domenica 5 aprile 2020

Di che parliamo quando parliamo

Alla fine come all’inizio, la metodologia nelle scienze sociali sarà stata tutto per Sartori. Conosciuto dal grande pubblico in tv come progettista costituzionale, e dei sistemi elettorali, aveva avviato la nuova disciplina di Scienza Politica o Sociologia politica a fine anni 1950 accompagnando quello che sarà il suo classico, “Democrazia e definizioni”, 1957, già esso stesso un manuale di semantica, con una corposa dispensa “Questioni di metodo in Scienza politica”: di che cosa parliamo quando parliamo. Che sembra semplice, ma è la matematica del fatto sociale, compresa la comunicazione - compresa la ricerca.
Il volume raccoglie studi e interventi succedutisi sullo stesso metro nel corso dei decenni. Lo scienziato sociale, il sociologo politico, deve sempre riflettere sugli strumenti che usa, tararli, relazionarli. Sulle metodologie che usa personalmente, e su quelle della disciplina, o per gli effetti per i quali studia o opera. A partire dalla “cosa”, dal tema o fatto dell’indagine.
Nel brano autobiografico “Caso, fortuna e ostinazione. Come fu che divenni scienziato della politica” Sartori sembra contraddire questo suo impegno. Descrivendo umoristicamente come casuale il suo approdo all’insegnamento. Lettore forzoso e svogliato di filosofia durante il lungo anno di isolamento 1943-44, rinchiuso in casa in quanto disertore della repubblica di Salò. Poi assistente (allora gratuito: si deve a questa “professione”, gli assistenti universitari, il conio della parola portaborse) di Teoria generale dello Stato, la germanica Staatslehre, cattedra tenuta da Pompeo Biondi - “Pompeone” per la statura imponente, “insegnante non diligente, ma mente lucidissima, meravigliosamente brillante”. Che per una bizza accademica lo nomina professore di Storia della filosofia moderna, dovendo non sfigurare in un consiglio di facoltà che nominava professore il venticinquenne Spadolini, un anno meno di Sartori, candidato del preside Maranini. Un insegnamento che con fatica svolge. Finché non riesce a ritagliarsi, attraverso Sociologia, un insegnamento di Sociologia politica. E quindi, nel 1963, a diventare “il primo e unico professore ordinario di Scienza politica in Italia”.
Chiarirsi: una fatica di Sisifo? Goethe così la spiegava, scrivendo al geologo Carl Cesar von Leonhard il 12 ottobre 1807: “Certo si disputerebbe assai meno sugli oggetti della conoscenza, sulla loro deduzione e spiegazione, se ognuno, di fronte a tutte le cose, conoscesse se stesso e sapesse a quale partito appartenga, che cosa sia più adeguato per il modo di pensare della sua natura… In tutte le discussioni, alla fine, non si arriva più in là del fatto che due modi della rappresentazione contrapposti e inconciliabili vengono chiaramente ad esprimersi”.
Ma nel prosieguo della memoria Sartori spiega anche il perché della sua fissazione con le metodologie: “Io ero interessato alla logica. Ma la logica non veniva insegnata nelle università italiane ed era anatema sia per la filosofia idealistica sia per la dialettica marxista (le scuole di pensiero dominanti)”. Degli effetti di questa estraneità si può dare personale testimonianza, risultando Sartori indigesto come specialista e commentatore all’apparato Pci a “la Repubblica”, e a lungo anche al gruppo del “Corriere della sera”.

Giovanni Sartori, Logica, metodo e linguaggio nelle scienze sociali, Il Mulino, pp. 288 € 28

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