martedì 10 marzo 2020

La società virale

“Viviamo in una società mondiale del rischio, non solo nel senso che tutto si trasforma in decisioni le cui conseguenze diventano imprevedibili, o nel senso delle società della gestione del rischio”, che pullulano, business prolifico, “o in quelle delle società del discorso sul rischio”, che proliferano nei talk-show: “Società del rischio significa, precisamente, una costellazione nella quale l’idea che guida la modernità, cioè l’idea della controllabilità degli effetti collaterali e dei pericoli prodotti dalle decisioni, è diventata problematica”, p. 28. L’innovazione continua e radicale comporta uno strano senso di sicurezza, di dominio del “collaterale”, previsto o anche imprevisto. Mentre moltiplica di fatto il rischio.
L’innovazione incessante implica che “il confine tra sapere e non sapere si dissolve”. Si dissolve anche quello normativo, che è ancora statuale: “In riferimento alle sfide attuali – trasformazioni prodotte dall’ingegneria genetica e dall’ingegneria umana, flussi di informazioni difficilmente delimitabili, crolli del sistema finanziario, terrorismo, distruzioni ecologiche – vengono minati i fondamenti nazional-statali della logica convenzionale del rischio”, 47. I rischi si moltiplicano, le difese si assottigliano. Moltiplicando per contro i rischi politici: “I rischi globali producono «failed states» autoritari – anche in Occidente”, 129 – il populismo: la politica confusa ma sbrigativa.
È il 2007, le “pesti” non ci sono ancora state, la “mucca pazza” di origine britannica sembrava un evento eccezionale, ma la globalizzazione le comportava – Beck fa il caso della Cina che, grande consumatrice di energia, andava, e va, a carbone. Farsi globali è buono e giusto, argomenta lo stesso sociologo, ma comporta rischi: si perde, anche molto, di quello che si ha, venendo da una situazione di affluenza (ricchezza, anche economica, stabilità, futuro), e non si sa cosa si acquista. Restando nel mezzo indifesi.
Il rischio del contagio è a metà trattazione. Non propriamente dei virus letali, ma per la logica della mancanza di difese. Siamo in una società virale in senso proprio, non da social: dell’infettività. Senza difese precostituite, malgrado la presunzione o insolenza dei saperi. Si fa molto caso del coronavirus, che pure è blando. Ce ne sono di peggiori, nella finanza, nel commercio, nei saperi, e ipoteticamente nella sanità. Dove peraltro le pesti sono endemiche, a breve distanza di tempo, la “mucca pazza”, Ebola, l’“aviaria”, la “suina”, il coronavirus, un fiore. In questi ultimi trent’anni, del “never had it so good”, mai stati così bene, nel mondo aperto e operoso.
Un tipo di riflessione a cui purtroppo l’Italia si è disabituata, tutta puntata sul cazzeggio del “mercato” e delle “magnifiche sorti e progressive”. Beck non è di un altro mondo, insegna - ha insegnato - a Monaco di Baviera e a Londra. Dove questa riflessione si è sviluppata, tra lui, Anthony Giddens, e altri studiosi. Ignota all’Italia, che anche per questo è senza difese. Di una cultura disarmata - si spiega così che la ricerca di Beck non sia stata discussa e neanche, evidentemente, letta (proposta peraltro in modo ambiguo: il sottotitolo, “Il rischio nell’età globale” è il vero tema - meglio precisato nell’originale, “Weltrisikogesellschaft”, la società mondiale del rischio). Ma la superficialità pesa pure sul senso comune. Ogni cambiamento è chiaro che comporta un pericolo. Ci vorrebbe cautela.
L’ultimo, breve, capitolo, sulla desacralizzazione (disincanto) del mondo, il sociologo intitola “Come le crisi del Moderno nascono dalle vittorie del Moderno”. Il tema è semplice. “Le«voci più recenti» dell’apocalisse prossima ventura” sono un elenco terrificante: “moltiplicazione illimitata delle armi atomiche e dei mezzi di combattimento chimico-biologici, 11 settembre, tsunami, uragani, peste aviaria, Aids”, nel 2007 - e dimentica il surriscaldamento del pianeta.

Ulrich Beck, Conditio humana, Laterza, remainders, pp. 402 € 4,75 

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