Si viene
catapultati nolenti nella cronaca nera che sembra remota, conati di violenza
montando fuori e dentro – da fuori a dentro. Sarà questa la barbarie, quando la
cronaca nera esce dagli angiporti delle questure.
Anche i solleciti telefonici a cambiare operatore o gestore
hanno da qualche tempo accenti romaneschi. Non diversi dagli altri, per la
verità, ma più importuni, insistenti. E a rischio sicuro di maledizioni a
microfono spento. Mentre l’Acea, che si è impadronita dei vostri codice Pod e codice
Remi qualche decennio fa, non manca di mandarvi ogni paio d’anni fatture
minatorie – quanto serve per metterle a credito nei bilanci.
Il tutto in romanesco di periferia, come vuole il trend – eccetto l’Acea, bisogna dire:
l’Acea manda paginate avvocatesche, qualche piccola consulenza a qualche
amico\a. Conviene dirsi di periferia, è il nuovo status. Che però è sancito
dalla parlata, e quindi è discriminante: lascia senza difese.
Si è diffuso da qualche tempo nella paciosa Roma una sorta
di sfida universale contro il mondo, una oneumanship
individuale, l’ambrosiano-bossiano “ce l’ho più duro”. Contro nessuno in particolare
e contro tutti. Tutti quelli che non pongono problemi per tatuaggi, pettorali, statura,
ricchezza, turpiloquio.
Si aggirano queste “periferie”, sociali più che
topografiche, di piccola borghesia, come mandrie impazzite, in cerca di non
sanno che cosa. Hanno votato in massa Raggi, che gli ha promesso la teleferica
e gli ha tolto l’Olimpiade, per “metterla in culo” al mondo. Dormono poco, tormentati
dai debiti, che non pagano. Nell’Ottocento, prima e dopo Porta Pia, si
accoltellavano, per ubriachezza. Ora non si ubriacano ma le spese hanno molte: tatuaggi,
aperitivi, curva Sud, roadster, sfizi e scazzi, che finiscono costosi. Saranno
gli insoluti – Roma ne è sempre stata la capitale, per la verità?
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