Tutto Tremonti rimette in discussione. La
marcia gloriosa della Cina come superpotenza mondiale, basata sul commercio
invece che sulla guerra: “È facile prevedere che almeno per un po’ di tempo si
fermerà l’ascesa della Cina nella costellazione del potere globale”. E la
divisione internazionale del lavoro, nella quale ora tutte le “catene di
valore” (produzione) mondiali fanno capo alla Cina: i popoli, e quindi gli
Stati, impareranno dal virus, più o meno consciamente, che bisogna stare in
guardia. E, forse, che il business non è tutto. O meglio: che il business
migliore e più redditizio è quello che non abbandona la guardia.
L’economista Tremonti scrive rotondo, quasi
oracolare. Ma sa e ci vede giusto. Per un moto irriflesso, si dava per scontato
che nella globalizzazione tutto andasse per il meglio nel migliore dei mondi
possibili. Il virus forse non romperà quella realtà, quel mercato, ma
l’incantesimo sì: ora si sa che “niente è sicuro, niente può essere escluso”. E
quindi bisogna stare in guardia.
Nel saggio, appena un anno fa, Tremonti vedeva
la globalizzazione come una utopia, e la realtà tornata agli anni 1920 della
repubblica tedesca di Weimar, reputata per il disordine economico e sociale.
Che incubava virus politici estremi. Ora dopo il virus propriamente patogeno,
ipotizza un mutamento di psicologia e anche di prospettiva, di fronte al
cosmopolitismo degli affari.
Una delle tre profezie del titolo era
l’inevitabile crisi di una civiltà che si voglia cosmopolita, una riflessione
di Leopardi. Le altre due sono derivate una da Marx: la deriva del capitalismo
globale. E una dal “Faust” di Goethe, la cui minaccia, del potere mefistofelico
del denaro, Tremonti aggiornava ai poteri digitali.
Giulio Tremonti, Le tre profezie, Corriere della sera, pp. 173, ril. € 16
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