Qui è diverso: la “lingua materna” di cui Hannah Arendt tesse l’elegia,
in un’intervista del 1964 alla tv tedesca, è il tedesco. Un’avocazione, di
lingua e di cultura, sorprendente, e anche ambigua. Vale per per H.Arendt come
per Celan e Nelly Sachs, perseguitati per essere ebrei, benché tedeschi o
tedescofoni: il tedesco resta la Muttersprache, lingua
materna, per i sopravvissuti e i morti, non solo per Hannah Arendt. E dunque la
storia non c’è?
Ma
l’intervista si ripropone perché è un atto di onestà – un po’ come Primo Levi
si poneva nei confronti della Germania: la lingua, la cultura, sopravanza la
storia.
Il sottotitolo, “La condizione umana e il pensiero plurale”, è
un po’ la sintesi del saggio introduttivo di Alessandro Dal Lago, che ha curato
il volumetto: il “mito illuminista” è “tragedia o farsa”, senza “memoria
culturale” Robinson non esiste. Arendt va oltre. Gli intellettuali “non erano
assassini. Erano persone che si erano prese in trappola da sole”.
L’imparzialità è in Omero anche in favore degli sconfitti, e in Erodoto anche
per i barbari.
Alla
conversazione è allegato un saggio intitolato “L’atto originario della
filosofia politica è lo stupore”. Titolo editoriale da Jeanne Hersch - di cui
però non c’è menzione - per un testo presentato come “ampio estratto” di una
conferenza del 1954, “Concern with
politics in recent european philosphical thought”. Pieno di spunti, su Hegel,
il nichilismo, l’esistenzialismo. E di un ritornello – che tornerà in altre
opere di H.Arendt: la filosofia politica è lasciata ai cattolici, gli unici
capaci di risvegliare un interesse per i problemi classici della filosofia
politica. Ciò perché, fino a un certo punto, “sono ciechi di fronte alla storia”.
Ma anche perché è “nella storia della Cristianità” che “la nozione di società
universale (nelle diverse forme della civitas
dei) sorse per la prima volta”.
Hannah Arendt, La lingua
materna, Mimesis, pp. 114 € 10
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