lunedì 30 marzo 2020

Tremonti contro Draghi

Contro Draghi, che oggi sembra fare l’unanimità come salvatore della patria, scaglia due pesanti accuse l’ex ministro del Tesoro Tremonti in una dettagliata intervista  con Andrea Indini sul “Giornale”. Senza nominarlo ma individuandolo con chiarezza, in due punti chiave: della competitività internazionale, e della crisi italiana del debito.
 Nell’ottobre del 2008, come ministro dell’Economia e delle Finanze italiano, ho scritto alla presidenza di turno europea, al ministro Lagarde, una lettera. In quella lettera, scritta mentre la crisi stava esplodendo, c'erano un punto generale sul bisogno di regole per l’economia e un punto particolare europeo sull’esigenza di un Fondo salva Stati per gestire la crisi. Punto primo: in sede G20 il governo italiano proponeva di stendere, insieme all'Ocse, un trattato multilaterale denominato “Global legal standard” (Gls). Il senso era: si deve passare dal free trade al fair trade. Non basta che a valle il prezzo di un prodotto sia giusto (free trade), è necessario che a monte ne sia giusta anche la produzione, rispettosa di tante altre regole (fair trade). Ad esempio, all'articolo 4, si era scritto: regole ambientali ed igieniche. Il trattato fu votato dall’Ocse ma questa filosofia politica fu battuta dal “Financial stability board” (Fsb), ispirato dalla finanza come dice il nome stesso”. 
Del Financial Stability Board era parte, per l’Italia, Draghi.
Al secondo punto della lettera “il governo italiano faceva notare che nei trattati europei non cera la parola crisi. Trattati che erano stati tutti scritti in termini progressivi e positivi dove il bene era la regola e il male era l’eccezione non prevista. Si iniziò, quindi, sulla base della nostra proposta, la discussione sulla crisi e sulla necessità di introdurre un fondo anti crisi. Alla fine, una notte, fu invitato in Eurogruppo un notaio per incorporare con strumenti di diritto privato il primo fondo europeo. La logica della discussione, in quelle lunghe notti, era: sopra serietà, pur se non austera, nel fare i bilanci nazionali, sotto solidarietà per chi andava in crisi e, in mezzo, il fondo europeo come piattaforma da cui lanciare gli eurobond. Sugli eurobond ricordo l'articolo scritto sul Financial Times da me e Juncker”. 
Poi tutto si è rotto quando è esplosa la crisi della Grecia... “Al tempo ero presidente dei ministri dell'Economia del Ppe. Quando Juncker chiese di usare il Fondo salva Stati per salvare le banche, risposi: ‘Potrebbe, ma a patto che la contribuzione nazionale al fondo non sia basata sul Pil, come giusto nella funzione salva Stati, ma sul rischio, come giusto nella funzione salva banche. Sulla Grecia le banche tedesche e francesi erano a rischio per 200 miliardi di euro, l’Italia solo per 20. L’ipotesi del passaggio nel calcolo dal pil al rischio innescò la crisi. Qualche giorno dopo esplosero gli spread e fu spedita la lettera Bce-Bankitalia del 5 agosto”. 
La lettera, che doveva essere riservata e fu resa pubblica, portando  l’Italia al quasi fallimento, fu firmata per la Banca d’Italia da Draghi.
Segue nell’intervista una coda velenosa, che assimila Draghi a un quisling: “Obiettivo di queste manovre non era solo prendere i nostri soldi per salvare le loro banche ma anche mascherare gli altrui vizi di sistema e, passando dal calcolo sul Pil al calcolo sul rischio (“dal calcolo sul rischio al calcolo sul Pil è probabilmente la redazione giusta - n.d.r.), evitare di far venir fuori la vera causa della crisi, una crisi bancario-sistemica che era più nel Nord che nel Sud dell’Europa”. 

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