Derrida – O della dimensione ludica della filosofia. Si può riflettere per giochi (di parole), concatenazioni, scomposizioni, ricostituzioni, e per suoni e tonalità (omofonie, cacofonie), sciarade, affermazioni per interrogative negative? Per ribaltamenti più che per affermazioni? Evidentemente si può. Con che effetto? Una messe abbondante attraverso l’asistematicità. Come contrapposta alla sistematicità.
Una
metodologia più o meno produttiva non è dato sapere, il pensiero non si
addiziona.
La
conoscenza è una tela di Penelope? O meglio una tovaglia fuori misura, che cade
da tutti i pizzi? Ingombrante?
Diavolo
-
“Astuto e maligno” lo dice san Paolo che ne è l’inventore, benché il male non
conosca freno. Avrà disposto per questo di cancellarsi, la territio verbalis
prendendo beffardo a prestito dagli Inquisitori, la rimozione verbale: nel
Novecento del suo trionfo ha infilato la propria rimozione, è un secolo che non
ci sono più diavolerie nel mondo. Tutto, tutto il male, è ora technicality, anzi algoritmo, con un grosso lento lavoro
dietro di dematerializzazione e asintotizzazione.
Filosofia – Brexit,
sovranismi, populismi depreca il filosofo Floridi (“la Repubblica, 5 febbraio),
senza chiedersi come né perché. Dice che sono colpa della filosofia, che non se
ne occupa. Ma lo dice allo stesso modo come lo dicono i media, che non
analizzano, solo stigmatizzano – o plaudono. E non si capisce: la filosofia dovrebbe
occuparsene per deprecare questi fenomeni, o per spiegarli, spiegandoseli –
magari anche deprecandoli? Da che lato è il deficit conoscitivo?
La
funzione critica della riflessione è rimasta ancorata all’impegno. Nella forma
perfino rigida, irreggimentata, dell’agitprop,
bel al di là della “libertà nella
responsabilità”, fino alla quale si impegnava Italo Calvino - che però era, lui stesso lo sapeva, “moralità nell’impegno”, un impegno
morale, politico. Una categoria ardua, anche nella sua stagione – Gramsci era
prudente in materia. Nello stesso Sartre che la teorizzava e la praticava ha
prodotto guasti notevolmente superiori – basti il sovietismo – ai benefici.
Sempre a margine della ragione critica.
Identità – È isolana? È
più forte nelle isole, in Inghilterra come in Sicilia o in Sardegna – e anche
gli Stati Uniti si possono considerare, benché continentali geograficamente,
isolani, avulsi dal contesto nel quale si sono localizzati e di cui hanno
distrutto ogni connotato, nonché nello stesso continente che li ospita.
Ma
nelle isole poi si sottodistingue. Un inglese non è uno scozzese, tanto meno un
irlandese. Un texano non sarà mai un californiano, o un newyorchese. Anche la
Sardegna è divisa, in lingue e culture, se non in tribù. Mentre la Sicilia, la
regione italiana più caratterizzata e isolana, è stata il melting-pot italiano per eccellenza. Ricca, di acqua e sole, e poco
abitata, ha avuto i fenici, molti greci, gli arabi e i berberi, i normanni, che
hanno introdotto molte maestranze “lombarde” (anche di Lomellina e Monferrato, e
dell’Appennino ligure), molti toscani con gli Svevi, e la poesia siciliana, e
naturalmente aragonesi, catalani, valenciani. Più gli spagnoli di Carlo V, che
non si sono mischiati però hanno comandato. Che cos’è la sicilianità (la sicilitudine
si può capire, è una nostalgia)?
Minoranza – È la
condizione, personale e sociale, più protetta nel’età dei diritti. Donna, nera,
lesbica, così la romanziera americana Alice Walker carica la protagonista del
suo romanzo d’epoca “Il colore viola”, per dire sfigata in quanto vittima: perseguitata
dai bianchi in quanto nera, dagli uomini neri in quanto donna, e da uomini e donne
di ogni colore in quanto lesbica. Indirizzandosi, in forma epistolare, a Dio
per comprensione e protezione. In realtà protetta da questa condizione - anche
da una valutazione critica del romanzo-saggio di cui è attrice.
Le
maggioranze, di ogni tipo e quantità (nazionali, etniche, religiose, culturali,
produttive, etc.) si trovano nella condizione non di dover concedere qualcosa, poco
o molto che sia, in base ai criteri basilari di eguaglianza e giustizia, ma di
doversi difendere. È qui la radice della regressione politica, il fenomeno che
si indica col generico plurimo populismo, in Europa e in America come in Asia, tra
i caucasici e gli asiatici come tra gli africani.
La
società si vuole compatta, benché articolata. Generosa, comunque giusta, con le
minoranze, ma non da esse disarticolata. Non in forme assolutiste. La minoranza
è peraltro diffusiva: germinativa, anche partenogenetica. Da questi due
presupposti si genera il movimento anti-minoranze, come di difesa.
La
combinazione di incondizionalità e moltiplicazione è inevitabile che generi una
difesa, maggioritaria, e quindi più o meno esclusiva. Si celebrano, negli Stati
Uniti e altrove, processi non sulla base di una colpa, o responsabilità
comunque accertata, ma di diversi assetti, razziali, sociali, sessuali, perfino
di età, che potrebbero\dovrebbero determinare una colpa, a carico del più forte,
o meno debole.
Opinione pubblica –
Scontata “l’insincerità sistematica delle pretese fonti d’informazione e dei
leader dell’opinione pubblica”, Thorstein Veblen, “Teoria dell’impresa”, 1899,
la dice conservatrice: “L’insincerità dei giornali sembra essere, nel
complesso, di tendenza conservatrice”. Anche quando si vogliono progressisti.
Nel presupposto che il “progressismo” sia per la verità – il bene, l’ottimo.
Rimozione – Perché non
sarebbe parte dell’istinto di sopravvivenza, piuttosto che esercitarsi, più o
meno subdolamente, come pulsione? Non storicizzabile, nell’individuo come nel
gruppo.
Una
Grande Storia delle rimozioni porterebbe a questa conclusione. Degli imperi
come delle decadenze, delle chiese, delle nazioni, delle identità, tribali, etniche,
nazionali, sociali. Si è fatto grande caso (sintetizzato da W.G.Sebald nella
“Storia naturale della distruzione”) della rimozione radicale che la Germania
ha operato, con moto inconscio (non detto) collettivo, della sua propria
distruzione nell’ultima guerra, per quanto radicale e luttuosa. Alla mancata
elaborazione del lutto sovrapponendo
anzi un’operosità instancabile, benché in condizioni di deprivazione estreme.
Una rimozione a fin di bene.
La
stessa Germania offre il caso opposto, della mancata rimozione. Successe nella
precedente sconfitta, nella Grande Guerra, e portò a un revanscismo
esasperato.
Storia - La storia è
avvincente dopo Lessing, diventando, per essere educatrice del genere umano,
superflua quando l’uomo è maturo.
O
comincia con l’accesso dell’uomo alla maturità, e allora apre una prospettiva
infinita: scrivere la storia è approssimare la perfezione – la fine della
storia – approssimando la verità. Avventura appassionante, rigettare la verità
per consentire all’uomo di vivere, in qualche modo.
Verità - Importa a
Dio, e da questo punto di vista è nota. Per l’uomo è un perturbante, dirà
Freud, impedendo la tolleranza, che vuole ragione, e ne svia lo sviluppo.
zeulig@antiit.eu
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