Il caso è un non caso,
avverte De Felice: la vendita, decretata ripetutamente dai governi che si sono
succeduti nella breve stagione della Repubblica, non andò a buon fin: “La
caduta dela Repubblica Romana e la restaurazione dello Stato della Chiesa
portarono al loro annullamento”. Ma quello che si dispose, il mercato che si
aprì, i contratti approntati mostrano soprattutto confusione e malaffare. Si
procedette a caso. Con vendite affrettate, a prezzi irrisori, che alla fine non
furono nemmeno incassati. L’unica certezza dai conti di De Felice è che “i
Francesi ricavarono utili enormi da tali cessioni”, come intermediari e patrocinatori. I valori numerari furono sempre inferiori a quelli di mercato,
basati su censi e canoni fiscali. E quasi mai furono incassati - le proprietà
furono poi restituite? De Felice lascia intendere di sì, e invece no: al 90 per
cento si prese senza pagare.
Le repubbliche italiane, la
Romana e la Cisalpina, si obbligarono a pagare alle truppe di occupazione
francesi rispettivamente due e otto milioni di Beni Nazionali. In numerario, ma
senza specificare quali beni e come. Si procedette con una ricetta mista – che
potrebbe servire da esempio per il sempre più indifferibile consolidamento del
debito italiano, se l’euro resterà in vita e se l’Italia resterà nell’euro.
La vendita era una misura “rivoluzionaria”
– De Felice lo dà per scontato ma è bene ricordarlo. Si intendevano Beni
Nazionali quelli della chiesa, o “soppressioni”, una delle prime misure della
Rivoluzione francese, il 2 novembre 1789, su proposta di Talleyrand, vescovo di
Autun. I beni del clero, denominati Beni Nazionali, entravano nella disponibilità
dello Stato per la riduzione del debito pubblico. Nello stesso tempo venivano
creati gli “assegnati”, una forma di buoni del Tesoro scambiabili con Beni
Nazionali – ma presto diventati carta moneta di uso corrente, con processo
inflazione immediata che riaprì la voragine del debito. Il circolo vizioso
delle politiche monetarie “rivoluzionarie”.
Qualcosa di analogo avvenne a
Roma nei pochi mesi della Repubblica del 1798: con effetti circoscritti solo
perché la Repubblica durò poco, e perché la vendita fu presto seguita dalla
“recupera pontificia”. Non era uno strumento nuovo: già il papa ci aveva pensato,
Pio VI, l’anno prima della Repubblica, con “l’editto del 28 novembre 1797 con
cui erano stati messi in vendita il quinto dei beni rustici ecclesiastici, delle
confraternite, delle opere pie, delle comunità e i beni ex gesuitici in
enfiteusi non perpetua, e con cui erano state messe fuori corso le cedole di
taglio superiore ai cento scudi, abilitandole al solo acquisto di tali beni”. Due
mesi e mezzo dopo, il 15 febbraio 1798, si proclamava a Roma la Repubblica. E
il primo provvedimento del comandante francese Dallemagne, che il Consolato
romano si limitava a controfirmare, riguardò il consolidamento del debito.
Il programma francese di
pronto intervento che la Repubblica adottava – e che sarà da modello per gli
altri provvedimenti che la Repubblica adotterà successivamente - fu
quadruplice: la demonetizzazione (svalutazione) di una parte del debito, col possibile
riutilizzo dei titoli demonetati unicamente
per l’acquisto di Beni Nazionali; la vendita di tutti i Beni Nazionali,
compresi quelli provenienti dale “soppressioni” in corso; criteri rigidi per il
pagamento dei Beni Nazionali: per un quinto in moneta effetiva (fina), per un quinto in cedole non demonetate, per i tre quinti della
stima, e per l’eventuale differenza tra
il prezzo di stima e quello di aggiudicazione, in cedole demonetate; il ritiro e la distruzione delle le cedole demonetate utilizzate per l’acquisto.
Ma tutto fu fatto in modo
affrettato, casuale. Eccetto che per i francesi, che in realtà gestirono il
mercato. I francesi della guarnigione e, di più, quelli dell’intendenza – cui
il napoleonicissimo Stendhal, va ricordato, era addetto (non operativo a Roma,
ma in Germania per esempio sì, e a Milano). Dei fornitori, cioè, al seguito
delle armate, che in grandissima parte erano italiani. A Roma come altrove, con
le “soppressioni” e la “manomorta”, si delinea una borghesia italiana al di
sotto di ogni sospetto: affaristica, soprattutto a danno dei vinti e degli
indifesi, arruffona, ladra, meglio se di beni pubblici, corrotta e corruttrice.
Tutto meno che produttiva.
Una ricerca leggibile,
malgrado la materia specialistica. Che De Felice ha corredato di appetibili
appendici. L’elenco delle “soppressioni”: “Conventi, monasteri e altri
stabilimenti ecclesiastici soppressi dalla Repubblica Romana”. La modulistica
contrattuale. Le liste degli acquirenti – per primi i tribuni del popolo, i
consoli e altri giacobini di marca (tra i privati Giovanni Torlonia). Le
vendite effettuate dai francesi. I Beni Nazionali venduti alla Repubblica
Francese, o a terzi, e subito rivenduti. Con due ottime dettagliate piante
topografiche, di Roma e dell’agro romano, “nelle sue tenute e pediche”.
Una curiosità è una sorta di
“reddito di cittadinanza” anticipato. A favore di novizi e novizie “restituiti
alle loro famiglie”, e dei religiosi che volevano tornare allo stato laicale,
per quelli che avevano una certa età: potevano prendersi i mobili della propria
camera o cella e, se appartenenti a ordini non mendicanti, chiedere una
pensione pubblica. Per gli uomini la pensione fu stabilita in duecento scudi
annui per i quarantenni, e in trecento per i cinquantenni e oltre – niente per
i minori di quaranta. Per le donne la pensione fu stabilita in funzione
dell’età e della dote che ciascuna di esse aveva apportato al monstaero. Le
pensioni dovevano essere pagate sui beni dell’istituto sopresso.
La prima opera dello storico
reatino, nato come storico della prima Repubblica Romana. Si era laureato sei
anni prima con Chabod - per il quale aveva preparato, per un’esercitazione, un
saggio sui “Giudei nella repubblica romana del 1798-99”, di cui lo storico
aostano, fortemente impressionato, aveva disposto la pubblicazione - con una
tesi sulle “Correnti di pensiero politico nella prima Repubblica romana”. Sarà
storico accreditato – scettico - del giacobinismo, prima degli studi su
Mussolini e il fascismo. Il trait-d’union
fra le due tematiche fu lo studio commissionatogli dall’Unione delle comunità
israelitiche, “Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo”, 1961. In contemporanea
con questo studio, sulla “Vendita dei Beni Nazionali”, pubblicava nel 1960 le
“Note e ricerche sugli «Illuminati» e il misticismo rivoluzionario
(1789-1800)”.
La gran massa delle vendite
fu fatta a Roma e Ancona. Su Roma De Felice ha trovato tutto documentato: un
terreno fertile di ricerche, che non si fanno.
Renzo De Felice, La vendita dei beni anzionali nella
Repubblica Romana del 1798-99”
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