Capitalismo
– Si dibatte se il “declino americano” non
dipenda dall’assenza di sfide militari globali. L’assunto è semplice: gli Stati
Uniti sono cresciuti come superpotenza economica con le guerre del Novecento:
le due guerre mondali, quelle di Corea e del Vietnam, seppure non vittoriose, quella
del Golfo, e quella agli armamenti nucleari.
Il “declino americano” vuole una precisazione:
non è un fatto, è un “discorso”, e sono gli americani che lo fanno, i grandi
interessi del capitale per primi – con il supporto dei (pochi) marxisti
dogmatici, teorici eterni del declino. Quindi può essere uno schema di discussione
e non uno sviluppo. Così è stato in passato in più casi: la non convertibilità
del dollaro e la crisi del Vietnam, la crisi petrolifera, la presa iraniana
degli ostaggi e la fine del controllo del Medio Oriente, la stessa
globalizzazione – che però è stata teorizzata e imposta dagli Stati Uniti.
Se il capitalismo non dipenda dalla guerra
è però un filone teorico, anche robusto, tra Otto e Novecento – prima della
Grande Guerra. L’economista Lujo Brentano, professore a Breslavia, Strasburgo,
Vienna e Lipsia, “socialista cattedratico” (riformista), commissario del Popolo
al Commercio nei pochi giorni del governo rivoluzionario dello Stato popolare
di Baviera nel dicembre 1918, la teorizzava motore del progresso. Dei salti
tecnici e di accumulazione che costituiscono il progresso. Analogamente
teorizzata, seppure in ambito letterario e non economico, da Ernst Jünger
subito dopo la Grande Guerra, da lui per primo letta e rappresentata come “guerra
dei materiali” – della produzione: chi più produce vince, e quindi per vincere
bisogna soprattutto produrre.
Una tesi non dimostrata ma plausibile.
Paul Samuelson, il primo studioso americano premio Nobel per l’Economia, ne ha
abbozzato un calcolo reale, basato sull’economia di guerra, nel volumone
“Economics. An Introductory Analysis”, 1948 - per molti anni testo base nelle scuole di Economia.
La “guerra dei materiali” è comunque uscita dalla letteratura, è ormai la sola
guerra possibile. In collegamento sicuro, seppure oscuro, col benessere: il
Novecento, il secolo del grande balzo mondiale verso la ricchezza, è stato anche
un secolo di grandi e continue guerre – la prima e la seconda guerra mondiale,
le guerre di Corea e del Vietnam, e soprattutto la guerra dei materiali per
eccellenza, quella non combattuta, ma con un armamento fuori da ogni misura, la
guerra fredda nucleare, dissuasiva o di deterrenza, con formidabile
armamentario missilistico.
Revisionismo
– Non si è ancora esercitato sulla seconda
guerra mondiale, dopo tre quarti di secolo. Ma urge. Non vi si è ancora
esercitata la storia accademica, se non nel primo dopoguerra, con l’americano
Charles Beard, intellettuale molto di sinistra, pacifista e isolazionista, e
l’inglese A.J.P.Taylor – mentre peraltro a Londra in Parlamento, sia ai Comuni
che alla camera dei Lord, si discuteva della moralità e anche della liceità dei
bombardamenti “terroristici” come li aveva voluti il maresciallo sir Arthur
Harris per la Raf, notturni, massicci, ripetuti e indiscriminati contro le
popolazioni. Ma, seppure solo nei giornali e in forma di reportage, di com’eravamo e cosa è successo, le tracce revisioniste
sono state aperte. Con una curiosa inversione dei ruoli, si può osservare, rispetto
al primo revisionismo: Beard e Taylor, accademici, si trasformarono dopo le
loro contestazioni accademiche, in polemisti mediatici. Oggi sono dei
giornalisti che scrivono memorie e ricostruzioni.
Beard e Taylor, va aggiunto, criticavano
da sinistra. Beard finì per dare la colpa della guerra a F.D.Roosevelt da
pacifista incondizionale e isolazionista. Taylor era laburista impegnato, molto
apprezzato nel partito - da storico diplomatico aveva esordito come
italianista, “The
Italian Problem in European Diplomacy 1847-1849”.
La materia in contestazione è ampia. I bombardamenti a tappeto, quotidiani, notturni, senza
distinzione di obiettivi, che hanno segnato la seconda guerra, sono campo
praticamente inesplorato in Italia e in Giappone. Sarebbero pretesto fertile di
narrazioni e immagini, ma sono ignorati. Una trascuratezza che va molto,
troppo, al di là della disattenzione. Si direbbe per un senso di colpa
introiettato, avallato senza riserve in Italia e in Giappone. Non in Germania,
malgrado le dichiarazioni pubbliche.
In
Germania i bombardamenti sono stati materia di molte narrazioni, e sono ora
materia di ricerca.
La materia del revanscismo è in Germania enorme. Gli
sfollati dalle regioni orientali annesse alla Russia e la Polonia: Prussia,
Slesia, Galizia. I bombardamenti, al fosforo, a tappeto, sterminatori. La resa
incondizionata. Lo stesso tribunale di Norimberga. E si accresce con tempo -
una montagna vulcanica. Mentre si tace, ma prevedibilmente non ancora per
molto, della immensa pubblicistica anteguerra contro i “trattati periferici
parigini”, i trattati di pace di Versailles e viciniori, già recepiti come
“iniqui” da tutti gli studiosi
tedeschi di diritto internazionale e di filosofia del diritto.
Il revisionismo
del resto è inevitabile. Sullo sterminio si evita, ma solo per opportunismo.
Mentre si lavora alacremente sui bombardamenti “totali”, sulla capitolazione
(resa senza condizioni), sulla mutilazione delle regioni orientali, con 12
milioni di profughi, e sulla divisione e occupazione militare del Paese, per 45
anni. Già Hannah Arendt un cinquantennio fa (“Sulla rivoluzione”), benché
ebrea, perseguitata e espatriata, consigliava di considerare il conflitto “una forma di guerra civile che
abbraccia la terra intera”.
Tratta
degli schiavi – Fu per molti secoli islamica, e poi africana.
I primi mercanti europei (portoghesi) si registrano nella seconda metà dl
secolo XVmo. È a partire da fine Cinquecento-primo Seicento che la tratta degli
schiavi transatlantica, a opera di trafficanti europei verso le Americhe,
diventa predominante. Per due secoli. L’atlante della tratta che Paul E. Lovejoy
ha costruito in numerose tabelle della sua “Storia della schiavitù in Africa”
dà il traffico atlantico predominante dal 1500 al 1800 – quando si vanno le
leggi abolizioniste della tratta.
Il Settecento è stato il secolo europeo
più schiavista, il secolo dei Lumi. Su 11 milioni 660 mila schiavi
“trattati” dal 14500 al 1800, il 75 per cento, otto milioni 710 mila, fu
destinato alle Americhe. Nel Cinquecento la percentuale era molto inferiore, il
31 per cento - il 69 per cento andava al Nord Africa e al Medio Oriente. Nel
Settecento, su sette milioni 795 mila schiavi conteggiati, l’83,3 per cento
risulta destinato alle Americhe, sei milioni 485 mila.
Nella tratta europea si distinsero gli
inglesi. Sempre nel Settecento, il secolo della tratta europea massima, i
trafficanti inglesi trasportarono due milioni 545 mila schiavi, il 39,1 per
cento del totale. Seguiti dai
portoghesi, col 34 per cento, due milioni 323 mila, dai francesi col 17,5 per
cento, un milione 139 mila, e a distanza da olandesi (5,1 per cento),
nordamericani (2,9), danesi (1), spagnoli (0,2).
L’abolizione s’impose tra fine Settecento
e i primi del Novecento. Gli Stati Uniti misero fuori legge la tratta nel 1791 e nel 1794, ma dovettero aspettare la guerra civile 1861-1865, per eliminarla, di diritto e di
fatto. In
Gran Bretagna, che ne era stata il maggiore trafficante, la schiavitù abolita
nel 1807. In Francia era stata decisa dalla Convenzione, nel 1794. La Danimarca, anche anch’essa traffichicchiava in schiavi, la abolì
nel 1802.
Ma vari schemi si adottarono per
continuare il traffico malgrado le leggi. In misura ridotta, ma per lungo tempo
endemica. La Francia restaurò la schiavitù con i Napoleoni. Con Napoleone
Bonaparte scopertamente. Con Napoleone III, quindi nel secondo Ottocento,
nominando diversamente gli schiavi – come già si faceva in Brasile e nelle
colonie africane del Potogallo (gli schiavi erano ora chiamati libertos, serviçaes, livres, ingenuos).
Lo stesso in medio Oriente: Turchia ed Egitto
abolirono per decreto la tratta attorno a metà Ottocento, ma la continuarono in
vari modi, fio alla Grande Guerra.
In Africa centro-occidentale l’abolizione,
a opera delle autorità coloniali, francesi e britanniche, si fece per piccoli
passi, come in India, per non sconvolgere gli assetti economici. Nacque anzi
nei decenni successivi alla colonizzazione un grande mercato di schiavi
nell’oceano Indiano, a Zanzibar e Pemba, a opera del sultano dell’Oman che
possedeva le isole, per coltivarvi i chiodi di garofano, di cui il mercato era
fiorentissimo.
Per tutto il secondo Ottocento, e ancora
ai primi del Novecento, missionari e colonie o protettorati europei in Africa
centro-occidentale furono centri di rifugio per schiavi fuggiaschi da famiglie
e potentati africani. Le cui proteste costrinsero missionari e amministrazioni coloniali
a pratiche restrittive delle fughe e a sottili argomentazioni giuridiche per
giustificare l’accoglienza.
La Liberia, creata nel 1821 come colonia
di ripopolamento con gli schiavi americani liberati, vide arrivare nel primo
decennio pochissime navi, e appena 1.430 afro-americani. Un po’ di più ne
arrivarono nel decennio successivo, ma il totale fu di 5.722 schiavi liberati.
E la maggior parte di questo non proveniva dagli Stati Uniti ma era stata
prelevata di forza da navi americane nel golfo di Guinea dai mercantili che li
avevano a bordo e sbarcati in Liberia.
La pratica di prelevare militarmente gli
schiavi dalla navi negriere era stata avviata dalla Gran Bretagna dopo le leggi
per l’abolizione della schiavitù. A loro fu destinato un insediamento in Sierra
Leone, già protettorato britannico. Gli schiavi liberati dalle navi negriere e
sbarcati in Sierra Leone furono circa 160 mila tra il 1810 e il 1864. Diecimila
di essi furono liberati e sbarcati dalla marina americana e da quella francese.
Ma le leggi e gli sbarchi, britannici,
americani, francesi, non intaccavano il regime schiavista in Sierra Leone: la
schiavitù vi continuò ancora a lungo. Il nome beneaugurante della capitale,
Freetown, si applicava solo agli schiavi liberati dalle navi europee. I
potentati e l’economia locale continuarono a utilizzare gli schiavi. Il commercio
degli schiavi fu abolito in Sierra Leone solo nel 1896. La schiavitù fu posta
fuorilegge solo nel 1926.
astolfo@antiit.eu
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