Quanto di più vicino alla “scrittura di classe”
che si cercava sessant’anni fa, contro “l’industrialotto”, i “dané”, il
“lavorerio”, il che forse spiega l’entusiasmo di Vittorini e di (con riserve)
Calvino, ma per questo ora piatto. Come critica di una stagione breve, anzi una
febbre, di un mondo remoto. Compreso il disdegno generazionale per il “lavoro
fisso”, “l’integrazione”, vocabolo allora proibito. Una cosa a metà ideologica,
di partito, e a metà tradizionalista, alla Pasolini, più che la rivolta
generazionale che seguirà negli stessi anni 1960.
Una trilogia che si legge – anche il pezzo
originario, “Il calzolaio”, che ha più inventiva lessicale, più umori - come un
documento d’epoca. Non degli “scarpari” vigevanesi, con la “fabbrichetta” nello
scantinato e la febbre dei “dané”, un mondo a tutti gli effetti spento, quanto
del naso arricciato intellettuale di fronte al boom - “Il calzolaio” si
svolge a cavaliere della guerra, ma linguaggio e personaggi sono del boom. Il personaggio del romanzo che
apre la trilogia, il maestro elementare, si definisce “piccolo borghese”.
Leggendo la trilogia adesso, con l’immensa
Vigevano che è la Cina comunista, con i bassi salari e l’inquadramento ferreo,
come documento sociale è perfino ridicola – o una satira della satira. Tanto
più in quanto è severa: un fare e disfare continuo, a fisarmonica, di un mondo
in sostanza dei vinti. Il “lavorerio” consuma e non aggruma, se non
temporaneamente, per caso: contro la malasorte non c’è rimedio. Ma senza pietà.
Senza costrutto anche, né politico né sociale: un mondo affaccendato, ma si
direbbe di stupidi.
Il primo tentativo riuscito dell’Italia di
tirarsi fuori dalla povertà diffusa va in parallelo col rifiuto, con la censura
intellettuale. Una dissociazione che Mastronardi, maestro elementare nella
stessa Vigevano nel mentre che irrideva la città, pagherà con l’isolamento,
fino al suicidio. E che resta, purtroppo, solo per quel (poco) di umoristico
che sopravvive nel persistente, unilineare, programmatico, rifiuto. Di un
vigevanese peraltro per buona metà acquisito, perché di padre abruzzese, un
ispettore scolastico mandato d’autorità in quiescenza anticipata perché
antifascista.
L’umorismo è quello “naturale” del dialetto –
altra ragione che fece amare Mastronardi da Vittorini e, con riserva, da
Calvino, nella stagione del tardo Gadda e del primo Pasolini. Ancora vivo nei
dialoghi. Nel “Calzolaio” e, meno, nel “Meridionale”. Anche se (probabilmente)
suona falso localmente, allo storico locale – Mastronardi ha anche poco della
memoria storica: luoghi non-luoghi, e modi di essere, e anche di dire, forse
mai esistiti di fatto. “Il maestro”, che è il racconto più vero – da maestro a
maestro – è per questo più debole, per il corretto italiano. Oltre che per l’impianto: un
borghesissimo “Kramer contro Kramer” – non una critica sociale, un’implosione,
senza ratio, senza misericordia.
L’edizione della trilogia è impreziosita dai
saggi di Calvino, Ferretti (di Mastronardi specialista) e Maria Antonietta
Grignani, con un glossario di Valentina Zerbi.
Lucio Mastronardi, Il maestro di Vigevano. Il calzolaio di Vigevano. Il meridionale di
Vigevano, pp. 469 € 17
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