“Viviamo in una società mondiale del rischio,
non solo nel senso che tutto si trasforma in decisioni le cui conseguenze
diventano imprevedibili, o nel senso delle società della gestione del rischio”,
che pullulano, business prolifico, “o
in quelle delle società del discorso sul rischio”, che proliferano nei talk-show: “Società del rischio
significa, precisamente, una costellazione nella quale l’idea che guida la modernità, cioè l’idea della controllabilità
degli effetti collaterali e dei pericoli prodotti dalle decisioni, è diventata
problematica”, p. 28. L’innovazione continua e radicale comporta uno strano
senso di sicurezza, di dominio del “collaterale”, previsto o anche imprevisto.
Mentre moltiplica di fatto il rischio.
L’innovazione incessante implica che “il
confine tra sapere e non sapere si dissolve”. Si dissolve anche quello
normativo, che è ancora statuale: “In riferimento alle sfide attuali –
trasformazioni prodotte dall’ingegneria genetica e dall’ingegneria umana,
flussi di informazioni difficilmente delimitabili, crolli del sistema
finanziario, terrorismo, distruzioni ecologiche – vengono minati i fondamenti
nazional-statali della logica convenzionale del rischio”, 47. I rischi si
moltiplicano, le difese si assottigliano. Moltiplicando per contro i rischi
politici: “I rischi globali producono «failed states» autoritari – anche in
Occidente”, 129 – il populismo: la politica confusa ma sbrigativa.
È il 2007, le “pesti” non ci sono ancora state,
la “mucca pazza” di origine britannica sembrava un evento eccezionale, ma la
globalizzazione le comportava – Beck fa il caso della Cina che, grande
consumatrice di energia, andava, e va, a carbone. Farsi globali è buono e
giusto, argomenta lo stesso sociologo, ma comporta rischi: si perde, anche
molto, di quello che si ha, venendo da una situazione di affluenza (ricchezza,
anche economica, stabilità, futuro), e non si sa cosa si acquista. Restando nel
mezzo indifesi.
Il rischio del contagio è a metà trattazione.
Non propriamente dei virus letali, ma per la logica della mancanza di difese. Siamo
in una società virale in senso proprio, non da social: dell’infettività. Senza difese precostituite, malgrado la
presunzione o insolenza dei saperi. Si fa molto caso del coronavirus, che pure
è blando. Ce ne sono di peggiori, nella finanza, nel commercio, nei saperi, e
ipoteticamente nella sanità. Dove peraltro le pesti sono endemiche, a breve
distanza di tempo, la “mucca pazza”, Ebola, l’“aviaria”, la “suina”, il
coronavirus, un fiore. In questi ultimi trent’anni, del “never had it so good”, mai stati così bene, nel mondo aperto e
operoso.
Un tipo di riflessione a cui purtroppo l’Italia
si è disabituata, tutta puntata sul cazzeggio del “mercato” e delle “magnifiche
sorti e progressive”. Beck non è di un altro mondo, insegna - ha insegnato - a
Monaco di Baviera e a Londra. Dove questa riflessione si è sviluppata, tra lui,
Anthony Giddens, e altri studiosi. Ignota all’Italia, che anche per questo è
senza difese. Di una cultura disarmata - si spiega così che la ricerca di Beck non
sia stata discussa e neanche, evidentemente, letta (proposta peraltro in modo
ambiguo: il sottotitolo, “Il rischio nell’età globale” è il vero tema - meglio
precisato nell’originale, “Weltrisikogesellschaft”, la società mondiale del
rischio). Ma la superficialità pesa pure sul senso comune. Ogni cambiamento è
chiaro che comporta un pericolo. Ci vorrebbe cautela.
L’ultimo, breve, capitolo, sulla
desacralizzazione (disincanto) del mondo, il sociologo intitola “Come le crisi
del Moderno nascono dalle vittorie del Moderno”. Il tema è semplice. “Le«voci più
recenti» dell’apocalisse prossima ventura” sono un elenco terrificante:
“moltiplicazione illimitata delle armi atomiche e dei mezzi di combattimento
chimico-biologici, 11 settembre, tsunami, uragani, peste aviaria, Aids”, nel
2007 - e dimentica il surriscaldamento del pianeta.
Ulrich
Beck, Conditio humana, Laterza,
remainders, pp. 402 € 4,75
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