La Sicilia è un’epifania. Scrittore
di molti viaggi, De Amicis mai si era trovato tanto in sintonia con la storia,
la natura, l’archeologia, la gente, perfino la parlata, le diverse parlate, che
trova nell’isola, nei mondi diversi di Messina, Palermo, Catania. Con occhi
aperti. La “prodigalità e magnificenza” confrontando con l’abbandono e i soprusi del latifondo. Dietro il Teatro
Massimo a Palermo, “il più grande e più splendido teatro d’Italia, che costò otto
milioni”, rappresentando “quell’enorme labirinto di viuzze oscure e sudicie,
che si chiama l’Albergheria, dove brulica una popolazione poverissima in
migliaia di fetidi covi, che sono ancora quei medesimi in cui si pigiavano gli
Arabi di nove secoli orsono”. Senza trascurare che del Massimo “fu decretata la
costruzione quando Palermo non aveva un ospedale”. All’orizzonte,
occhieggiando “fra i palazzi e le statue e il via vai festoso delle carrozze
infiorate, intravede “la macchietta nera d’uno dei piroscafi che portano via
ogni settimana un popolo d’emigranti”. I “piemontesi” trovarono dopo Garibaldi
l’Africa in Sicilia. Con sdegno di tutti. Ma con l’occhio di oggi vedevano
giusto.
Natale Tedesco è severo
nell’introduzione, con De Amicis in generale, e nella fattispecie – ci vede
anche razzismo. I disegni di Monica Rubino ingentiliscono.
Edmondo De Amicis, Ricordi
di un viaggio in Sicilia, Il Palindromo, pp. 88 € 9
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