Un classico, all’uscita nel 1962, e purtroppo
ancora oggi. Il “lonely” del titolo originale è più che solitario: è isolato, e
un po’ triste. L’africano, anche oggi, anzi oggi più di sessant’anni fa, quando
Turnbull pubblicò la sua ricerca antropologica, è isolato, nella sua stessa
patria, o tribù, e malinconico.
Lanternari, aggiornando il quadro
nell’introduzione a fine 1993, lo rilevava: l’Africa non si è liberata con le
indipendenze. Non si è liberata da se stessa. Anzi, cinquant’anni di malgoverno
generalizzato l’hanno lasciata – l’Africa a sud del Sahara – nell’arretratezza.
Malgrado gli aiuti internazionali. In un quadro globale che l’etnologo vede,
curiosamente, come un rischio: “I rischi ecologici, la minaccia nucleare, il
pericolo dei fondamentalismi e del terrorismo incombono a livello planetario. E
a livello planetario si dispiega l’emergenza droga, l’emergenza Aids,
l’emergenza criminalità organizzata e la stessa emergenza immigrazione dal
Terzo Mondo”. Questa soprattutto: “In questo quadro d’assieme, gli incontri fra
popolazioni, le grandi ondate immigratorie, le mescolanze di etnie e di gruppi
religiosi costringono l’Europa ad assumere coscienza del fenomeno migratorio
nel suo complesso, e delle realtà etniche che sopravengono nei nostri
territori”. Turnbull non fa che “annunciare quanto ora”, 1993, “vediamo
accadere, con la seconda «fuga»
dell’africano, dopo fallita la prima con l’abbandono del villaggio per la
città”.
Tutto prevedibile? “Vuoto psicologico
e culturale , solitudine”, insiste Lanternari, “erano, già allora, i connotati
della crisi dell’africano, trapiantato”. E lo sradicamento non ha fine: “Vuoto
psicologico e culturale più profondo, solitudine più desolante sono i connotati del neo-immigrato in Europa,
data l’enorme differenza d’ambiente e di civiltà”.
Resta, ma di questo non si sa con
quanta persistenza, il “punto di vista” dell’africano, come Turnull lo propone
nella prefazione: come l’africano si pensa e pensa il mondo. Ordinato per
analisi tematiche, ognuna corredata di una testimonianza dal vivo, “in un
villaggio del Congo orientale, all’epoca del regime coloniale belga” –
l’indipendenza del Congo ex belga si ebbe a metà 1960. Allo spartiacque fra le
contraddizioni coloniali europee e il rigetto da parte dell’Africa. L’Europa
aveva introdotto in Africa l’alfabetizzazione, un minimo di convivenza tribale,
e la medicina, con il concetto di lavoro esterno e di lavoro retribuito, ma non
teneva l’africano per uguale, e il lavoro pagava poco più di niente. “L’africano
solitario”, il capitolo finale, fa un quadro pessimista all’avvio delle indipendenze:
per la detribalizzazione incompiuta e ardua, il senso comunitario di nazione
estraneo, l’integrazione o modernizzazione contrastata dalle contraddizioni del
cristianesimo – un messaggio arduo, e in contrasto con i comportamenti.
Notevoli i ritratti dal vivo di Nkrumah, il
capofila delle indipendenze africane nel 1957, un africano ben europeo, e di
un leader dei kikuyu in Kenya di minor
fortuna politica, che Turnbull chiama “Edward” – allora la gran Bretagna era in
guerra con i Kikuyu, gli indipendentisti del Kenya - ben a suo agio quando studiava a Londra, con
lo stesso futuro antropologo. C’è la durezza coloniale belga, e inglese.
Soprattutto dei tempi più recenti, quando i coloni erano migranti per bisogno.
Un’accorta analisi del tribalismo, che avrebbe infettato il Congo ex belga
ancora per un sessantennio. Fino a oggi. Della tradizione impossibile – al cap.
“I maestri” – accanto all’urbanizzazione disgregatrice.
I racconti e le testimonianze sopravvivono come
scene di vita quotidiana. Uno o due episodi ambientati a Bukavu, sul lago Kivu,
evocano un modo paradisiaco, per la bellezza naturale e la relativa affluenza, la
stessa gente e la stessa bellezza del confinante Ruanda che trent’anni dopo
sarebbe stato la scena del più crudele e immotivato crimine umanitario dopo
l’Olocausto – dell’Africa come avrebbe potuto essere e non è stata. Un mondo
labile in tutto, a partire dalle frontiere: la ricerca dice Turnbull svolta nel
Congo orientale, ma molto succede a ‘Ndola, che sarà Rhodesia e poi Zambia, mentre Bukavu è, tribalmente, Ruanda.
Un libro – una
ricerca sul campo – della speranza, della fiducia. Sul fondo dell’uguaglianza
di principio. Ma forse è qui il nodo dell’Africa: la sua storia a
venire, fino a oggi, sarà diversa perché il passato e la sua eredità sono
diversi
La storia dell’Africa è diversa, anche prima del secolo coloniale. E non ha mutato corso. Tribale, incapace di distinguere tra pubblico e privato (corruzione), tradizionalista a perdere. Con incredibile intuito Turnbull anticipa lo sviluppo, pur escludendolo dalla prospettiva politica, che vuole beneaugurante, “un terribile vuoto spirituale e un’esistenza priva di scopo” rilevando, “o la disperazione di un materialismo assoluto”. In una prospettiva desolante: “Soltanto il tradizionalista, con la sua duplice vita, oppure il sedicente cristiano, che interpreta le credenze della sua tradizione secondo un rituale cristiano, mantengono ancora alcune radici spirituali e morali: e pur essi debbono lottare per sopravvivere in un terreno che è divenuto sterile intorno a loro. Perfino gli africani musulmani, la cui fede è infinitamente più forte di quella degli africani cristiani, soffrono a causa di questo conflitto”. Le testimonianze, pur registrate dall’antropologo con intento empatico, sono di un indomabile devastante tribalismo. Si può dire dell’africano che nasce sradicato, in un ambiente che non è più ambiente.
La storia dell’Africa è diversa, anche prima del secolo coloniale. E non ha mutato corso. Tribale, incapace di distinguere tra pubblico e privato (corruzione), tradizionalista a perdere. Con incredibile intuito Turnbull anticipa lo sviluppo, pur escludendolo dalla prospettiva politica, che vuole beneaugurante, “un terribile vuoto spirituale e un’esistenza priva di scopo” rilevando, “o la disperazione di un materialismo assoluto”. In una prospettiva desolante: “Soltanto il tradizionalista, con la sua duplice vita, oppure il sedicente cristiano, che interpreta le credenze della sua tradizione secondo un rituale cristiano, mantengono ancora alcune radici spirituali e morali: e pur essi debbono lottare per sopravvivere in un terreno che è divenuto sterile intorno a loro. Perfino gli africani musulmani, la cui fede è infinitamente più forte di quella degli africani cristiani, soffrono a causa di questo conflitto”. Le testimonianze, pur registrate dall’antropologo con intento empatico, sono di un indomabile devastante tribalismo. Si può dire dell’africano che nasce sradicato, in un ambiente che non è più ambiente.
Colin M. Turnbull, L’africano solitario, Dedalo, remainders, pp. 223 € 7,50
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