Afghanistan – È un posto dove tutti gli eserciti si sono perduti. Da qui la leggenda di Alessandro Magno che ne sarebbe tornato pazzo. Kipling lo ha scritto in vari modi, in molti racconti, “di frontiera” e non, un secolo e mezzo fa. Pur essendo un paese aperto e ospitale, in un Medio Oriente più spesso infido, che viaggiatori e viaggiatrici hanno potuto attraversare in solitario, in epoche molto più rischiose dell’attuale, Peter Levi, Chatwin, Annemarie Schwarzenbach, Ella Maillart, varie dame inglesi.
Balkh,
città che oggi più non esiste, tra i monti e i deserti dell’Afghanistan, la
Battra di Alessandro Magno, capitale della Battriana, è la culla della “razza ariana”
– lo è stata nel secolo e mezzo di dominio dell’ariogermanesimo o della
dottrina “ariana”. A Balkh nacque Zoroastro-Zarathustra.
Gli
Stati Uniti lasciano un Afghanistan non domato, ma non sconfitti. Il paese
resta ingovernabile per gli odi tribali incoercibili: i Talebani, con i quali
Trump ha fatto l’accordo per il prossimo governo, sono solo una delle tribù,
quella dei pashtun, divisa tra Afghanistan e Pakistan. In contrasto con hazara,
uzbeki, tagiki - e turkmeni, beluci, aimak, nomadi kuchi. E per le frontiere aperte, che ne fanno campo libero per
qualsiasi banda o gruppo armato, terroristico o di diritto comune
(contrabbando, droga).
Non aveva radio né tv, vent’anni fa, sotto il dominio fondamentalista
talebano, ne ha ora un centinaio. Non aveva cellulari, ne ha oggi
12-13 milioni, uno ogni tre abitanti, molto attivi in rete e nei social. Si è costruito
moltissimo: le abitazioni sono migliorate senza alcun confronto possibile. Si
sono costruite strade, asfaltate. Il pil è decuplicato, da 2,2 a 22 miliardi di
dollari. E per la prima volta il paese ha un’infrastruttura civile. Ci sono
banche, alberghi, e soprattutto scuole: vent’anni fa andavano a una qualche
scuola un milione di ragazzi, maschi, e 50 mila ragazze, oggi sono undici milioni,
di cui un terzo femmine, e gli universitari sono passati da poche migliaia a 160
mila, con 20 mila donne.
Duchessa di Paliano – La strage familiare che ha stimolato la curiosità di Stendhal per una delle
sue “Cronache italiane”, ha avuto altri aspetti e un altrettanto sanguinolento
seguito. Stendhal racconta lo strangolamento della duchessa di Paliano, Violante di Cardone
(“Diascarlona” nei testi d’epoca, Diaz Carlon di suo), e del presunto amante di
lei, Marcello Capece. Lo strangolamento, deciso dal duca di Paliano Giovanni
Carafa, fu attuato col concorso del fratello cardinale Carlo, del nipote Alfonso
Carafa, arcivescovo i Napoli, del cognato Ferrante Diaz Carlon conte di Alife,
e di un altro congiunto della duchessa, Leonardo di Cardine.
Marcello Capece era un giovane e bel gentiluomo napoletano del Seggio di
Nido – seggio era il logo, portico o galleria, dove si riunivano i notabili, del
quartiere,“Nido” è napoletano per Nilo, a Spaccanapoli, dove il punto di
riunione era sotto al statua del fiume Nilo. Secondo Stendhal, innamorato della
duchessa, le si era dichiarato, ma ne era stato respinto.
Giovanni e Carlo
Carafa, famiglia napoletana, erano due uomini d’arme. Feudo e titoli avevano avuto dallo zio
cardinale Gianpietro, quando questi era stato eletto papa a metà 1555, col nome
di Paolo IV. Nel 1559, al tempo del fatto di sangue, i nipoti erano però in
disgrazia presso il papa, per le loro condotte riprovevoli – eccetto Alfonso,
l’arcivescovo di Napoli, ancora giovanissimo. Il papa li aveva destituiti da
ogni incarico, e progettava di privarli dei beni acquisiti. Ma a Ferragosto morì.
Quattordici giorni dopo, mentre ancora durava il lutto pontificale, e in una
Roma avversa ai Carafa, per le troppe tasse, il duca di Paliano procedette
all’eccidio narrato da Stendhal.
Il nuovo papa, Pio
IV, il milanese Giovanni Angelo Medici, per prima cosa fece istruire un
processo a carico dei nipoti Carafa. Al termine del quale, nel marzo 1561, ne
decretò la condanna a morte: Carlo, in quanto uomo di chiesa, fu
strangolato, Giovanni, Alife e Cardine decapitati. Papa Pio V, il rigido
piemontese Antonio “Michele” Ghislieri, ne vorrà riabilitata la memoria, e farà
giustiziare il procuratore fiscale Alessandro Pallantieri, che aveva sostenuto
l’accusa, per avere agito fraudolentemente, per un intrigo di palazzo.
La fortezza e la
ducea di Paliano Paolo IV aveva assegnato al nipote Giovanni in odio ai
Colonna. La famiglia Colonna il papa napoletano fortemente avversava perché
alleata (“quinta colonna”) degli spagnoli, di Carlo V. L’imperatore il papa
riteneva il principale nemico dell’Italia, dopo avere sperimentato di persona
il terribile Sacco di Roma ordinato da Carlo V ai Lanzichenecchi nel 1527. In
particolare odiava il capo casato Ascanio, il quale, sempre in lega con la
Spagna, ne aveva avversato l’elezione in conclave – sconfitto dal partito
francese.
Ascanio era fratello di Vittoria Colonna, la poetessa amata da
Michelangelo, che Ariosto ha immortalato
come esempio di capacità e coraggio, in apertura al canto XXXVII, della forza
delle donne. Prima di Vittoria, eccellente in poesia, Ariosto elogia un’altra
Colonna, eccellente in virtù: Isabella Colonna, principessa di Sulmona, sposata
Gonzaga - una cugina di secondo o terzo grado di Vittoria e Ascanio.
Isabella
era figlia di Vespasiano
Colonna, duca di Traetto e conte di Fondi, figlio di Prospero dei Colonna di
Traetto e Fondi, secondo cugino del capo casato Ascanio. Sposato due volte,
dapprima con Beatrice Appiani, madre di Isabella, e poi, da vedovo, con Giulia
Gonzaga, un matrimonio senza figli, Vespasiano aveva legato tutto in morte, nel
1528, all’unica figlia. Ma Ascanio contestò la disposizione. Per decidere la lite
dovette intervenire il papa, Clemente VII, col quale peraltro Ascanio era in
lite, che ne tacitò le pretese passandogli la fortezza di Paliano.
Manomorta- La vendita forzosa dei beni della chiesa, a questa alienati e
venduti dallo Stato, ha modellato l’Italia unita, la sua peculiare borghesia, a
lungo redditiera più che imprenditrice, e il modo d’essere dello Stato. Ha
creato o cementato il potere privato, o privatizzato, delle consorterie o mafie
legali, e in forme appropriative e non innovative né accrescitive, quali le borghesie,
imprenditoriali o professionali, ebbero altrove, in Germania dopo l’Inghilterra.
E nella sessa Francia modello dell’Italia, che l’appropriazione dei beni della
chiesa elesse a religione. I beni finirono nelle mani degli “amici degli
amici”, senza cioè una vera asta. Amici per essere massoni professi, o anche buoni
credenti per l’occasione iscritti a una loggia. Con beneficio poco o nullo per
le casse statali.
La vendita della manomorta In Sicilia rafforzò
il latifondo, la proprietà assenteista, pure abolito per legge nel 1812, nota
De Amicis nei suoi “Ricordi d’un viaggio in Sicilia”, nel 1906: “I quarantasei
anni trascorsi dopo l’unificazione dell’Italia
non l’hanno punto smosso”, il latifondo, “dalle sue fondamenta secolari.
La vendita dei beni ecclesiastici, che pareva gli dovesse dare un crollo, non
fece per contro che favorirlo, poiché di quei beni s’impinguarono la borghesia
e l’aristocrazia, creando un nuovo
feudalismo terriero in aggiunta all’antico, abolito soltanto di nome nel 1812”.
astolfo@antiit.eu
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