Nel 1997 a Zurigo, in una serie di
lezioni, il tedesco Sebald germanista emerito in Inghilterra creò uno scandalo,
con la denuncia della gigantesca rimozione: della distruzione selvaggia, a
tappeto, catastrofica, delle città tedesche da parte della Raf. Si scandalizzava
- e scandalizzò – di non trovarne traccia nei modi di essere e di fare in
Germania a guerra finita, tra le macerie, e nella letteratura.
Lo stesso tema era stato già indagato
indirettamente da Enzensberger dieci anni prima, con “Europa in Ruinen”: un’antologia
di testi sulla distruzione della Germania per la quale aveva dovuto fare
ricorso a scrittori e giornalisti stranieri. Sebald, analizzando i pochi racconti
tedeschi dei bombardamenti, di Nossack, Kluge, Kasack, de Mendelssohn, Arno
Schmidt, li trova divaganti e inconsistenti - unica eccezione Böll. Non onesti
– non dice la parola ma il senso sì: a fronte delle prime testimonianze straniere
già disponibili, di Dagermann, Gollancz, Janet Flower, Solly Zuckermann. Da un progetto
di quest’ultimo l’edizione inglese, e poi quella italiana, prende il titolo: il
progetto di un reportage dalla Germania
in rovina nel 1945 richeisto a Zuckermann da Cyril Connolly, per la sua rivista
“Horizon”, poi non realizzato.
La stroncatura si vuole letteraria. In
originale il titolo di Sebald è filologico, “Luftkrieg und Literature”, guerra
aerea e letteratura. Il seminario di Zurigo era di Poetica. Ma è un pamphlet, polemico. Molto. Di più nel commento alle reazioni, le lezioni essendo diventate subito pubbliche, largamente commentate. E nel saggio
contro Alfred Andersch, lo scrittore italianista, che accompagna le lezioni di
Zurigo nella pubblicazione in volume.
Un libro di grande lettura, per la scrittura alla giusta cadenza,
che cattura l’attenzione. Sia nelle lezioni di Zurigo che nella replica, e
nella stroncatura di Andersch. Ma curiosamente monco, e revisionista-revanscista.
Il rimosso della guerra, della distruzione
della Germania, fisica, materiale, con i bombardamenti a raffica, notturni, volutamente
terroristici, Sebald non riesce a spiegarsi. Finisce per imputarlo alla stessa Germania,
a una sorta di mentalità o di cultura, di modo di essere. Nell’arco della Beisammensein, della convivialità di
rigore, ma senza empatia - prende per vero un racconto di amburghesi risparmiati dalla Tempesta di Fuoco
che il giorno dopo prendono il caffè con le signore sul balcone davanti ai
corpi bruciati e alle rovine fumanti. Oppure a un senso di colpa, per le
atrocità commesse in guerra. Al meglio, alla guerra intesa surrettiziamente come
un lavacro, e al dopoguerra come una rinascita, immemoriale. Ma sempre
intendendo la mancata elaborazione del lutto come una colpa. Una nuova, dopo
quella nazista – Sebald usa all’inglese fascista e fascismo a preferenza di
nazista e nazismo. Senza tenere conto che la Germania nel 1945 aveva i russi a
Berlino, che temeva. E si aggrappava per questo agli Alleati, gli stessi che
l’avevano bombardata. I quali peraltro ne garantivano nel disastro il funzionamento,
evitando epidemie e carestie, con l’ordine, e con corposi finanziamenti.
Questo nella Germania Federale. Quella
filosovietica invece - anche di questo Sebald non tiene conto – elaborò anche
troppo il lutto dei bombardamenti: ne fece per molti anni il tema
propagandistico principale. Arno Schmidt forse non fu efficace, ma Brecht sì. Nell’“Abicì della
guerra” dice: “Le nostre città sono solo una parte\ di tutte le città che
abbiamo raso al suolo”. Ma molto parla dei bombardamenti alleati. In nota a una
delle foto, del primo bombardamento inglese su Berlino, la notte del 10
settembre 1940, dà la colpa della “guerra totale”, dei bombardamenti
indiscriminati, agli anglo-americani: “Dal 1940 all’aprile 1945 sulla sola
Germania furono sganciate:
peso delle bombe in tonnellate = 1 300 000
vittime =
500 000
percentuale delle vittime per tonn. = 0,
38”.
Un’altra curiosa discrasia è nell’edizione
inglese, curata dallo stesso Sebald, che include due saggi sulla Soluzione
Finale, uno su Améry e uno su Peter Weiss. Due da secoli tedeschi che si sono
scoperti all’improvviso diversi – è il tema di Hannah Arendt – per le leggi razziste di
Norimberga. E hanno avuto, hanno mentre scrivono, difficoltà a capirsi diversi.
Di Améry Sebald valuta positivamente, come giusto, il risentimento, di uno che
non sapeva, da secoli, di non essere austriaco, prima delle leggi razziste, e dell’Anschluss, l’incorporazione dell’Austria
alla Germania nazista. Ma del risentimento ha fatto in precedenza lungo rimprovero a
Andersch.
Il libro si legge sempre con interesse. Anche per gli aspetti laterali. La propria infanzia dell’autore in Allgovia,
fuori dalle “distruzioni naturali”, fra Tirolo, Voralberg, Baviera e Baden. O
le rilettura dell’espressionismo, dei film di Thea von Harbou e Fritz Lang,
come mitizzazione della distruzione – “Dr.Mabuse” come una sceneggiatura
ricavata dai “Protocolli dei savi di Sion”… Ma chiuso il libro, ciò che resta è
un atto di accusa – indiretto, inconscio? - contro i bombardamenti. Che la
Germania dopo la guerra non si sia pianta addosso - o anche abbia finto di
nulla, se questo fosse il caso – non è titolo di demerito o vergogna. Ciò che solo
può indignare – che indigna Sebald, anche se lui non lo sa, o ammesso che non
lo sappia – sono i bombardamenti. Il pamphlet
si legge quindi, subliminalmente, come
un invito al revisionismo storico, sia pure attraverso la letteratura. Una
letteratura della distruzione, che rimetta in discussione l’efficacia dell’arma
aerea, altro che come arma di distruzione di massa. E le responsabilità
politiche e etiche degli Alleati, specie della strategia britannica dei
bombardamenti massicci e notturni a scopo di terrorismo. Una revisione che, per
quanto spassionata e non nazionalistica, non potrà che essere in contrapposizione,
in qualche misura, con quella dello sterminio, dell’unicità di Auschwitz.
L’invito è certo inintenzionale. Sebald è
della specie dei tedeschi anti-tedeschi. Anglomane al punto da fare i pesi a
danno della Germania spiegando che l’etica dei bombardamenti è stata invece
discussa in Gran Bretagna, ai Comuni, alla camera dei Lord, e nelle stesse
forze armate. Dei tedeschi rifiuta tutto,
anche il cliché, dice, della Gemütlichkeit, del zum gemütlich Beisammensein, la convivialità bollando di
superficialità, solo rumorosa. E lamenta l’uso, ancora dopo la guerra, di dirsi
divertiti bis zur Vergasung, gasati. Ma l’invito è nella cosa: le sue pagine sui bombardamenti, di
critica a chi non ne ha parlato o non ne ha scritto, sono già una
testimonianza. Molto viva: è come se Sebald avesse vissuto quei bombardamenti,
benché avesse solo un anno e stesse lontano e protetto, nelle prealpi al
fondo della Germania. E restano una richiesta tassativa di riempire il vuoto,
di parlarne: di studiare i bombardamenti, anche solo descriverli, nella loro
terribilità.
La revisione è comunque inevitabile, facile
prevederlo. In Germania e in Giappone. E qualche traccia c’è già, Sebald è solo
il primo.
La bizzarria, a un secondo pensiero, è
soprattutto sul piano letterario. Alla Germania Sebald rimprovera, nel saggio su Améry
qui non compreso, di non avere nichilisti del calibro - a Parigi - di Bataille
e Cioran. In realtà, quello che Sebald ha in mente e manca alla Germania è un
Céline, di dopo la prima e dopo la seconda guerra mondiale – nome che
sicuramente avrebbe vituperato. O anche solo di un Jünger, il fustigatore della
“guerra dei materiali”, terribile già nella Grande Guerra, che Sebald invece
cita, qua e là, come l’anima nera sotterranea della Germania.
W.G.Sebald, Storia naturale
della distruzione, Adelphi, pp. 149, ill. € 16
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