lunedì 24 febbraio 2020

La Repubblica degli arraffatori – alle radici della borghesia italiana

C’era un problema di consolidamento (riduzione) del debito pubblico già nella prima Repubblica romana, 1798-1799 (15 febbraio 1798-30 settembre 1799), come oggi. Per effetto dei patti jugulatori che la Repubblica aveva contratto con i liberatori francesi, e del malgoverno, inflazione compresa. Le casse erano a secco, gli interessi passive sul debito ingenti, gli impegni di spesa enormi, per pagare i francesi (danni di guerra e mantenimento delle delle truppe), e per i danni causati dalle sacche di resistenza e dall’attacco delle forze napoletane. Il rimedio fu cercato nella vendita dei Beni Nazionali, del demanio – così come oggi, con la vendita delle imprese pubbliche. In gran parte costituito dai beni della chiesa.
Il caso è un non caso, avverte De Felice: la vendita, decretata ripetutamente dai governi che si sono succeduti nella breve stagione della Repubblica, non andò a buon fin: “La caduta dela Repubblica Romana e la restaurazione dello Stato della Chiesa portarono al loro annullamento”. Ma quello che si dispose, il mercato che si aprì, i contratti approntati mostrano soprattutto confusione e malaffare. Si procedette a caso. Con vendite affrettate, a prezzi irrisori, che alla fine non furono nemmeno incassati. L’unica certezza dai conti di De Felice è che “i Francesi ricavarono utili enormi da tali cessioni”, come intermediari e patrocinatori. I valori numerari furono sempre inferiori a quelli di mercato, basati su censi e canoni fiscali. E quasi mai furono incassati - le proprietà furono poi restituite? De Felice lascia intendere di sì, e invece no: al 90 per cento si prese senza pagare.
Le repubbliche italiane, la Romana e la Cisalpina, si obbligarono a pagare alle truppe di occupazione francesi rispettivamente due e otto milioni di Beni Nazionali. In numerario, ma senza specificare quali beni e come. Si procedette con una ricetta mista – che potrebbe servire da esempio per il sempre più indifferibile consolidamento del debito italiano, se l’euro resterà in vita e se l’Italia resterà nell’euro.
La vendita era una misura “rivoluzionaria” – De Felice lo dà per scontato ma è bene ricordarlo. Si intendevano Beni Nazionali quelli della chiesa, o “soppressioni”, una delle prime misure della Rivoluzione francese, il 2 novembre 1789, su proposta di Talleyrand, vescovo di Autun. I beni del clero, denominati Beni Nazionali, entravano nella disponibilità dello Stato per la riduzione del debito pubblico. Nello stesso tempo venivano creati gli “assegnati”, una forma di buoni del Tesoro scambiabili con Beni Nazionali – ma presto diventati carta moneta di uso corrente, con processo inflazione immediata che riaprì la voragine del debito. Il circolo vizioso delle politiche monetarie “rivoluzionarie”.
Qualcosa di analogo avvenne a Roma nei pochi mesi della Repubblica del 1798: con effetti circoscritti solo perché la Repubblica durò poco, e perché la vendita fu presto seguita dalla “recupera pontificia”. Non era uno strumento nuovo: già il papa ci aveva pensato, Pio VI, l’anno prima della Repubblica, con “l’editto del 28 novembre 1797 con cui erano stati messi in vendita il quinto dei beni rustici ecclesiastici, delle confraternite, delle opere pie, delle comunità e i beni ex gesuitici in enfiteusi non perpetua, e con cui erano state messe fuori corso le cedole di taglio superiore ai cento scudi, abilitandole al solo acquisto di tali beni”. Due mesi e mezzo dopo, il 15 febbraio 1798, si proclamava a Roma la Repubblica. E il primo provvedimento del comandante francese Dallemagne, che il Consolato romano si limitava a controfirmare, riguardò il consolidamento del debito.
Il programma francese di pronto intervento che la Repubblica adottava – e che sarà da modello per gli altri provvedimenti che la Repubblica adotterà successivamente - fu quadruplice:  la demonetizzazione (svalutazione) di una parte del debito, col possibile riutilizzo dei titoli demonetati unicamente per l’acquisto di Beni Nazionali; la vendita di tutti i Beni Nazionali, compresi quelli provenienti dale “soppressioni” in corso; criteri rigidi per il pagamento dei Beni Nazionali: per un quinto in moneta effetiva (fina), per un quinto in cedole non demonetate, per i tre quinti della stima,  e per l’eventuale differenza tra il prezzo di stima e quello di aggiudicazione, in cedole demonetate; il ritiro e la distruzione delle le cedole demonetate utilizzate per l’acquisto.
Ma tutto fu fatto in modo affrettato, casuale. Eccetto che per i francesi, che in realtà gestirono il mercato. I francesi della guarnigione e, di più, quelli dell’intendenza – cui il napoleonicissimo Stendhal, va ricordato, era addetto (non operativo a Roma, ma in Germania per esempio sì, e a Milano). Dei fornitori, cioè, al seguito delle armate, che in grandissima parte erano italiani. A Roma come altrove, con le “soppressioni” e la “manomorta”, si delinea una borghesia italiana al di sotto di ogni sospetto: affaristica, soprattutto a danno dei vinti e degli indifesi, arruffona, ladra, meglio se di beni pubblici, corrotta e corruttrice. Tutto meno che produttiva.
Una ricerca leggibile, malgrado la materia specialistica. Che De Felice ha corredato di appetibili appendici. L’elenco delle “soppressioni”: “Conventi, monasteri e altri stabilimenti ecclesiastici soppressi dalla Repubblica Romana”. La modulistica contrattuale. Le liste degli acquirenti – per primi i tribuni del popolo, i consoli e altri giacobini di marca (tra i privati Giovanni Torlonia). Le vendite effettuate dai francesi. I Beni Nazionali venduti alla Repubblica Francese, o a terzi, e subito rivenduti. Con due ottime dettagliate piante topografiche, di Roma e dell’agro romano, “nelle sue tenute e pediche”.
Una curiosità è una sorta di “reddito di cittadinanza” anticipato. A favore di novizi e novizie “restituiti alle loro famiglie”, e dei religiosi che volevano tornare allo stato laicale, per quelli che avevano una certa età: potevano prendersi i mobili della propria camera o cella e, se appartenenti a ordini non mendicanti, chiedere una pensione pubblica. Per gli uomini la pensione fu stabilita in duecento scudi annui per i quarantenni, e in trecento per i cinquantenni e oltre – niente per i minori di quaranta. Per le donne la pensione fu stabilita in funzione dell’età e della dote che ciascuna di esse aveva apportato al monstaero. Le pensioni dovevano essere pagate sui beni dell’istituto sopresso.
La prima opera dello storico reatino, nato come storico della prima Repubblica Romana. Si era laureato sei anni prima con Chabod - per il quale aveva preparato, per un’esercitazione, un saggio sui “Giudei nella repubblica romana del 1798-99”, di cui lo storico aostano, fortemente impressionato, aveva disposto la pubblicazione - con una tesi sulle “Correnti di pensiero politico nella prima Repubblica romana”. Sarà storico accreditato – scettico - del giacobinismo, prima degli studi su Mussolini e il fascismo. Il trait-d’union fra le due tematiche fu lo studio commissionatogli dall’Unione delle comunità israelitiche, “Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo”, 1961. In contemporanea con questo studio, sulla “Vendita dei Beni Nazionali”, pubblicava nel 1960 le “Note e ricerche sugli «Illuminati» e il misticismo rivoluzionario (1789-1800)”.
La gran massa delle vendite fu fatta a Roma e Ancona. Su Roma De Felice ha trovato tutto documentato: un terreno fertile di ricerche, che non si fanno.
Renzo De Felice, La vendita dei beni anzionali nella Repubblica Romana del 1798-99”

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