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venerdì 21 febbraio 2020

Il mondo com'è (396)

astolfo


Capitalismo – Si dibatte se il “declino americano” non dipenda dall’assenza di sfide militari globali. L’assunto è semplice: gli Stati Uniti sono cresciuti come superpotenza economica con le guerre del Novecento: le due guerre mondali, quelle di Corea e del Vietnam, seppure non vittoriose, quella del Golfo, e quella agli armamenti nucleari.
Il “declino americano” vuole una precisazione: non è un fatto, è un “discorso”, e sono gli americani che lo fanno, i grandi interessi del capitale per primi – con il supporto dei (pochi) marxisti dogmatici, teorici eterni del declino. Quindi può essere uno schema di discussione e non uno sviluppo. Così è stato in passato in più casi: la non convertibilità del dollaro e la crisi del Vietnam, la crisi petrolifera, la presa iraniana degli ostaggi e la fine del controllo del Medio Oriente, la stessa globalizzazione – che però è stata teorizzata e imposta dagli Stati Uniti.
Se il capitalismo non dipenda dalla guerra è però un filone teorico, anche robusto, tra Otto e Novecento – prima della Grande Guerra. L’economista Lujo Brentano, professore a Breslavia, Strasburgo, Vienna e Lipsia, “socialista cattedratico” (riformista), commissario del Popolo al Commercio nei pochi giorni del governo rivoluzionario dello Stato popolare di Baviera nel dicembre 1918, la teorizzava motore del progresso. Dei salti tecnici e di accumulazione che costituiscono il progresso. Analogamente teorizzata, seppure in ambito letterario e non economico, da Ernst Jünger subito dopo la Grande Guerra, da lui per primo letta e rappresentata come “guerra dei materiali” – della produzione: chi più produce vince, e quindi per vincere bisogna soprattutto produrre.
Una tesi non dimostrata ma plausibile. Paul Samuelson, il primo studioso americano premio Nobel per l’Economia, ne ha abbozzato un calcolo reale, basato sull’economia di guerra, nel volumone “Economics. An Introductory Analysis”, 1948 - per molti anni  testo base nelle scuole di Economia. La “guerra dei materiali” è comunque uscita dalla letteratura, è ormai la sola guerra possibile. In collegamento sicuro, seppure oscuro, col benessere: il Novecento, il secolo del grande balzo mondiale verso la ricchezza, è stato anche un secolo di grandi e continue guerre – la prima e la seconda guerra mondiale, le guerre di Corea e del Vietnam, e soprattutto la guerra dei materiali per eccellenza, quella non combattuta, ma con un armamento fuori da ogni misura, la guerra fredda nucleare, dissuasiva o di deterrenza, con formidabile armamentario missilistico.

Revisionismo – Non si è ancora esercitato sulla seconda guerra mondiale, dopo tre quarti di secolo. Ma urge. Non vi si è ancora esercitata la storia accademica, se non nel primo dopoguerra, con l’americano Charles Beard, intellettuale molto di sinistra, pacifista e isolazionista, e l’inglese A.J.P.Taylor – mentre peraltro a Londra in Parlamento, sia ai Comuni che alla camera dei Lord, si discuteva della moralità e anche della liceità dei bombardamenti “terroristici” come li aveva voluti il maresciallo sir Arthur Harris per la Raf, notturni, massicci, ripetuti e indiscriminati contro le popolazioni. Ma, seppure solo nei giornali e in forma di reportage, di com’eravamo e cosa è successo, le tracce revisioniste sono state aperte. Con una curiosa inversione dei ruoli, si può osservare, rispetto al primo revisionismo: Beard e Taylor, accademici, si trasformarono dopo le loro contestazioni accademiche, in polemisti mediatici. Oggi sono dei giornalisti che scrivono memorie e ricostruzioni.
Beard e Taylor, va aggiunto, criticavano da sinistra. Beard finì per dare la colpa della guerra a F.D.Roosevelt da pacifista incondizionale e isolazionista. Taylor era laburista impegnato, molto apprezzato nel partito - da storico diplomatico aveva esordito come italianista, “The Italian Problem in European Diplomacy 1847-1849”.
La materia in contestazione è ampia. I bombardamenti a tappeto, quotidiani, notturni, senza distinzione di obiettivi, che hanno segnato la seconda guerra, sono campo praticamente inesplorato in Italia e in Giappone. Sarebbero pretesto fertile di narrazioni e immagini, ma sono ignorati. Una trascuratezza che va molto, troppo, al di là della disattenzione. Si direbbe per un senso di colpa introiettato, avallato senza riserve in Italia e in Giappone. Non in Germania, malgrado le dichiarazioni pubbliche.
In Germania i bombardamenti sono stati materia di molte narrazioni, e sono ora materia di ricerca. 
La materia del revanscismo è in Germania enorme. Gli sfollati dalle regioni orientali annesse alla Russia e la Polonia: Prussia, Slesia, Galizia. I bombardamenti, al fosforo, a tappeto, sterminatori. La resa incondizionata. Lo stesso tribunale di Norimberga. E si accresce con tempo - una montagna vulcanica. Mentre si tace, ma prevedibilmente non ancora per molto, della immensa pubblicistica anteguerra contro i “trattati periferici parigini”, i trattati di pace di Versailles e viciniori, già recepiti come “iniqui” da tutti gli studiosi tedeschi di diritto internazionale e di filosofia del diritto.
Il revisionismo del resto è inevitabile. Sullo sterminio si evita, ma solo per opportunismo. Mentre si lavora alacremente sui bombardamenti “totali”, sulla capitolazione (resa senza condizioni), sulla mutilazione delle regioni orientali, con 12 milioni di profughi, e sulla divisione e occupazione militare del Paese, per 45 anni. Già Hannah Arendt un cinquantennio fa (“Sulla rivoluzione”), benché ebrea, perseguitata e espatriata, consigliava di considerare il conflitto “una forma di guerra civile che abbraccia la terra intera”.

Tratta degli schiavi – Fu per molti secoli islamica, e poi africana. I primi mercanti europei (portoghesi) si registrano nella seconda metà dl secolo XVmo. È a partire da fine Cinquecento-primo Seicento che la tratta degli schiavi transatlantica, a opera di trafficanti europei verso le Americhe, diventa predominante. Per due secoli. L’atlante della tratta che Paul E. Lovejoy ha costruito in numerose tabelle della sua “Storia della schiavitù in Africa” dà il traffico atlantico predominante dal 1500 al 1800 – quando si vanno le leggi abolizioniste della tratta.
Il Settecento è stato il secolo europeo più schiavista, il secolo dei Lumi. Su 11 milioni 660 mila schiavi “trattati” dal 14500 al 1800, il 75 per cento, otto milioni 710 mila, fu destinato alle Americhe. Nel Cinquecento la percentuale era molto inferiore, il 31 per cento - il 69 per cento andava al Nord Africa e al Medio Oriente. Nel Settecento, su sette milioni 795 mila schiavi conteggiati, l’83,3 per cento risulta destinato alle Americhe, sei milioni 485 mila. 
Nella tratta europea si distinsero gli inglesi. Sempre nel Settecento, il secolo della tratta europea massima, i trafficanti inglesi trasportarono due milioni 545 mila schiavi, il 39,1 per cento del totale. Seguiti dai portoghesi, col 34 per cento, due milioni 323 mila, dai francesi col 17,5 per cento, un milione 139 mila, e a distanza da olandesi (5,1 per cento), nordamericani (2,9), danesi (1), spagnoli (0,2).

L’abolizione s’impose tra fine Settecento e i primi del Novecento. Gli Stati Uniti misero fuori legge la tratta nel 1791 e nel 1794, ma dovettero aspettare la guerra civile  1861-1865, per eliminarla, di diritto e di fatto. In Gran Bretagna, che ne era stata il maggiore trafficante, la schiavitù abolita nel 1807. In Francia era stata decisa dalla Convenzione, nel 1794. La Danimarca, anche anch’essa traffichicchiava in schiavi, la abolì nel 1802.
Ma vari schemi si adottarono per continuare il traffico malgrado le leggi. In misura ridotta, ma per lungo tempo endemica. La Francia restaurò la schiavitù con i Napoleoni. Con Napoleone Bonaparte scopertamente. Con Napoleone III, quindi nel secondo Ottocento, nominando diversamente gli schiavi – come già si faceva in Brasile e nelle colonie africane del Potogallo (gli schiavi erano ora chiamati libertos, serviçaes, livres, ingenuos).  
Lo stesso in medio Oriente: Turchia ed Egitto abolirono per decreto la tratta attorno a metà Ottocento, ma la continuarono in vari modi, fio alla Grande Guerra.
In Africa centro-occidentale l’abolizione, a opera delle autorità coloniali, francesi e britanniche, si fece per piccoli passi, come in India, per non sconvolgere gli assetti economici. Nacque anzi nei decenni successivi alla colonizzazione un grande mercato di schiavi nell’oceano Indiano, a Zanzibar e Pemba, a opera del sultano dell’Oman che possedeva le isole, per coltivarvi i chiodi di garofano, di cui il mercato era fiorentissimo.
Per tutto il secondo Ottocento, e ancora ai primi del Novecento, missionari e colonie o protettorati europei in Africa centro-occidentale furono centri di rifugio per schiavi fuggiaschi da famiglie e potentati africani. Le cui proteste costrinsero missionari e amministrazioni coloniali a pratiche restrittive delle fughe e a sottili argomentazioni giuridiche per giustificare l’accoglienza.
La Liberia, creata nel 1821 come colonia di ripopolamento con gli schiavi americani liberati, vide arrivare nel primo decennio pochissime navi, e appena 1.430 afro-americani. Un po’ di più ne arrivarono nel decennio successivo, ma il totale fu di 5.722 schiavi liberati. E la maggior parte di questo non proveniva dagli Stati Uniti ma era stata prelevata di forza da navi americane nel golfo di Guinea dai mercantili che li avevano a bordo e sbarcati in Liberia.
La pratica di prelevare militarmente gli schiavi dalla navi negriere era stata avviata dalla Gran Bretagna dopo le leggi per l’abolizione della schiavitù. A loro fu destinato un insediamento in Sierra Leone, già protettorato britannico. Gli schiavi liberati dalle navi negriere e sbarcati in Sierra Leone furono circa 160 mila tra il 1810 e il 1864. Diecimila di essi furono liberati e sbarcati dalla marina americana e da quella francese.
Ma le leggi e gli sbarchi, britannici, americani, francesi, non intaccavano il regime schiavista in Sierra Leone: la schiavitù vi continuò ancora a lungo. Il nome beneaugurante della capitale, Freetown, si applicava solo agli schiavi liberati dalle navi europee. I potentati e l’economia locale continuarono a utilizzare gli schiavi. Il commercio degli schiavi fu abolito in Sierra Leone solo nel 1896. La schiavitù fu posta fuorilegge solo nel 1926. 


astolfo@antiit.eu

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