Anche Manara sembra soffrirne.
Il tratto è lo stesso, leggero, le fantasie eccessive, anche estreme. Come un
vaffa al genere.
Tre storie. La prima, “Rivoluzione”,
doppiamente classica. La rivoluzione per la poltrona – per cambiare sedere sulla
poltrona. Un’avventura al termine della quale la pasionaria, la “donnina”
manariana scosciata, mentre i compagni si trasformano in baffute presenze
carrieristiche nella sempiterna tv, lascia uno spiraglio alla speranza: la tv
si può spegnere e fare altro, anche leggere i fumetti. Una storia
tradizionale.
La seconda, “Tre ragazze
nella rete”, anch’essa del 2000, è
invece visionaria, anticipando il tempo dei social e della realtà fake. Con la critica, già ventanni fa:
chi tir le fila, le ragazze in rete o lo sponsor di cui sono testimonial e
merce? Ma ha bisogno del sesso estremo, della violenza – per ridere, ma anche
no, per soffrire.
Una storia sul genere del noir, con omicidio, occultamento, e
sorpresa finale. Profetica, ma basata sulla rivisitazione delle nozioni ormai
remote sull’eros e il pudore: esibirsi in video è un modo “pulito” di
prostituirsi o un modo nuovo di vivere la sessualità? La risposta non è difficile
– la storia è in realtà di un lesbismo furioso (altre tavole fuori testo in materia
accompagnano la pubblicazione), e di voyeurismo al quadrato, di voyeurismo anche
nel soggetto, oltre che nella lettura-visione.
La terza storia, “Chris Lean”,
1977, su testi di Raffaele D’Argenzio, per il “Corier Boy”, successore del “Corriere dei piccoli”, è l’evocazione di un
tempo ormai arcaico delle strisce, un fumetto mezzo western, con facce e modi
riconoscibili dal cinema. È il debutto di Manara: l’anno dopo scriverà e
disegnerà il suo “H.P. e Giuseppe Bergman”, il primo della serie, la prima
striscia tutta Manara. Milo Manara, Potere
alla tv, Panini, pp. 144, ll. € 11
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