domenica 1 marzo 2020

I nuovi racconti romani

Otto sfide, sul filo del rasoio. Un raccolta di racconti e non un romanzo, come ora bisogna. Senza selfie, comè è ora l’uso, svestirsi. Che si propongono, ma non si saprebbe dire perché, come i nuovi racconti romani. 
Racconti di una borghesia ristretta, accademica. Di Roma Nord, non da Babuino-Parioli come gli originali, che erano di perdigiorno e commerci di famiglia. E senza il moralismo di Moravia. Anzi in prima persona. E con l’ironia – che è sempre difficile nei racconti. Delle proprie passioni per prime, declinate sul generazionale: la cinefilia, la cucina, la fitness, lo sradicamento. O il radicamento ovunque, a Roma Nord coma a Parigi o New York, ma allora luoghi di tutti, e quasi non-luoghi.
Di accademici non classici – non “stabilizzati” (arrivati) e anzi incerti, vaganti. Anche fisicamente, tra un incarico, una diversa specializzazione, una borsa di ricerca, un’altra famiglia. Fortemente generazionali, “ci sono toccati i decenni sbagliati” è prima considerazione. E “Valerio era così”, dell’amico che si perde, “la nostra giovinezza era così”. Con “l’etica privata del rebel without a cause: nonostante tutto”.
Racconti anche personali. Mimetici, ma di estraniazione sottile, come dallo psicoterapeuta. E di intimità in varie forme misteriose. Dimenticate o irrintracciabili, “Il nostro amico”. Di irrealtà e basta, “O a febbraio o a settembre”. Sul filo di una inquietudine costante, indefinita ma ostinata. Di disagi sotto la superficie del chiacchiericcio.
Storie di amicizia per lo più, impossibile. Il “nostro amico” del racconto omonimo è uno che tutti conosce e tutti conoscono, che nessuno sa come viva e cosa faccia, e scompare suicida, forse. Di Valerio, l’amico di tutti, “Rouge 89”, non si sapeva l’essenziale. L’amicizia è la più naturale (spontanea, distesa) delle inclinazioni, ma qualcosa si frappone fra il narratore – quasi tutti i racconti sono in prima persona – e gli amici, di lunga data o a sorpresa, inafferrabili. Con l’ironia, che è sempre autoironia. E insidiosa: un filo che può strangolare il racconto e i personaggi (sovraccaricarli o svuotarli) o all’inverso assottigliarsi al punto dell’inavvertito. Un mondo i racconti configurano di presenze\assenze.
Otto racconti, otto “tagli” diversi, che una cifra sembra accomunare, di tipo generazionale: dell’irreale che è la realtà generazionale? Della Generazione X,  dopo quella dei baby boomers - quelli che, negli anni 1960-1970, si sono presi tutto. La prima Neet, in transizione al globalismo della rete – alla polverizzazione e quasi all’anonimato. Un mondo che però essi hanno creato. Da smanettoni ancora radicati. La prima già in  campo come teen-ager, privata dell’anonimato dell’adolescenza. E per questo aumentata? Forse solo più lunga, avendo dimezzato l’età felice dell’irresponsabilità. Forse amputata  - il coetaneo Scurati lamentava di recente “l’infecondità” della generazione, dei quaranta-cinquantenni, “padri senza figli”. Racconti quindi in qualche modo, malgrado l’ironia, malinconici. L’insoddisfazione è alla prima pagina, di chi ha atteso “l’alba senza capitolare al sonno”.
La tradizione italiana, si è sostenuto a lungo, o a intermittenza, è del racconto - sottinteso: non del romanzo – da Boccaccio a Pirandello. Forse si può dirlo anche dopo il Novecento, rileggendo Soldati, Calvino e Gadda. Ma anche i romanzieri principe, Sciascia e Pasolini, che si rivelano scrittori di apologhi, per la “passione civile” soverchiante – unica eccezione Lampedusa, come fu Manzoni. Gabriele Pedullà si pone dunque nel mainstream.
La sfida è ad Agatha Christie, al Poirot di “un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, tre indizi fanno una prova” – il lettore può procedere tranquillo, non c’è spoiling possibile. L’unico altro autore citato è Cortázar, da qualche tempo riletto. Che però è un teorico – un narratore per schemi teorici (lo straniamento brechtiano variamente declinato dalle tante avanguardie latine anni 1960). Il richiamo viene spontaneo al Salinger dei “Nove racconti” e di quelli della famiglia Glass – in chiave romana (aperta, disincantata), senza derive tribali. O della rilevanza dell’irrilevante. Il primo e più inquieto racconto, “Quando la città dorme”, è della città che in realtà non dorme mai a specchio di chi dorme in piedi, il medico ospedaliero vittima dei turni, che fanno perdere i ritmi del sonno e insieme tengono assonnati, in una nebbia in cui forse, nell’inospitale non-luogo per eccellenza, il Pronto Soccorso, sta perdendo, o ha già perso, tutto. .  
Gabriele Pedullà, Biscotti della fortuna, Einaudi, pp. 201 € 15

Nessun commento:

Posta un commento