martedì 24 marzo 2020

Camilleri l’aretino

Assassinii, tradimenti, distruzioni, suicidi si accavallano nel nome della giustizia. Che è la stupidità al potere – usa chiamarla burocrazia, ma non rende l’idea.
Il ritmo veloce di Johnson ne fa una farsa. Ma anche così l’epopea dell’intrigo che è questo “romanzo storico” non dispiace – forse nemmeno a Camilleri, che comunque ha fatto in tempo a contribuire alla sceneggiatura. Una risata, amara. Della giustizia – della giustizia in Sicilia. E della Sicilia, che si rappresenta tutta falsa: l’amicizia - abusata, tradita, la donna – infoiata, il potere – truffaldino, la mafia – stupida, la furbizia. La sola Sicilia che non si rappresenta (Camilleri non rappresenta) falsa, la cucina, e il mare, qui mancano: è una storia terragna, chiusa, cupa.   
Una superba produzione di Carlo Degli Esposti, lo stesso dei “Montalbano”, che ha creato e alimenta il mito di “Vigata”. La chiave di Camilleri è lo sberleffo e qui vi si dà incontenibile. Ce n’è, sul niente (il telefono a casa), per tutti, in abbondanza. Donne, uomini, in età e giovani, prefetti e vice-prefetti, uomini d’onore e no, amici e amiche, lettere anonime e veritiere, Sicilia e Napoli. Sola eccezione la Polizia, come sempre in Camilleri, opposta ai Carabinieri intriganti e ottusi. Qui nella veste  - marginale: il coro della commedia classica, il controcanto -  del questore e del delegato (commissario). E un’immagine fa sorgere impensata di Camilleri: una sorta di Aretino. Altrettanto conformista (“sono stato fascista, e sono comunista”) quanto irriverente, di tutto e tutti.
Roan Johnson, La concessione del telefono

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