sabato 28 marzo 2020

La fine del laissez-faire

La globalizzazione viene in crisi negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, che sono i paesi che l’hanno teorizzata, voluta e imposta - fin nel linguaggio: non ci sono media immuni. E ne sono i centri nevralgici: Wall Street delle banche d’affari e i fondi speculativi (hedge) che tessono le fila, la City degli avvocati d’affari che le regolamentano – cioè non le regolamentano: le estendono, coprono, adattano. Ma ora l’opinone è che gli interessi costituiti strangolano l’economia, i fondi pensione come quelli speculativi. La pandemia non potrà avere una riposta e un rimedio di “mercato”.
Si disse lo stesso nella crisi del 1007-2008, dopo la quale invece nulla cambiò. Ma quella era un crisi in circolo ristretto, tra banche e banchieri centrali. Che se la sono risolta addossandone i costi agli Stati, senza per nulla sanzionarsi, né mutare le regole. Ora questo non è possibile.
Per una reazione popolare - Trump, outsider della politica, lo è per molti aspetti anche degli affari (banche e fondi). Per una reazione istituzionale, guidata ancora dagli interessi costituiti, ma non puramente finanziari (speculativi). Una reazione si prospetta necessaria da troppi pulpiti: il Congresso, i Comuni, i centri studi, i gruppi d’interesse. E con la recessione globale indotta dal coronavirus diventa probabilmente necessaria, e forse possibile.
Il laissez-faire è britannico (classista), cioè inglese e americano. E negli Usa e in Gran Bretagna uscirà dalla crisi con le ossa rotte, essendo già indebolito. Anche perché sprovvisto delle salvaguardie pubbliche che gli altri paesi occidentali, in qualche modo, si sono preservati.
Nel 2007-2008 il raddrizzamento non fu fatto perché i soggetti interessati erano gli stessi che avevano imposto la crisi. Oggi non sono gli affari i primi attori, ma l’opinione: dopo il blocco produttiva, che sicuramente sarà lungo, le macerie saranno tante che procedere come prima sarà impossibile.

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