non più fondamentalista.
La stessa
scelta e il montaggio non sono innocenti – la raccolta esce nel 1991, ma è già
da tempo progettata, ricercata presso i tanti interlocutori, e ordinata. Cone
un monumento a ai “vecchi bei giorni”. O è il lavoro editoriale, che si denuda
male.
Fa
immalinconire, nel mentre che il volume lo celebra, il lavoro editoriale – la
scoperta del genio. Quell’essere e non essere, e i contorcimenti attorno alla
scintilla, all’arte, al genio. Che editor
migliore di Calvino si può immaginare, con tutta la zavorra della casa-chiesa? Ma
la realtà è che la casa editrice funziona attorno al commerciale, ai promotori, a quelli che sanno, che fiutano, cosa vende e cosa no - e agli autori, quando ne capita uno buono. La buona editoria è commerciale, quella che sa vendere, attenta a estrarre il meglio dal
“mercato” - il genio viene da sé, dai lettori.
Un po’ di Calvino comunque c’è, la
raccolta è voluminosa. Il socievole misantropo in qualche modo si manifesta,
libero di esserlo. E di amare Nievo: “Le «Confessioni» sono uno dei miei libri
preferiti, e scopro sempre che fruttificano nelle mie pagine senza che me ne
accorga”. “Liberato” si dice dopo il 1956, da “eremita del socialismo”, dopo la
parziale abiura dal partito – o un po’ prima, l’insubordinazione era
nell’aria?: “Odio Galv. D.V.” osa scrivere a giugno di quell’anno, Galvano Della
Volpe, massima autorità filosofica del Partito, del materialismo. Concetto che a
maggio del 1957, a Franco Fortini orfano inconsolabile, dice e ribadisce, a ogni capoverso: “Viviamo un’epoca buia”, e cos’altro si voglia, ma “in questa
situazione io sto benissimo, devo dire, e mi abbandono finalmente a una totale
misantropia che scopro corrispondere pienamente alla mia natura”.
È l’unico aspetto che abbia ancora interesse:
una raccolta su e di Calvino. Un reperto biografico. Com’era la letteratura
quando non c’erano i funzionari editoriali e i redattori? Molte lettere
d’ufficio a Vittorini, che stava a Milano. E richieste di aiuto a Cocchiara,
quando prepara la raccolta delle fiabe italiane. Il lavoro editoriale è – per
Calvino, in Einaudi, in quegli anni - tanto puntiglioso, professionale, quanto vacuo:
forse nessuno dei titoli qui trattati si conserva. Prima del 1956, e anche
dopo - Vittorini, attento a ogni briciolo d'ingegno, rifiutava Lampedusa.
Un libro che su eBay va molto, quota sui
100 euro. Ma non si ristampa negli Oscar. Non senza ragione: la rilettura
certifica un deserto, dell’impegno. Di buone intenzioni, ma allora poco perspicue
– intelligenti. L’impegno è una passione e non un esercizio critico. L’effetto
è del catalogo storico Einaudi: di quegli anni si salva poco, e solo quello
autoprodotto, Pavese, Calvino, forse Natalia Ginzburg. Primo Levi è uno
scocciatore. Sciascia assunto in trono dopo un decennio buono di assiduo
corteggiamento, per aprirsi un varco verso il liberalradicalismo.
Il titolo è preso da un’intervista a
“Mondo Operaio”, il mensile del Psi, nel 1979.
Italo Calvino, I libri degli altri
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