La prima opera di Sartre è questo romanzo. Per
modo di dire: una serie di riflessione su una traccia esile. A metà tra
Cartesio e Luigi XIV, malgrado gli studi in Germania, sulla fenomenologia di
Husserl, e del suo discepolo Heidegger. Tra verosimile e inverosimile. Tra corpo
e anima: “Il corpo vive da solo, una volta che ha cominciato. Ma il pensiero
sono io che lo continuo, che lo
svolgo… Il pensiero sono io”. Tra fare e non fare: “Non ho nemmeno ragioni per
non farlo”. E da ultimo: “Mai un esistente può giustificare l’esistenza di un
altro esistente. Bisognerebbe arrivare all’essenza,
ma…” – che sembra Heidegger ma non lo è.
Al fondo c’è un (primo) rifiuto della cultura
di massa. Che negli anni 1930 non era identificata ma si poneva. Almeno per il personaggio
del racconto. Roquentin, seduto all’ombra di un castagno, nel villaggio di Bouville, il tema se lo pone già con durezza: che ci faccio io qui, si
dice, sentendosi “soffocare di rabbia”, per le “masse mostruose” da cui si
sente assediato, di “spesso essere
assurdo”. Le sue proprie “avventure”, donne, traffici, eccetera, non hanno senso per lui, e nemmeno per il lettore - la “nausea” è di tutto ciò che incontra, l’esistente:
“Che porcheria! Che porcheria!” si va dicendo mentre si aggira per la città di fango (Bouville).
“O si vive o si racconta”, dice Sartre-Roquentin.
Ma a volte non va né l’uno né l’altro. Sartre vorrebbe raccontare il nulla. “Quando
si vive, non succede nula. Cambia la scena, la gente entra ed esce, ed è tutto.
Non c’è mai un inizio… E poi tutto si somiglia: Shangai, Mosca, Algeri”. In più
accordi, su più strumenti, one man’s band:
“Sono io, sono io che mi estraggo dal niente al quale aspiro: l’odio, il
disgusto di esistere sono altrettanti
modi di farmi esistere, d’ìnfognarmi
nell’esistenza”. E alla fine: “Se fossi sicuro di avere talento”.
Wikipedia celebra “La nausea” come “il più
celebre romanzo esistenzialista”. Bisogna pensare male dell’esistenzialismo?
Jean-Paul Sartre, La nausea, Einaudi, pp. 242 € 12
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