Andersch – Lo scrittore italianista, di un romanzo anche su Venezia, “La Rossa” (Venezia), fu in guerra in Italia nel 1943-44, nella
Wehrmacht durante l’occupazione, poco sotto la linea Gotica, nella Toscana che
fu teatro di molti eccidi. Da dove scriveva divertito alla madre, nell’autunno
del 1943, di un viaggio in side-car con un ufficiale superiore: “Pisa, la Torre
pendente, la cattedrale … un meraviglioso paesaggio italiano con belle facciate
sull’Arno che mi sono passate davanti…. Siamo alloggiati in un carinissimo
piccolo villaggio… la sera è mite e tiepida, la bottiglia di Chianti fa il
giro. E per tutto questo fare il soldato al 100%. Ma è divertente”.
Costanzo Show – Sarà stato la fucina degli
scrittori più amati, seppure in età – senza glamour,
o appeal fisico: Camilleri e
Merini.
Dante – L’ultimo remake, non tradotto, della “Divina Commedia”
sarebbe (è stato così presentato, ed è reputato) di Peter Weiss, 1965, “L’istruttoria”.
Un piccolo “Inferno” teatrale, “un “oratorio”, in undici canti. Limitato a un
solo gruppo di condannati, i diciassette del primo processo in Germania per la
persecuzione degli ebrei, a Francoforte nello stesso anno.
Sebald, “On the natural History of Destruction”,
p. 189 (l’edizione anglo-americana, che comprende anche due saggi su Jean Améry
e Peter Weiss), lega le pene dell’Inferno a un’esperienza personale che Dante
avrebbe maturato, a Parigi: “Dante, bandito dalla città natia sotto pena di
morte per fuoco, era probabilmente a Parigi nel 1310, quando cinquantanove
Templari furono bruciati vivi in un solo giorno”. Un’esperienza del genere il
critico dice necessaria per “la giustificazione della preoccupazione
sadomasochistica, la ripetuta e virtuosistica rappresentazione della
sofferenza”.
Giallo – Ha molti antenati. Del Buono
faceva risalire alla Bibbia pure il giallo. Calvino invece a “Zadig”, il
racconto di Voltaire, “la narrazione a procedimento induttivo” - argomentando
il 24 ottobre 1972 con Franco Ferrucci,
che gli aveva prefato il racconto per la collana Centopagine.
“La gabbia più vera per uno scrittore è il
romanzo giallo”, Sciascia confidava a Camilleri (“La testa ci fa dire”, 81). Per
imporgli un piano un piano di lavoro, una scrittura a progetto e non
rabdomantica.
Italiano – I “Racconti italiani
contemporanei”, una antologia di 700 pagine pubblicata in rumeno a Bucarest a
maggio del 1964, tirata in ventimila copie, era andata subito esaurita – la traduttrice
di Calvino, Despina Mladoveanu, lo comunicava en passant allo scrittore il 25 maggio.
Mabuse – Il “Dr. Mabuse” di Thea
von Harbou e Fritz Lang Sebald vede al finale della “Storia naturale della distruzione”
ricalcato sull’ebreo prototipo dei “Protocolli di Sion”: uno di incerta origine
che cavalca il potere, speculatore, baro, falsificatore, provocatore, falso
rivoluzionario, ipnotista – anche il sesso praticando in forme ignobili.
Montalbano – È Sciascia, e un po’ anche
Sgarbi, assicura Camilleri a Sorgi in “La testa ci fa dire”, 105-107, delineando
il carattere del personaggio: “In tante cose ho preso da Leonardo Sciascia”. Non
dalle opere, dall’uomo: “Tra quelle
riconoscibili, c’è il suo caratteristico impaccio nel parlare in pubblico”. Più
il turpiloquio, che invece dice proprio suo, di Camilleri.
Morselli - Ovunque si è trovato contro Vittorini, che tanta
pessima letteratura ha promosso da Einaudi, e tanta ottima ha bocciato da
Mondadori, il Gattopardo, Živago, Simenon, Grass.
Calvino,
che ha pubblicato anche lui boiate immense, ha dedicato al romanzo della vita di
Morselli un viaggio in treno fino a Milano, un’ora e mezza da Torino, e gli ha
negato la pubblicazione. Ma Torino è fatale, si sa, alla letteratura.
Nievo – Ha estimatore anche
Camilleri, “La testa ci fa dire”, 157: “Giustamente si considera un capolavoro
«Le memorie (sic!) di un ottuagenario» di Ippolito Nievo, ma nessuno parla più
di un altro libro di Nievo, il fantastico «Barone di Nicastro», dal quale nasce
tutto intero Calvino”.
Camilleri estimatore
in aggiunta allo stesso Calvino, e a Gadda. E a Carducci, che lo ha copiato per
la migliore
della sue poesie, “La nebbia a gl’irti colli”.
Oscar – “Parasite”, dopo “Roma”,
dopo “La forma dell’acqua”, gli Oscar sono un’altra cosa: non premiano il
miglior cinema. Film senza soggetto, non degno di memoria, senza sceneggiatura,
senza più immagini da repertorio, e anche professionalmente film a tirare via,
i vecchi film di serie B, superpremiati. Forse perché la platea dei votanti si è
moltiplicata, da tremila a forse diecimila e oltre. Di essi 5.100 erano attivi
secondo una inchiesta del “Los Angeles Times” del 2012. E quasi tutti, allora,
“caucasici”, cioè americani ed europei. Dopo di allora la platea, tenuta
confidenziale, si sarebbe allargata molto all’Asia. Salvatores, uno di quelli
che vota sempre (i premiati sono di diritto membri dell’Academy hollywoodiana),
pensa che gli aventi diritto siano oltre diecimila.
Pavese – Calvino, “I libri degli altri”, 545, lo collega a “un nietzschianesimo
torinese, che ebbe in Pavese il più originale rappresentante”.
Popolare – Per la musica si è dovuto
aspettare Roberto
Leydi, che nel 1973 stampò “I canti popolari italiani”. Una sfida: vent’anni prima,
quando Lomax realizzò la strepitosa raccolta di canti italiani, e da Einaudi
uscì la “Musica Popolare” di Bartók, Calvino sul suo “Notiziario Einaudi” fece
scrivere a Mila che Bartók non se ne intende, che la musica popolare non
esiste, che quella di Bartók è musica colta volgarizzata. E a Carpitella, che
aveva aiutato Lomax e rispettosamente lo segnalava, Mila consigliò di leggersi
qualche libro, prima di andare in giro col registratore. Calvino che del
popolare si è voluto un paio di anni dopo cultore, di leggende, fiabe, orchi e
sirene.
Ma è vero che il popolare è difficile: molti canti
della tradizione scozzese inventata da Walter Scott erano di David Rizzio, il
segretario della regina Maria, assassinato nel 1566, che era nato Riccio a
Torino, ed era stato ambasciatore del duca di Savoia in Scozia - lo riconosce
pure Hawkins, nella “General History of the Science and Practice of Music”.
Sciascia – “Quel gioco di verità e
impostura – di ascendenza pirandelliana”, in realtà “contestazione
cervantino-unamuniana-pirandelliana”, con “il Gogol via Brancati”, ne è la
cifra per Calvino”, che gli scrive dopo aver letto la pièce “L’Onorevole”. Vedendolo - lo consiglia in tal senso - “sul punto
di liberarsi” della “compostezza manzoniana”: “Non è la compostezza illuminista
che devi rompere ma quella manzoniana (Manzoni da Voltaire e Diderot aveva
imparato moltissimo, ma Voltaire e Diderot i loro demoni li avevano e come;
Manzoni no)”. Personalmente riservandosi con l’amico - non solo lui, anche altri
nell’editrice, assicura: “Ma possibile che questo accidente di uomo sia sempre
così controllato e cosciente e funzionale nella sua missione di moralista
civile, possibile che mai salti fuori in persona col suo demone, il suo momento
lirico e privato in contrapposizione a quello pubblico e storico, il suo
«mito», la sua «follia»?” Personalmente Calvino lo individua quale “saggista letterario,
sociologo della civiltà di massa e riformatore giansenista”.
letterautore@antiit.eu
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